Valentina Trogu. Bielorussa: l’aspetto sociologico delle proteste di piazza

  

 

Valentina Trogu

 

La società civile bielorussa ha detto basta. Basta ad imbrogli, raggiri, repressioni violente e alla solitudine in cui si trova dopo che le elezioni presidenziali del 9 agosto scorso hanno visto riconfermare la vittoria di Alexander Lukashenko, presidente da ben 26 anni. Il popolo non crede nel risultato dell’80% dei consensi  ed è stanco di sentirsi vittima di un governo che sotto la maschera di una Repubblica Presidenziale nasconde le fattezze di un regime dittatoriale in cui la qualità di vita del cittadino, le sue esigenze e i bisogni primari risultano essere all’ultimo gradino di una ipotetica scala di valori. Le elezioni del 2020 non sono state le uniche a causare la scesa in piazza dei bielorussi  per contestare i risultati, già nel 2006 e nel 2010 si era intravista una reazione del popolo ma la differenza è che oggi la Bielorussia è diversa, è una società che sta prendendo consapevolezza del fatto di stare affondando lentamente  schiacciata da un potere autoritario che chiede e non dà e si ritrova ad essere stanca  di dover subire senza reagire. Ecco, allora, la ribellione che ha innescato una forte crisi sociale a cui Lukashenko ha saputo rispondere solamente con una brutale repressione che ha portato ad uccisioni e incarcerazioni. La reazione violenta del Presidente non ha scoraggiato la società civile, non ha fermato le proteste ma ha avuto, forse, conseguenze opposte alle intenzioni di Lukashenko. La coesione sociale dei bielorussi è aumentata così come il livello di organizzazione delle proteste, basti pensare al numero di 200 mila partecipanti alla manifestazione del 16 agosto nel centro della città di Minsk. Parliamo di quantitativi mai raggiunti nella storia della Bielorussia che sottolineano la presa di posizione di una società che esige un cambiamento al potere per poter smettere di affondare e cominciare la risalita verso la superficie. I bielorussi stanno agendo come un gruppo coeso il cui inconscio collettivo, inteso come stratificazione sedimentata delle esperienze vissute, crea uno schema coerente ed unitario sia di azioni che di pensieri che risultano influenzate da particolari forze sociali che li spingono verso assunzioni di rischio non contemplabili a livello individuale. Stiamo assistendo, sociologicamente parlando, ad una estremizzazione delle posizioni orientata verso una direzione ben precisa, l’allontanamento di Lukashenko dal potere, che corrisponde ad una polarizzazione di gruppo frutto del rafforzamento di una posizione già predominante nel gruppo stesso da tempo e solo ora chiaramente manifestata. La consapevolezza acquisita dai bielorussi, già accennata, riguarda il voler mettere fine all’obbedienza distruttiva verso un leader a cui è stata riconosciuta in passato un’autorità e il diritto di chiedere la cieca obbedienza ma che oggi è ritenuto responsabile della grave situazione in cui si trova la Bielorussia. Ricordiamo che la nazione sta affrontando una crisi del modello economico-sociale dovuta alla stagnazione dell’economia e dei salari, all’introduzione di riforme del mercato del lavoro e all’avvio di processi di privatizzazioni e liberalizzazioni che hanno acuito il malcontento della popolazione.  Oltre alla presa di coscienza dell’impossibilità di continuare a vivere sotto il potere di Lukashenko, la percezione delle proprie responsabilità da parte della società civile bielorussa deve avere avuto un impatto non trascurabile sulla decisione di protestare con veemenza contro il risultato delle ultime elezioni. La strada del silenzio dell’obbedienza ha portato verso situazioni sempre più gravi caratterizzate dalla perdita delle libertà individuali, dall’impossibilità di agire per libero arbitrio, di pensare autonomamente e, soprattutto, di vivere con dignità; il popolo bielorusso non ha potuto più accettare tutto questo e forte della coesione di gruppo ha assunto una posizione avversa, come non ha mai fatto prima, nei confronti del leader autoritario. Lukashenko, nell’arco dei 26 anni di potere, ha perso agli occhi della società civile quelle caratteristiche che legittimavano la sua presidenza e ha spogliato il termine “controllo sociale” del suo reale e costruttivo significato. Ogni società è retta da regole di comportamento, alcune tradotte in norme legislative altre non codificate, che hanno lo scopo di assicurare coesione tra cittadini, stabilità sociale e salvaguardia di ogni contesto sociale. Il controllo è accettato se inteso non come minaccia alla libertà individuale ma come elemento fondamentale per il benessere generale capace di risvegliare i sentimenti di appartenenza e di comunità secondo il principio che definisce la libertà “l’area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata dagli altri”. Il rispetto delle regole avviene se ogni singolo individuo vede la propria libertà essere garantita dai sistemi di controllo che hanno lo scopo di salvaguardarla; in caso contrario, come sta avvenendo in Bielorussia, crescerebbero malumori, sofferenze, instabilità normative e la conseguenza diretta sarebbe proprio una crisi sociale.

Il leader non ascoltando la folla, non garantendo i diritti e la dignità di ogni singolo individuo perde la sua capacità di influenzare, di vincere le resistenze degli altri e di creare quell’accettazione motivata che garantisce la legittimità del potere con il risultato di far crescere oltre misura l’insoddisfazione della società fino alla ribellione.

I bielorussi si sono ritrovati soli in un momento cruciale come quello dato dall’epidemia da Covid-19, virus che è stato capace di mettere in ginocchio nazioni ben più solide e organizzate della Bielorussia, provocando milioni di morti e una paura generale destabilizzante causata dall’incertezza del presente e del futuro. Questo nemico intangibile ma reale ha colpito ad oggi più di 80 mila persone in Bielorussia provocando oltre 800 decessi, cifre considerevoli se si pensa che l’Ungheria, nazione con numero di abitanti equivalente, ha registrato circa 30 mila contagi, e la gravità della situazione si può ricondurre all’assenza di misure di contenimento adeguate. Mentre il presidente Aleksandr Lukashenko nel mese di aprile suggeriva di combattere il Coronavirus con Vodka e sauna, i medici bielorussi, seriamente preoccupati per la mancanza di strutture adeguate di supporto e per i rischi mortali delle polmoniti, invitavano caldamente la popolazione a seguire delle specifiche raccomandazioni che hanno portato un gran numero di persone ad adottare una quarantena popolare volontaria per evitare la proliferazione di nuovi focolai. Il popolo bielorusso, privo di indicazioni statati, si è trovato senza quella guida che risulta essere fondamentale in periodi di instabilità e incertezze e questa mancanza di attenzione da parte di chi è stato legittimato come leader ed insignito del compito di tutelare l’intera società civile si è rivelata inaccettabile ed è andata ad ampliare ulteriormente la frattura tra i bielorussi e Lukashenko. Il divario tra il popolo e il suo leader si legge chiaramente nella scelta di portare avanti proteste e manifestazioni pacifiche da una parte e una violenta repressione armata dall’altra con filo spinato in città e arresti di donne, giovani e anziani la cui unica colpa è la richiesta a gran voce delle dimissioni di Aleksandr Lukashenko.

Nelson Mandela disse “Nella vita di ogni nazione viene sempre il momento in cui restano solo due opzioni: arrendersi o combattere”; i bielorussi hanno scelto di seguire, pacificamente e con determinazione, la seconda opzione.

 

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