Alessia Biasiolo STORIA IN FUMO

  
DIBATTITI

 di Alessia Biasiolo*

Premessa

La Storia si può leggere sotto molti punti di vista e spesso la si pensa come slegata dal vivere spicciolo comune. Gli aspetti legati alla voluttuarietà della vita, ad esempio, acquisiscono uno spessore diverso quando li si analizza dal punto di vista della spesa  complessiva di una nazione; quando la spesa incide sulla bilancia commerciale; quando le abitudini dei singoli diventano tasse da versare all’erario. Quando quelle tasse sono servite a fini bellici, essendo le guerre le più studiate sui libri di scuola. È il caso del fumo, vezzo che ha una storia lunga ed affascinante.

Leggiamo un documento che cita l’abitudine di fumare sigari in chiave determinante per le sorti di uno Stato.

 

REGNO LOMBARDO-VENETO, Milano 5 gennaio. Nello strano intendimento di danneggiare il patrimonio publico volevano alcuni malevoli in questa Milano con cartelli diffusi anche fra il popolo inibire a tutti l’uso di fumare, di fiutar tabacco e di giuocar al lotto col principiare di quest’anno. Si crede a buona ragione che una pretesa così insana accolta derisoriamente cadesse affatto inane. Ma quel giorno festivo, due corrente, molti irrequieti si fecero a proverbiare con insulti nelle vie publiche i fumatori; non risparmiando fra questi anche i militari. L’Autorità dovette quindi accorrere per tutelare l’ordine, la quiete publica, ed impedire le predette sopraffazioni, e vi riesciva disperdendo i perturbatori, e facendo arrestare i più audaci. Nel giorno appresso si rinnovarono per altro insulti eguali, particolarmente verso i militari che trovandosi collo zigaro in bocca vennero di nuovo dalla plebe investiti con invettive, fischj ed urli, e persino con alcune sassate; risentendosi questi dei ricevuti oltraggi posero mano alle armi, e ferirono alquanto borghesi, fra i quali più sgraziatamente venne colpito a morte con un fendente di sciabola sul capo l’I. R. Consigliere d’Appello Don Carlo Manganini, che inventoratamente trovossi involto e trascinato nell’insorto conflitto. Poco stante però il pronto intervento dei Superiori militari e l’opera zelante della Autorità civili valsero ad impedire ogni altro disordine, ed a ripristinare nella notte la sicurezza publica e privata. Il numero dei feriti che furono accolti nell’Ospedale Maggiore ascende a diecinove, e quattro vennero trasportati in altro Spedale”.

Fumo e rivolte risorgimentali

È il proclama che il governo asburgico fece emanare all’indomani del famoso sciopero del fumo, organizzato nel 1848, in pieno clima di ribellione organizzata, pur se alla bell’e meglio ancora, contro l’odiato occupante.

L’Austria che deteneva il Lombardo-Veneto, aveva strozzato l’imprenditorialità locale, monopolizzando la produzione di panni di lana, di tabacco da fiuto e lavorato, riducendo al minimo la notoria produttività armiera della Valtrompia e rendendosi invisa agli occhi dei lombardo-veneti anche per molti altri editti.

Brescia, piccola città di circa 15mila abitanti nel suo centro storico, ad esempio, ospitava altrettanti soldati austriaci nelle molte caserme, perché ritenuta pericolosa in vista di una rivolta, dopo i moti degli anni Venti dell’Ottocento e dopo le gesta di cui gli occupanti leggevano sui testi storici, anche militari, risalenti al Cinquecento. La città sarà, infatti, teatro della mitica e terribile rivolta delle Dieci Giornate soltanto un anno dopo i fatti milanesi di cui il proclama è antefatto.

Gli austriaci avevano messo a punto delle ben organizzate maniere per ottenere oboli dalle popolazioni, imponendo gabelle praticamente su tutto e creando il gioco del Lotto che ebbe in poco tempo notevole successo, venendo sospeso soltanto per i momenti più crudi dei combattimenti risorgimentali, ad esempio, ed essendo subito riaperto per tenere calmi gli animi, nonché per non subire salassi erariali per il mancato introito che ne derivava. Le popolazioni lombardo-venete si sentivano sempre più oppresse dalla mancanza di rispetto nei loro confronti; da un governo lontano nello spazio e lontano dai propri bisogni; tradita nelle piccole cose di tutti i giorni, come il doversi coprire (per dispetto alle casse viennesi nacque il vestito “alla lombarda”, in velluto di cotone anziché di lana) o masticare tabacco, abitudine tanto maschile che femminile, soprattutto aristocratica. L’alternativa al panno prettamente di produzione austriaca, si abbinò quindi all’imposizione di non fumare più comperando nelle rivendite autorizzate, con alternative locali che imponevano altrettante mancate tasse per l’occupante, contro il quale ben presto si ricorse in armi.

 

Il tabacco e il suo utilizzo europeo

Il tabacco e il sigaro ebbero sempre un ruolo importante nella storia europea, almeno da quando il tabacco arrivò in Europa, e un ruolo importante anche nei conflitti.

Considerato a lungo la panacea di tutti i mali, l’uso del tabacco fu universale nella farmacopea. Sia medici che farmacisti ne elogiavano le proprietà, soprattutto contro nevralgie, coliche, ulcera, mal di denti, perdite di memoria, vertigini, morsi di serpenti e di cani idrofobi. Secondo lo spagnolo Monardes, il tabacco guariva ben 36 malattie, comprese la sifilide (che affliggeva regnanti, ma soprattutto molti militari), l’asma e la bronchite. La pianta di tabacco veniva impiegata come impiastro, per inalazione, come decotto, veniva masticata.

In breve tempo, si diffuse l’abitudine all’uso voluttuario, e questo comportò l’inversione di tendenza, con il tabacco demone da combattere. Contro l’abitudine di fumare si schierò, ad esempio, re Giacomo I d’Inghilterra che scrisse un libro per demonizzarla. Papa Urbano VIII scomunicava chi fumava tabacco o lo usava in generale, ma niente da fare. L’uso non si arrestava lo stesso, con pullulare di pipe che si diffusero in tutto il Vecchio Continente grazie alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648), e dovettero cedere le interdizioni, che finirono nella seconda metà del Seicento.

I governi ottennero comunque la meglio imponendo la gabella su un uso ormai legittimato, e mantenendo il monopolio sul fumo e la masticazione del tabacco. Il primo ad inventare una tassa specifica sul tabacco fu il cardinale Richelieu nel 1629; il Granducato di Toscana fu il primo stato italiano a seguirlo, nel 1645.

L’uso su larga scala del sigaro iniziò nell’Ottocento e l’Italia non fu da meno di altri Paesi nella produzione.

Affermava l’adagio “Dello zigaro. Lo zigaro è la prima materia ridotta da se stessa. Alle estremità il fuoco e l’acqua. Una leggera pressione delle labbra attiva il fumo, e le mucose sono dolcemente solleticate dal succo del tabacco”.

Una volta diventati italiani, i territori di produzione del tabacco lavorato garantivano un introito al Regno, che mantenne le gabelle, ritenute irrinunciabili per i bisogni erariali.

Nacque il famoso giornale “Il Resto del Carlino”, nel 1885 a Bologna, ad esempio, perché venduto a due centesimi, cioè il resto dato dai tabaccai a chi acquistava un sigaro pagandolo con una moneta chiamata Carlino; il resto, quindi, veniva investito in una lettura che divenne di culto, assaporando il buon sigaro mentre si approfondivano le notizie. Le monete circolanti nell’Italia divisa in Stati erano molteplici e il Carlino, coniato sin dal 1278, era ancora circolante al momento dell’unificazione.

Nel 1900, sigari e sigarette costituivano il 41,5 per cento del consumo globale di prodotti del tabacco. Le sigarette, che allora si chiamavano spagnolette, rappresentavano il 5 per cento del mercato. Fumavano poveri e regnanti: Vittorio Emanuele II era un noto estimatore del sigaro Toscano e fumavano il sigaro Giuseppe Garibaldi come Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Alberto Franchetti amico di Gabriele D’Annunzio, Giacomo Leopardi, Edmondo De Amicis.

Fumo e guerre risorgimentali

La considerazione più interessante che si può scrivere sull’utilizzo del fumo durante le guerre che hanno portato all’unificazione dell’Italia in un unico Regno, riguardano il ricovero dei malati negli ospedali. La situazione, soprattutto in occasione della Prima e della Seconda guerra del Risorgimento, divenne rapidamente drammatica, con soldati feriti trasportati in ogni dove, oltre che nei soliti ospedali da campo. A Brescia, il ricovero venne organizzato dapprima negli ospedali, poi anche nelle chiese, quindi nelle case nobili che disponevano di ampi spazi, poi anche nelle case della gente comune. In ospedale, non senza scandalo, proprio a Brescia senz’altro protagonista di quel momento storico, un medico decise che si dovesse vietare il fumo ai degenti, anche se ufficiali. Infatti, non appena le condizioni di salute lo permettevano, il paziente fumava, addirittura pensando che questo gli confacesse sul piano fisico, oltre che psichico. I reparti erano intossicati da nuvole di fumo che rendevano l’aria irrespirabile, portando ad una decisione che venne pubblicata sui giornali medici specializzati come una necessità.

Fumo e Grande Guerra

Allo scoppio della prima guerra mondiale, in Italia si producevano 1.742.844.000 sigari, con un calo di consumo già in corso, perché il prezzo dei generi da fumo era andato rapidamente aumentando. Certamente gli introiti del monopolio del tabacco, così come degli alcolici, permise di sostenere le spese belliche.

Durante la guerra, però, l’utilizzo mondiale di tabacco crebbe, soprattutto sui campi di battaglia. Infatti, la tecnologia bellica era notevolmente cambiata, con nuove tecnologie che avevano generato cannoni di precisione, bombe a mano, gas tossici, carri armati e velivoli da ricognizione prima e da combattimento dopo. Le estenuanti e interminabili ore in trincea, nei camminamenti protetti, a stretto contatto con il nemico e i suoi cecchini, avevano reso difficile la sopravvivenza non solo fisica, ma anche psicologica.

I fanti restavano per giorni inoperosi, in attesa di un ordine di attacco, inermi al cospetto dei colpi di cannone nemici. Pipa, sigaro e sigarette aiutavano a trascorrere le ore e a risollevare gli animi. Una testimonianza afferma: “Non si fumava per uccidere o massacrare, ma si fumava per provare una lieve sensazione di tregua e d’oblio, per lenire l’angoscia dei ricordi e delle visioni strazianti, per rivedere, seguendo con l’occhio distratto dalle spire di fumo, un volto caro e lontano”.

Nel luglio 1915 venne costituito un Comitato nazionale per i sigari ai soldati combattenti, presieduto dal principe Pietro Lanza di Scalea. In una lettera i membri del Comitato scrivevano: “Il nostro eroico Re premia il valore dei soldati combattenti anche con elargizioni di sigari e sigarette”. Anche i nemici condividevano lo stesso pensiero, tanto che un generale tedesco affermava che ci volevano, per la battaglia, tanti sigari quante pallottole.

La Grande Guerra ebbe il vantaggio di non coinvolgere tutto un Paese nelle operazioni belliche, così c’erano ampie zone che potevano continuare la produzione, anche di tabacco da sigari, come avveniva in effetti in Italia.

Fumo e seconda guerra mondiale

Non dissimile fu la situazione durante la seconda guerra mondiale, circa considerare l’importanza del fumo dei soldati, però l’interessamento di tutto il territorio europeo nel conflitto, e di tutti i territori di un Paese, rese disastrosa la produzione agricola e anche della materia prima per confezionare i sigari. I prezzi lievitarono in fretta, con smercio di prodotti sempre più scadenti, divieto di commercio la domenica e il pullulare del mercato nero.

Dall’agosto 1942 era vietato comprare troppi pezzi di sigaro o sigarette: ogni acquirente aveva diritto a 20 sigarette, oppure ad una scatola di trinciato, oppure a 5 sigari o a 10 sigaretti. Inoltre, doveva obbligatoriamente restituire il pacchetto finito che veniva inviato alla Manifattura Tabacchi per il riutilizzo. Addirittura verso il 1945 sigari e sigarette potevano essere utilizzati per il baratto, come merce di scambio al posto dei soldi. Mancando anche la carta per poter avvolgere il tabacco, nel 1945 si usavano mezzi di fortuna, soprattutto il cartone delle scatole con le quali gli Alleati fornivano cibo alla popolazione.

Al termine della guerra, la situazione non era migliore, tanto che vennero distribuite delle tessere di razionamento dei tabacchi: erano riservate agli uomini dai 19 anni e davano diritto a prenotare tabacchi da fumo con 15 giorni di anticipo nella rivendita di fiducia.

La razione settimanale era ridotta rispetto alle abitudini prebelliche e si attestava intorno ai 20 grammi di sigarette o sigari o sigaretti, oppure 25 grammi di trinciato per i fumatori di pipa.

Le tabaccherie non di rado venivano presidiate dai carabinieri per evitare furti o sommosse. La situazione divenne difficile, infatti, perché la tessera potevano ottenerla anche i non fumatori, che comperavano il tabacco spesso per rivenderlo al mercato nero. Alla fine del 1945, il quantitativo razionato venne portato a 30 grammi. Miglioramenti nella produzione si cominciarono a vedere nel 1946 e la libera vendita tornò nel 1948.

Fumo e propaganda

A livello politico le decisioni italiane sul tabacco erano state anche esportate. La Libia era colonia italiana dal 1912, e nel 1923 era stata impiantata a Tripoli una fabbrica per la lavorazione del tabacco, del Reale Monopolio di Libia controllato da quello italiano: produceva tabacco per il consumo arabo locale, soprattutto da masticare, da narghilè e da naso.

In Eritrea si producevano gli “Half Toscani”, mentre il Brasile diffuse un uso italiano per il sigaro sin dagli anni Trenta, grazie al grande numero di emigrati dall’Italia.

Le confezioni di sigari italiani da esportazione non mancavano di campeggiare il tricolore, così come venne diffuso dal Monopolio Italiano il sigaretto “Roma”, in chiaro stile patriottico.

Analizzando il fumo del tabacco, non si può evitare un cenno alla politica del consenso che aveva diffuso l’uso pubblicitario attraverso la radio e i documentari trasmessi nei cinema prima delle proiezioni delle pellicole durante il Ventennio, in modo particolare. Infatti, Mussolini e Hitler non fumavano, a differenza di Stalin, Churchill e Roosevelt che amavano il sigaro e farsi ritrarre tenendone uno in mano o in bocca. Gli slogan citavano i primi come “bravi e buoni” nell’Italia fascista e nella Germania nazista, mentre gli altri erano “cattivi, dalle brutte abitudini, sbagliati” come la loro politica e, ben presto, il loro Paese, che sarebbe diventato da combattere, secondo ovviamente l’ideologia diffusa all’epoca.

Ben presto, dunque, anche nel Novecento, il fumo del sigaro in modo particolare, venne etichettato conservatore (Churchill), ma anche rivoluzionario (Fidel Castro), equiparando nel suo utilizzo persone molto diverse e di luoghi diversi, sottolineando anche da questa angolazione l’universalità umana.

Estimava il sigaro Giovanni Guareschi, che tramutò Brescello nel palcoscenico italiano della Guerra Fredda, come Anthony Quinn, che lo fumava interpretando il film “Cavalleria Rusticana” di Gallone nel 1953; Gabriele Ferzetti, “Puccini” nel 1952, come Erminio Macario ne “Italia piccola” del 1957. Non manca Totò, volto in cui l’italiano si identificava in molte sfumature dei suoi innumerevoli film.

Conclusiioni

In questa breve disamina dell’importanza del tabacco nel corso dei secoli, e nella storia contemporanea, non rimane che considerare come le valutazioni scientifiche oggi abbiano imposto la riconsiderazione soprattutto della manifestazione del fumo, scomparsa non soltanto nei film, ma anche come uso dei potenti. Non è più politicamente corretto mostrarsi in pubblico con qualcosa da fumare tra le dita, così come sollecitare il consumo di sigarette tra i militari, lasciando la scelta personale e educando alle conseguenze sulle confezioni.

Alessia Biasiolo, Cavaliere al merito della Repubblica Italiana, associata al CESVAM, socio dell’Istituto del Nastro Azzurro.