LUIGI BARZINI. CORRIERE DELLA SERA/CSIR. GLI ITALIANI NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA. LA TATTICA DELLA TERRA BRUCIATA SUL FRONTE DEL DON

  

Luigi Barzini. Corriere della Sera/CSIR.

Gli Italiani nella Campagna di Russia. La Tattica della terra bruciata III. Fronte del Don. Novembre

 

GLI ITALIANI NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA

LA TATTICA DELLA TERRA BRUCIATA

 

III

 

Fronte del Don Novembre

 

La Russia Sovietica si era preparata un esercito modernissimo e potentissimo per armamento, organizzazione, statura. Materialmente era il più grande e formidabile esercito del mondo. Superava tutti nella vastità delle sue riserve umane e meccaniche, nella enormità dei suoi mezzi, nell’inaudito sviluppo dato alle unità corazzate nel numero e nella perfezione delle armi automatiche. Aveva il primato del gigantesco.

I bolscevichi avevano bisogno di un esercito irresistibile, per conquistare l’Europa; un esercito aggressivo, mobilissimo, manovriero, capace di imporre per tutto la sua iniziativa con mosse rapide e decisive.

Occorreva insomma, per battere a colpo sicuro la Germania, fare una guerra alla tedesca: guerra veloce di grandi masse, guerra di scardinamento e di distruzione. Questo esercito sorto a costo della fame di un popolo, i bolscevichi credevano di avere formato.

Ma alla prova, l’esercito sovietico è stato battuto sempre e ovunque, tutte le volte che si è mosso. Ha avuto qualche successo soltanto quando è stato fermo. Le sue iniziative erano rigorosissime ma tardive, o non arrivavano alla soluzione. In ogni loro tentativo per aggirare l’avversario i russi sono stati respinti o si sono trovati loro stessi aggirati, circondati, annientati.

La guerra, che volveva essere di movimento, è diventata una guerra di logoramento. Perché il bolscevico poteva rivoluzionare tutto, meccanizzare tutto, trasformare tutto ma non poteva mutare l’anima, la mentalità, la natura degli uomini.

I generali russi hanno continuato a pensare alla Russia, e i soldati russi a combattere alla russa. Hanno obbedito agli istinti della razza, che derivano dal carattere del Paese. La Russia ha in se stessa, per la sua immensa vastità una forza di inerzia di inerzia difensiva alla quale si intona lo spirito degli abitanti.

 

In una terra dove tutto è cancellato per otto o nove mesi dello anno del candore delle navi che costringono alla immobilità e al torpore, e dove la monotonia sterminata dello spazio isola persone e pensiero, si ha un senso mistico della grandezza, della forza, della potenza, del dominio, ma non si concepisce la velocità, l’urgenza, la prontezza, alla nostra maniera. Morire sembra più facile che correre e sapere in tempo dove e quando correre.

Lo strumento di conquista mondiale di Stalin non ha funzionato molto meglio del rullo compressore di Nicola II. La lentezza e la pesantezza sono state sempre una caratteristica della strategia russa, che sa trarre vantaggio soltanto dalla immobilità. È una strategia da difensore di fortezza. I russi sanno radicarsi al suolo e resistere.

Davanti alle profonde, fulminee e imprevedibili manovre di penetrazione delle armate germaniche, la difesa russa affidata all’azione mobile di grandi masse è completamente fallita. L’offensiva dell’Asse non poteva essere fermata in alcun punto. Gli eserciti sovieti lanciati alla contro manovra sparivano uno dopo l’altro. Nessun argine resisteva all’avanzata conquistatrice. Alla fine di settembre dell’anno scorso i russi decidevano l’abbandono della difesa manovrata.

Il comando sovietico tornò ai vecchi concetti russi della tattica temporeggiatrice, che affidava alla distanza e al freddo le funzioni di alleati decisivi. La terra e il clima avrebbero vinto. In fondo erano le teorie del vecchio taciturno e paziente Xotutzov che, in un campo infinitamente più vasto, tornavano in onore.

La difesa si irrigidiva su linee fortificate, mentre alle sue spalle il bolscevico faceva sgombrare e devastare le ragioni sulle quali l’avanzata nemica appariva probabile. Era la tattica della “terra bruciata” che si attuava con una ferocia implacabile. Nulla era lasciato intatto che potesse servire. Un uragano distruttore passava sulla città, sui villaggi, sui campi. Il freddo atroce dell’inverno che si avviava avrebbe poi avuto ragione degli invasori.

È difficile farsi una idea di questa gigantesca opera di annientamento, metodica, sistematica, organizzata, con la quale dei russi annientavano ricchezze e risorse in terra russa, disperdendo popolazioni russe o lasciandole senza alcun mezzo di vita. Si assassinavano dei territori perché i loro immensi cadaveri facessero ostacolo al nemico.

L’abbandono e l’incendio di Mosca del 1812, ai quali si attribuisce la decomposizione, la ritirata e la disfatta della grande armata di Napoleone, hanno avuto una grande influenza sul pensiero militare russi. L’abbandono, come si sa, fu dovuto alla paura che l’incendio al caso, ma non importa; la storia russa ha esaltato l’uno e l’altro strategici che salvarono l’Impero. 129 anni dopo, la stessa strategia veniva applicata sull’intero Bacino del Donez, dove il bolscevismo massacrava le sue creature predilette: i nuovi, innumerevoli, colossali impianti della grande industria pesante sovietica. Era un gesto mostruoso di violenza contro se stessa.

All’inizio, numerose schiere di specialisti cominciarono a smontare i macchinari per trasportarli in regioni più sicure. Immane attrezzature si disfacevano e sparivano, portati via a pezzi da treni e autocarri. Rimanevano vuoti gli enormi edifici che le avevano contenute, e la cui distruzione era poi affidata alle fiamme.

Ma quando la difesa cedeva, e la battaglia si avvicinava, e il tempo mancava per il salvataggio delle macchine si faceva saltava tutto con la dinamite, macchine e muri. Sinistri chiarori d’incendi nella notte segnalavano sull’orizzonte ai soldati dell’Asse l’agonia di famosi centri industriali.

Le miniere di carbone, di ferro, di rame, venivano lasciate invadere dall’acqua. Le dighe e le chiuse degli impianti idroelettrici erano sventrate con tonnellate di esplosivi, e dalle brecce scendevano immani cateratte a inondare regioni, dove annegavano il lavori di anni? Si bruciava il grano imbevuto di petrolio nei silos torreggianti, che fumavano come altiforni per mesi e mesi.

Tutti i ponti erano tagliati. Ogni 100 metri, per centinaia di km., le rotaie delle ferrovie erano fatte saltare e rizzavano serpeggianti tronconi nell’aria. Sulle piste e sulle strade, agli approcci delle città miriadi di mine venivano sepolte. Mine doppie erano spesso disposte una sull’altra perché, scoprendosi la prima la seconda scoppiasse. Edifici lasciati intatti erano minati, e saltavano per accensione a distanza, dopo l’occupazione.

Il tradimento era disseminato con una malignità demoniaca. Macchine infernali venivano nascoste nei luoghi più impensati: nelle casseforti, nelle scrivanie, dietro alle porte, sotto a oggetti di uso comune. Perché i bolscevichi hanno l’istinto dell’attentato. Sono educati alla tradizione del comunismo petrolieri e dinamitario. Ripudiano la nostra morale. Ignorano la lealtà militare. Non ripugna loro l’assassinio. Fanno dell’infamia un’arma. Portano nella guerra una criminalità di stampo barbarico. La loro mentalità risente dell’influenza Nichilista. Spesso, più che da soldati agiscono da insorti, da partigiani. Perciò forse eccellano nella guerra delle strade, all’interno degli abitati ad angolo, ad angolo, come in una immensa, sanguinosa, feroce e disperata sommossa.

Dalle coltivazioni collettive i devastatori portano via uomini e bestiame. Lasciavano le donne, i vecchi e i bambini considerati un peso inutile. La massa degli amministratori, dei dirigenti, dei funzionari, tutte l’enorme burocrazia sovietica, in gran parte ebrea, che costituisce la nuova borghesia e la nuova aristocrazia del mondo bolscevico, alloggiava e partiva con le famiglie e il denaro. A molti operai lasciati nei centri industriali venivano distribuite armi e esplosivi, da tenersi nascosti per eventuali guerriglie e sabotaggi.

Ma il tempo è mancato per una distruzione completa. Le armate russe destinate ad arginare l’offensiva germano – italiana avevano l’ordine di resistere ad ogni costo, cosa che i russi sanno fare. Ma non potevano resistere a lungo ai potentissimi e veloci attacchi manovrati che penetravano, aggiravano, scardinavano i massimi punti di resistenza. Si sono trovate città ancora abitabili. Si sono trovate miniere che funzionavano opifici che possono essere riattivati, macchine ancora utilizzabili, depositi giganteschi di materie prime.

Si sono pure trovate quantità rilevanti di grano, bestiame, e viveri, dove i devastatori, premuti dalla battaglia, avevano troppa fretta. E la gente della campagna si è rimessa al lavoro, volenterosa e paziente. Non può produrre molto: difettano le braccia, le semente, gli animali da tiro, le macchine agricole, divenute rottami disseminati sui campi. Ma il sentimento antibolscevico sorto, o risorto, in una gran parte della popolazione contadina davanti alla smisurata tragedia della loro terra straziata, è un elemento non trascurabile in una guerra antibolscevica.

Dice questa povera gente: “nessuna ferocia nemica ci avrebbe mai recato i danni, le perdite, le sofferenze ed i dolori che ci ha inflitto il nostro Governo. Il bolscevismo non protegge il popolo. Lo sfrutta o lo sacrifica per i suoi interessi. Ci ha fatto schiavi. Ci ha tolto Dio, il culto dei nostri morti, la speranza e il pane. In quale paese civile l’esercito, dovendo ritirarsi, distrugge le proprie città e condanna i loro abitanti alla morte per fame?”.

Andando verso l’Oriente, oltre il Donez, sulle steppe del Don, il sentimento anti-bolscevico, pavido e chiuso per una abitudine al terrore, diviene più profondo nella gente matura, che ricorda. Sulla carta topografica di questa ragione vi sono nomi di paesi che non esistono più. Furono rasi al suolo, e tutti i loro abitanti trucidati, dai bolscevichi nel 1934 per cancellare col ferro e col fuoco ogni traccia dell’antica organizzazione cosacca, sospetta di zarismo.

Solo i giovani nati nel sovietismo rimangono ostili o dubitosi, educati come sono a ritenere la Russia il Paese più progredito, felice e invidiato del mondo. Domandano ingenuamente se gli italiani conoscono la luce elettrica. Sorridono quando vengono mostrate loro fotografie di città italiane e dicono, con aria furba: “Questa è propaganda, trucco, scenario cinematografico”.

Ma le chiese sono riaperte e affollate, si ritorna a festeggiare la domenica, e si vedono uomini e donne che si fanno il segno della croce passando davanti ai nostri cimiteri di guerra. Le icone sono ricomparse in molte case, e vi è una grande richiesta di immagini sacre nelle campagne.

Ritorniamo alla guerra.

La fine di settembre dell’anno scorso segnò dunque la data di un mutamento di tattica dei bolscevichi. Essi abbandonavano la difesa manovrata per attenersi ad un sistema di accanita resistenza su linee di capisaldi, dietro alla quale, nel settore meridionale del fronte, devastavano le regioni che il nemico avrebbe potuto occupare.

L’inverno si avvicinava, e i russi facevano assegnamento sul freddo mortale, che non può essere sopportato per molte ore all’aperto, per fermare l’invasione e intraprendere nelle condizioni più favorevoli per loro, una gigantesca e formidabile controffensiva.

La guerra di movimento non era riuscita ai bolscevichi nell’estate e nell’autunno, avrebbe avuto una grande probabilità di successo contro un nemico immobilizzato, inchiodato e parzialmente disarmato, dal gelo.

 

LUIGI BARZINI