Francesco Atanasio. I Compensi Coloniali Italiani nelle Trattative di Pace

  

(Articolo tratto dalla rivista “QUADERNI” Anno LXXXII, Supplementi XVI, 2020, n.1)

I COMPENSI COLONIALI ITALIANI NELLE TRATTATIVE DI PACE

di Francesco Maria Atanasio*

Il 24 ottobre 1918, mentre stava per accendersi la battaglia di Vittorio Veneto, Gabriele d’Annunzio dal “Corriere della Sera” lanciava un fatale avvertimento VITTORIA NOSTRA, SARAI TU MUTILATA? La domanda retorica posta dal Vate avrebbe segnato per l’immediatezza del suo significato la “vita” della Nazione nell’immediato dopoguerra ed influenzato le scelte politiche dei suoi governi.

Nella prefazione al suo pregevole libro di “ricordi” di Luigi Aldrovandi Marescotti,  che nella qualità di capo di gabinetto del ministro per gli esteri Sydney Sonnino partecipò con le funzioni di Segretario generale per l’Italia alla Conferenza di pace, scriveva: “Occorre appena ricordare come la nostra ultima offensiva che condusse a Vittorio Veneto, alla quale parteciparono così scarse forze ausiliarie, fu indicata in taluni giornali dei Paesi alleati quale offensiva “anglo-italiana”; e come il Bollettino della nostra Vittoria, enumerante esattamente le forze alleate nelle nostre linee, a titolo di  onore, ma anche ad esatta notazione di contributo, apparve, su quegli stessi giornali, mutilata di quella indicazione” 1.  Il giovane diplomatico citava altre volute “dimenticanze” da parte delle autorità militari francesi, che dinanzi alle proteste del nostro ambasciatore a Parigi, Giuseppe  Salvago Raggi, costrinse il ministro degli esteri Pichòn “ad una confusa spiegazione e a una rapida ritirata” e lo stesso primo ministro Clemenceau a formulare confuse scuse.

Dopo l’armistizio di Villa Giusti del 3 novembre sembrava che tutto dovesse procedere postivamente per l’Italia: il Consiglio interalleato aveva autorizzato l’Italia ad insediarsi nei territori accordatile dal Patto di Londra e truppe del Regio Esercito, anche in rappresentanza degli Alleati, occupavano zone della Carinzia e della Stiria,  dell’Albania centro meridionale, della Dalmazia  e  le coste del Montenegro. Per i compensi pattuiti nel Patto di Londra e nei successivi accordi in Medio Oriente e in Africa si aspettava la convocazione della Conferenza di Pace. Sembravano così essere state poste le premesse perché a quella assise, convocata per il gennaio del 1919 a Parigi, si acquisisse con le terre “irrendente”  il giusto compenso ai sacrifici richiesti della guerra e il sospirato ruolo internazionale dell’Italia nei Balcani, in Asia Minore e in Africa.

Se i negoziati di Parigi inerenti la questione adriatica e in più in generale quelli relativi ai Balcani e ai territori dell’Impero Ottomano sono abbastanza noti, poca attenzione si è soliti riservare alle vicende diplomatiche concernenti i c.d. “compensi coloniali”,  espressamente previsti dall’art. XIII del Patto di Londra che cosi statuivano: “Qualora la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i propri possedimenti coloniali in Africa a spese della Germania, le due Potenze sono in linea di principio d’accordo che l’Italia può richiedere un equo compenso, soprattutto per quanto riguarda la soluzione a suo favore delle questioni relative alle frontiere delle colonie italiane in Eritrea, Somalia e Libia e le colonie vicine che appartengono alla Francia e alla Gran Bretagna”

Nel corso dei primi contatti avviati dal ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano nel suo promemoria del 25 settembre 1914 con l’Inghilterra poco rilevanti erano state tematiche coloniali: la bozza preparata accenna solo alla possibilità di ricevere dei compensi territoriali  in Africa settentrionale nel caso di pari acquisizioni da parte di Francia e Inghilterra nelle colonie tedesche in Africa. Compulsati al riguardo i nostri ambasciatori a Parigi, Tommaso Tittoni, e a San Pietroburgo, Andrea Carlotti, il primo suggerì di inserire nei negoziati il possesso di Chisimaio in Somalia e di “risolvere” a nostro favore la questione del lago Tana per come era stata individuata nel patto sottoscritto nel 1906 fra Italia, Francia e Inghilterra sull’Etiopia.

Il piano per una “spartizione” dei territori etiopici  nell’ipotesi di un disfacimento dell’Impero del Negus risaliva a negoziati intercorsi fin dal 1904 fra le tre Potenze 2: su iniziativa di Tittoni, alla guida in quell’anno del Ministero degli esteri e convinto sostenitore della bontà di una nostra espansione in Africa orientale, era stato  approntato uno schema di accordo che Antonino di San Giuliano,  assunta il 24 dicembre 1905 la responsabilità della Consulta, aveva inserito nei colloqui avviati con gli ambasciatori inglese e francese a Roma, Edwin Egerton e Camille Bàrrere, per la nomina del nostro rappresentante alla Conferenza di Algesiras sul Marocco, apertasi il 15 gennaio 1906.

La scelta di Emilio Visconti Venosta, di cui era nota la posizione filo – francese, aveva spianato la strada non solo al riconoscimento del diritto dell’Italia ad “interessarsi” in via esclusiva dei governatorati turchi della Tripolitania e della Cirenaica, ma anche alle trattative per definire le conversazioni sull’Etiopia: le conversazione si erano arenate sul punto 4 del trattato laddove dovevano essere “ritagliate” le aree di “espansione” delle tre Potenze. L’Inghilterra chiedeva il controllo della regione del lago Tana e dei corsi d’acqua che dal bacino confluivano nel Nilo, la Francia la regione ad est di Addis Abeba per realizzarvi una ferrovia di collegamento fra la capitale etiopica e il porto di Gibuti sulla Costa francese dei Somali, l’Italia aspirava a una zona di collegamento fra la colonia d’Eritrea e quella della Somalia. Se i paragrafi a) e c) dell’articolo 4 accoglievano le richieste di Londra e Parigi, quelle di Roma furono oggetto di ulteriori negoziati che San Giuliano concluse positivamente: il paragrafo b) ci riconosceva di “salvaguardare gli interessi dell’Italia in rapporto all’Eritrea e alla Somalia (compreso il Benadir)  di tale sorta segnatamente che si possa stabilire  una comunicazione terrestre tra questi due possedimenti sotto riserva tuttavia degli interessi francesi”

In una nota esplicativa del   gennaio 1906 San Giuliano  proponeva che “attraverso la parola COMUNICAZIONE TERRESTRE i governi francese e inglese intendono come quello italiano l’attribuzione alla sfera d’interesse dell’Italia di un territorio che deve congiungere l’Eritrea e la Somalia italiana…situato ad ovest di Addis Abeba”. La nota fu recepita positivamente da Francia e Inghilterra.

Nelle more cadeva il governo di Alessandro Fortis e vi subentrava un esecutivo a guida Sonnino con Francesco Guicciardini alla Consulta e Tittoni ambasciatore a Londra. Il 29 maggio 1906 Giovanni Giolitti ritornava al governo e richiamava agli Esteri Tittoni, che con San Giuliano insediatosi quale ambasciatore a Londra,  si attivò immediatamente per la definizione degli accordi. Il 6 giugno il ministro diede istruzioni per la ripresa delle trattative sulla base del testo elaborato dal suo predecessore: i negoziati si svolsero a Parigi dove Tittoni si recò personalmente il 29 giugno e proseguirono a Londra nei primi luglio quando il testo della convenzione venne parafata. Raccolta l’adesione del negus Menelik a dicembre, il 13 il patto veniva formalmente siglato.

In ragione di tale  precedenti negoziati a Tittoni, ritornato nel 1910 ambasciatore a Parigi, sembrò giunto il momento favorevole per consolidare i progetti di espansione in Africa orientale.

Sonnino, subentrato alla guida del Ministero degli esteri nel novembre del 1914 per la scomparsa di San  Giuliano, rimaneva però in un primo momento più che  restio a dar spazio a queste sollecitazioni avendo come principale obbiettivo Trento e Trieste e la Dalmazia. Egli comunque chiedeva al Ministero delle Colonie, retto da Ferdinando Martini 3, già governatore dell’Eritrea, di preparare un memorandum che individuasse le eventuali rivendicazioni italiane e i documenti utili a sostenerle nel corso delle trattative con le Potenze occidentali. Il dicastero elaborava ben otto memorie che per quanto riguarda l’Africa si compendiavano nella richiesta del porto di Gibuti (colonia francese)  e di Chisimaio (Giubaland inglese) e del centro carovaniero di Kassala ( Sudan anglo-egiziano) e nella possibilità di ottenere la rinuncia da parte di Londra ad ogni ambizione territoriale sulle regioni occidentali dell’Etiopia per come previsto dall’art. 4 del trattato del 1906: gli interessi inglesi si sarebbero dovuti limitare allo sfruttamento idraulico delle acque del Lago Tana e lasciare il controllo del territorio circostante all’Italia per come  specificava l’ottava memoria del Ministero delle Colonie 4.

La settima memoria prendeva in esame la possibilità che ove il Portogallo avesse abbandonato le sue colonie in Angola e in  Mozambico Inghilterra e Italia raggiungessero un accordo per la loro spartizione a proprio vantaggio.

Ma né Salandra 5 o Sonnino 6 inserirono queste rivendicazioni nelle note inviate nel 1915 al nostro ambasciatore a Londra, Imperiali: Tittoni si sentì in dovere di ribadire l’importanza delle tematiche coloniali e in sue comunicazioni del 23 e del 24 marzo invitò Sonnino a “riempire” il testo del redigendo articolo XIII del Patto di Londra chiedendo fin d’ora alla Francia la proroga delle convenzioni italo-francesi per gli Italiani residenti in Tunisia del 1896 e la cessione di oasi e vie carovaniere in Tripolitania, Cirenaica e nel Tibesti e all’Inghilterra Chisimaio e l’oasi di Giarabub al confine con l’Egitto. Chiedeva infine che le due Potenze si impegnassero a tutelare le nostre colonie di Eritrea e Somalia nel caso di un’aggressione da parte del turbolento Impero del Negus 7.

Nulla di tutto questo fu inserito da Sonnino: la stesura dell’art. XIII venne accettata dai futuri alleati nella forma prima indicata anche se la Francia tentò di inserirvi un codicillo con la quale veniva esclusa da ogni cessione Gibuti, poi rimosso per intervento del governo inglese.

Al problema posto dal non aver precisato nel 1915 con maggiore attenzione questo equo compenso, si cercò di rimediare con un dettagliato memorandum 8 preparato dal Ministro delle colonie Gaspare Colosimo nell’autunno del 1918

La completa occupazione delle colonie tedesche in Africa da parte dell’Inghilterra e della Francia avevano attirato l’attenzione dei nostri pur minoritari “circoli” colonialisti che premettero sul ministro    perché anche il nostro governo si attivasse per dare concretezza a quanto previsto dall’art. XIII.

Colosimo, che aveva ricoperto l’incarico di Sottosegretario al Ministero dal 1912 al 1913, con il governo Boselli nel giugno 1916 era divenuto titolare del dicastero, che conservava nel successivo governo di Vittorio Emanuele Orlando, ricoprendovi anche l’incarico di vice presidente del Consiglio dei Ministri (assente Orlando, impegnato alla Conferenza di Parigi, svolgerà ad interim quello di Presidente del Consiglio e di ministro degli interni). Egli cercò così di rilanciare i progetti di espansione in Africa orientale.

L’Etiopia fra il 1915 e il 1916 aveva visto aggravarsi lo stato di anarchia interna si da veder compromessa seriamente la sua sopravvivenza come entità statuale sia pur poco più che tribale: vi era scoppiata una guerra civile che aveva messo le tre potenze firmatarie della convenzione del 1906 nella necessità di procedere alla “spartizione” dei territori etiopici. La guerra mondiale, assorbendone le energie delle tre Potenze, le aveva indotte a favorire il superamento della crisi da parte di ras Tafari allontanando quella prospettiva.

Il ministro Colosimo pensava però di avvalersi di tale situazione ancora instabile per avviare una politica di penetrazione economica e territoriale nelle zone riconosciuteci dal trattato del 1906  in considerazione del fatto che l’Inghilterra ambiva a risolvere a proprio vantaggio la questione del controllo delle fonti idriche del Nilo.

Nel memorandum si aspirava a far si che le colonie di Eritrea e Somalia costituissero “un tutto omogeneo, organico, indipendente” con l’Etiopia, da porre sotto “l’esclusiva influenza dell’Italia”,  con la colonia francese di Gibuti, quella inglese del Somaliland e del Giubaland, che ci sarebbero state dovute cedere dalle due Potenze occidentali. In Libia si chiedeva la rettifica del confine con l’Africa settentrionale francese  sì da acquisire le vie carovaniere fra Gademes, Ghat e Thummo e del confine con l’Egitto inglobando l’oasi di Giarabub 9.

Erano richieste contenute, che non avrebbero intaccato gli imperi coloniali di Francia e Inghilterra, né garantito l’insediamento dell’Italia in zone già “valorizzate” dal punto di vista economico  e che si inserivano sul solco di precedenti “contatti”.

Mentre stava delineandosi la vittoria dell’Intesa, gli ambienti diplomatici più attenti si rendevano conto come stesse per crearsi un vivo dissenso fra le posizioni della Francia, decisa a preservare in chiave anti –italiana l’integrità dell’Impero negussita, al cui interno godeva già di una sua influenza commerciale ed economica  grazie alla costruzione delle ferrovia Addis Abeba – Gibuti, iniziata nel 1902 e completata nel 1917, e l’Italia, che stava per formulare le richieste di cui sopra.

Come è noto i negoziati alla Conferenza di Pace di Parigi (lo testimoniano i diari di Silvio Crespi 10 ministro degli approvvigionamenti e componente della nostra delegazione, e quelli del già citato Luigi Aldrovandi Marescotti, segretario generale della stessa delegazione ), si rivelarono subito assai ardui: l’insorgere della questione di Fiume e la definizione delle aree di influenza in Asia Minore posero  la Delegazione italiana, Ben presto però si diffuse la sensazione che il contributo dato dall’Italia alla vittoria dell’Intesa sarebbe stato sottostimato se non ignorato al tavolo della pace: erano timori fondati perché Francia e Inghilterra non volevano  il consolidamento dell’Italia nei Balcani e nel Mediterraneo, né ambivano a dotarla di possedimenti coloniali tali da farle acquisire un suo ruolo in Africa, mentre Wilson, ossessionato dai suoi “14 Punti”, osteggiava le nostre rivendicazioni perché ritenute frutto di quelle diplomazia “segreta” che il nuovo ordine mondiale da lui propugnato avrebbe cancellato per sempre

 

Il governo Orlando, rimasto vittima di tali atteggiamenti ostili, dopo aver aderito al trattato di pace con la Germania, si dimetteva il 23 giugno 1919 e ad esso subentrava un esecutivo presieduto da Francesco Saverio Nitti, che aveva in precedenza svolto l’incarico di ministro del Tesoro dall’ottobre 1917  al gennaio 1919.

Queste dimissioni segnavano la conclusione della travagliata esperienza della prima Delegazione italiana alla Conferenza di Pace: sia Orlando che Sonnino si erano dimostrati purtroppo inidonei al difficilissimo ruolo riservato loro dagli avvenimenti.

Nitti chiamava agli Esteri Tittoni, cui delegava la responsabilità dei negoziati di pace incentrati sulle questioni di Fiume, della Dalmazia, dell’Albania, dell’Impero ottomano e dei compensi coloniali. La scelta del nuovo Presidente del Consiglio era più che indicativa: si ricorreva a un navigato ed esperto diplomatico di carriera, ben accettato alle diplomazie di Francia e Inghilterra con le quali aveva una lunga e sperimentata consuetudine, per cercare di risalire la china.

La copiosa corrispondenza intercorsa fra Nitti e Tittoni, pubblicata nella 6a serie dei Volumi dei Documenti Diplomatici Italiani 11 – mostra chiaramente come entrambi, dinanzi alla necessità di dovere fronteggiare a un così eccezionale elenco di problemi internazionali, cercassero in primis di far uscire l’Italia dalla posizione di isolamento nella quale era caduta: infatti pochi giorni dopo l’arrivo della nuova Delegazione a Parigi Tittoni riceveva infatti una nota a firma di Clemenceau e Lloyd George che rimetteva in discussione l’intero impianto delle rivendicazioni italiane e la stessa validità del Patto di Londra.

Sia pur subito contestata dal nostro ministro degli esteri, coadiuvato da quanto mai validi collaboratori come Vittorio Scialoja e Giacomo De Martino, la sensazione che l’irreparabile fosse accaduto era quasi certa per la problematica dei compensi coloniali.

L’avere Orlando e Sonnino abbandonato, sia pur legittimi motivi, il tavolo dei negoziati alla fine di aprile del 1919, dopo la pubblicazione sulla stampa francese di un messaggio di Wilson al popolo italiano, avevano consentito agli Alleati di colpire gravemente i nostri interessi in Asia Minore e in Africa.

Su pressione inglese, era stato infatti convenuto di affrettare i negoziati sull’attribuzione delle colonie tedesche: il 6 maggio, il giorno prima del ritorno della Delegazione italiana sollecitata dal nostro ambasciatore a Parigi Bonin Longare ( subentrato a Salvago Raggi alla fine del 1917) fu decisa l’assegnazione di quei possedimenti a Francia, Inghilterra e Belgio sotto la forma dei “mandati”.

Il 7 maggio la decisione fu ufficializzata dal Consiglio supremo e comunicata al governo italiano con la promessa di una commissione per l’esame delle richieste italiane sulla base dell’art. XIII: le trattative si arenarono quasi subito per la dichiarata ostilità delle due Potenze coloniali, che si limitarono ad offrire alcune correzioni confinarie nel Sahara e sul fiume Giuba in Somalia.

Questa era la situazione che dovette fronteggiare Tittoni al suo arrivo a Parigi. Ribaltando le priorità del precedente governo che aveva privilegiato la questione adriatica, il ministro, ben consapevole di cosa comportasse un’espansione coloniale in termini di prestigio e di prospettive di sviluppo economico, si impegnò con estrema sollecitudine a recuperare il tempo perduto e ne individuò la strada nel cercare preliminarmente di rimuovere i motivi di contrasto con Parigi e Londra nel Mediterraneo orientale.

Il 18 luglio firmava con il ministro greco Venizèlos un importante accordo: l’Italia rinunciava al Dodecaneso, occupato a titolo provvisorio durante la guerra italo- turca del 1911/1912 ( ma attribuitoci dal Patto di Londra all’art. VIII) a favore della Grecia, ad eccezione dell’isola di Rodi ( la cui sorte sarebbe stata decisa con un plebiscito, da tenersi “se” e “quando” l’Inghilterra avesse ceduto l’isola di Cipro ai greci…) e si impegnava a sostenere le rivendicazioni territoriali di Atene in Tracia e nell’Albania meridionale. In contropartita ci veniva riconosciuto il diritto ad avere un “mandato” sul rimanente territorio dello Stato albanese, la sovranità di Valona e l’acquisizione del porto di Scalanova in Anatolia. Risolti così i contrasti con la Grecia Tittoni sperava di poter riprendere a dialogare con Francia e Inghilterra per l’Africa.

Il 16 luglio aveva infatti consegnato al suo omologo francese Pichòn una nota sulle nostre richieste: egli si auspicava di poter dare attuazione al patto firmato nel 1906 sull’Etiopia almeno dal punto di vista di una penetrazione di tipo economico. Il ministro desiderava inserire anche nelle trattative legate all’art. XIII la proroga delle Convenzioni del 1896 per gli Italiani residenti in Tunisia dopo la denuncia unilaterale della Francia di quegli accordi.

I negoziati, condotti personalmente da Tittoni fra luglio ad agosto, non sortirono tutti gli effetti sperati: il 12 settembre vi fu uno scambio di note fra Pichòn e Lelio Bonin Longare: l’Italia avrebbe acquisito le oasi di El Bartak e di Fehout e conservato il controllo di alcune vie carovaniere tra Gadames e Ghat e Tummo, mentre in Tunisia entrava in vigore un identico trattamento fiscale per i contratti di compravendita qualunque fosse stata la nazionalità delle parti e la parificazione delle scuole private italiane con quelle francesi: la fornitura di fosfati estratti in Tunisia ed altri accordi commerciali concludeva questi accordi.  Tittoni, però, otteneva che gli stessi fossero solo una parziale applicazione dell’art. XIII e che pertanto il contenzioso coloniale fra Italia e Francia rimanesse aperto.

Il 13 settembre avveniva uno scambio di note fra il ministro degli esteri e il ministro per le colonie inglese Milner: l’Inghilterra ci concedeva l’oasi di Giarabub e il territorio del Giubaland ricevendo in cambio la promessa che la questione dei compensi coloniali dell’Italia nei suoi confronti dovesse ritenersi chiusa a piena soddisfazione dell’art. XIII.

Alla luce del nuovo clima instauratosi, Imperiali veniva incaricato dalla Consulta di convertire le note in un trattato e allo stesso di muovere gli opportuni passi presso il governo inglese per dar seguito ad un più ampio negoziato bilaterale per l’Etiopia in forza del patto del 1906. Purtroppo la sempre più debole posizione internazionale dell’Italia, determinata anche dalla crescente instabilità politica, faceva segnare il passo al governo e Tittoni, attaccato sulla stampa nazionale anche per lo stallo sulla vicenda di Fiume, lasciava il ministero il 24 novembre, sostituito da Scialoja.

Il  presidente del Consiglio dei ministri Nitti, uomo portato a vedere le relazioni internazionali in un’ottica prevalentemente economica, e pertanto interessato a ristabilire i migliori contatti con Londra, sede della finanza mondiale, e a riprendere i rapporti con la Germania e con la Russia  volle dare la sua impronta al fronte diplomatico al di là delle iniziative del ministro Scialoja.

Fra febbraio e marzo del 1920 cercò di riavviare i negoziati con l’Inghilterra per poter realizzare un programma di penetrazione commerciale in Etiopia,  che solo Londra era in grado di far avviare: l’esito fu soltanto un ulteriore scambio di note fra Scialoja e Milner ( 10 – 13 aprile), che formalizzava la cessione del Giubaland e di Giarabub, da subordinare alla conclusione dei trattati di pace e in particolare alla risoluzione delle complesse questioni nel Mediterraneo orientale e in Anatolia, dove il precedente accordo Tittoni-Venizelos era stato superato dai fatti.

Il 15 giugno 1920 Giolitti subentrava a Nitti e affidava gli esteri a Carlo Sforza, anch’egli appartenente alla carriera diplomatica, il quale si “pose come obbiettivo di modernizzare l’azione internazionale dell’Italia conciliando la cultura liberalnazionale e realista della diplomazia con il nuovo spirito nazionale e la politica di massa che si diffondevano sempre più nella società europee”  12.

La risoluzione del problema di Fiume e del confine orientale con il Regno Shs grazie al trattato di Rapallo, alla pari di quella relativa al controllo dell’Albania e delle questione dell’ex Impero ottomano  assorbirono in toto l’attività del governo, che al momento delle sue dimissioni, il 27 giugno 1921, nulla aveva potuto fare per i compensi coloniali. Costituito Ivanoe Bonomi il suo governo il 4 luglio, chiamava alla Consulta Pietro Tomasi della Torretta, anch’egli appartenente alla carriera diplomatica. Dimessosi a sua volta Bonomi il 22 gennaio 1922, il 26 febbraio Luigi Facta formava il governo con agli esteri il senatore Carlo Schanzer, un economista, che si era ben condotto a Washington in occasione della Conferenza internazionale per il disarmo.

Schanzer, quanto mai consapevole che solo sugli scacchieri africani il governo poteva acquisire delle benemerenze da esibire dinanzi a una nazione lacerata da violenti scontri politici, riprendeva la via di Londra per riattivare i negoziati “coloniali”. Giunto nella capitale inglese il 25 giugno si avvalse delle note già scambiate per avviare nuove trattative che comprendessero fra l’altro il superamento del veto britannico alla cessione del santuario del Cenacolo a Gerusalemme 13, l’accettazione della partecipazione italiana ai negoziati sullo status internazionale di Tangeri  e il definitivo riconoscimento della sovranità italiana sui territori della Cirenaica dove era presente la Confraternita dei Senussi. L’obbiettivo principale era quello legato all’attuazione per la parte economica del trattato del 1906, cui però far collegare la rinuncia da parte del governo inglese alla propria “quota” di controllo e di espansione sull’Etiopia occidentale a nostro favore, ma “... Il governo di Lloyd George non percepì alcun vantaggio nel fare cessioni ad un’Italia fortemente indebolita sul piano interno e priva di reali contropartite da offrire”  14.

Il diniego di Londra ad aprire dei negoziati in tal senso orientò Schanzer ad avvicinarsi in chiave anti inglese alla Francia sul tema del conflitto greco-turco e su quello del pagamento dei debiti di guerra da parte della Germania. Il 23 ottobre il ministro firmava intanto gli accordi di Santa Margherita che suggellavano il trattato di Rapallo e definivano la questione adriatica.

Gli accordi per l’acquisizione dei pur limitati compensi coloniali entreranno in vigore nel 1924 per il Giubaland, ribattezzato “Oltre Giuba”, e nel 1925 per l’oasi di Giarabub, cedutasi formalmente dall’Egitto, al quale Londra aveva riconosciuto l’indipendenza.

Il governo Mussolini, insediatosi nell’ottobre del 1922,  se eviterà polemiche di natura coloniale con l’Inghilterra, penserà di riprendere i negoziati con la Francia  nell’auspicio che potessero giovare ai mai abbandonati progetti di espansione territoriale in Africa.

I colloqui Laval – Mussolini del gennaio 1935, che avrebbero dovuto dare in forma ufficiosa il via libera all’Italia per la sua espansione in Etiopia, non  sortirono però gli effetti sperati dalle due parti: nell’estate del 1935 quando stava per profilarsi l’eventualità di un conflitto fra l’Italia e l’Impero del Negus, Roma  sarà osteggiata dal governo francese: la Francia si unirà all’Inghilterra nel sostenerne le posizioni alla Società delle Nazioni di Ginevra e nella decisione di quest’ultima di applicare le sanzioni a nostro danno. Dinanzi a tale “svolta” e ai successivi attriti innescati dalla guerra civile spagnola, il governo italiano denuncerà nel 1938 gli accordi di tre anni prima 15.

 

Al termine della Conferenza di Pace di Parigi e delle successive  convenzioni diplomatiche, l’Italia, a differenza della Francia, aveva potuto guardare al di là del ben munito confine alpino e adriatico senza la minaccia di una grande potenza come era stata la Duplice Monarchia  asburgica: al suo posto vi era solo l’instabile Regno Shs, che nel 1924 con il trattato di Roma riconosceva l’annessione all’Italia di Fiume. La Conferenza degli ambasciatori (organo diplomatico affiancato alla Società delle Nazioni), assegnandoci nel novembre del 1921 il compito di vigilare sull’integrità territoriale dell’Albania, aveva agevolato l’ingresso di quel Paese nella nostra sfera di influenza anche dal punto di vista economico e politico con tutte le implicazioni conseguenti nei Balcani. Il Dodecaneso, parimenti riconosciutoci dal trattato di Losanna del  1923, diveniva da par suo un elemento di prestigio e di influenza dell’Italia nel Medio Oriente.  Si doveva rimanere “insoddisfatti” solo in Africa.

Non potevano infatti considerarsi un equo compenso quanto fu ceduto da Francia e Inghilterra pur essendosi ampiamente realizzata la condizione preliminare consistita nel copioso accrescimento dei rispettivi possedimenti coloniali.

Deve al riguardi condividersi in toto il giudizio espresso da Mario Luciolli in un suo ancor oggi insuperato saggio redatto all’indomani del 1945, quando l’Italia si accingeva a pagare il prezzo della sconfitta militare della II guerra mondiale. Luccioli ( 1910-1998), giovane ma già esperto diplomatico destinato ad una brillante carriera anche in Repubblica, nel primo capitolo  “Panorama europeo 1919-1937” non poteva che esordire dagli esiti per l’Italia della Grande Guerra: dopo aver rilevato come Salandra, per averlo  confessato  nelle sue memorie che Sonnino e lui, nel negoziare l’intervento, erano stati mossi solo dall’obbiettivo di completare il Risorgimento con l’acquisizione delle terre “irredente”, rileva come i due statisti non avessero successivamente compreso come gli interessi dell’Italia in ragione delle proporzioni europee e poi mondiali del conflitto fossero ben più ampli rispetto all’annessione di Trento e Trieste: “ Vincere la guerra…significava…conquistare una posizione adeguata nell’equilibrio generale dei popoli. In altri termini non si trattava solo di fissare un nuovo confine nord-orientale o di conseguire uno stato di sicurezza nell’Adriatico, ma anche e sopra tutto di partecipare in misura conveniente alla redistribuzione delle materie prime e allo stabilimento del nuovo assetto balcanico, mediterraneo, africano e, in una parola, mondiale. L’errore dei governanti italiani alla conclusione della pace consistette essenzialmente nel non comprendere questo più ampio significato della guerra italiana” 16.

La politica estera di un’Italia oramai retta da un regime autoritario, dopo essersi consolidato all’interno e aver colto il successo della Conciliazione con la Chiesa Cattolica, non poteva che rivolgersi al perseguimento dell’obbiettivo di un’espansione coloniale che cercò di attuare con il “consenso” di Francia e Inghilterra e pur sempre nell’ambito della Società delle Nazioni: le responsabilità del diverso esito non risiederanno solo a Palazzo Venezia.

Note

  • Aldrovandi Marescotti, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario (1914-1919), Milano,1936, pag.9
  • Ferrajoli, Politica e diplomazia in Italia fra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1856-1914), Soveria Mannelli, 2007;
  • Martini, Diario 1914-1918, Milano, 1966;
  • Monzali, Italia, Francia, Gran Bretagna e la questione etiopica durante la prima guerra mondiale, Nuova Rivista Storica, fasc.3, 2017, pag. 842;

Vedi anche L. Monzali, L’Etiopia nella politica estera italiana. 1869-1915, Parma 1996,              pp 392 e ss; e Giuseppe Salvago Raggi, Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico dell’Italia liberale, Firenze, 2011;

  • Salandra, La neutralità italiana 1914-1915, Milano, 1928
  • Monzali, Sydney Sonnino, e la politica estera italiana nell’età degli imperialismi europei in La politica estera dei Toscani. Ministri degli Esteri nel Novecento, a cura di P.L. Ballini, Firenze, 2012
  • D.I., v. III, Tittoni a Sonnino, 23 marzo 1915, doc. 172 – 24 marzo 1915, doc. 180;
  • D.I. 6a Serie, vol. II, n. 787;
  • Monzali, La politica estera italiana nel primo dopoguerra 1918-1922. Sfide e problemi, in Italia contemporanea 256 – 257, 2002
  • Crespi, Alla difesa d’Italia in guerra e a Versailles, Milano, 1937;
  • DDI 6a Serie: 4 novembre 1918-30 ottobre 1922, VII volumi: pubblicati i voll. I- II ( 4 novembre 1918 – 23 marzo 1919) a cura di Rodolfo Mosca e III ( 24 marzo-22 giugno 1919) a cura di Renato Grispo;
  • Monzali, La politica estera…op.cit;
  • L’Italia si era interessata più che attivamente della “Città Santa”: con gli accordi dell’aprile del 1917 di San Giovanni di Moriana fra Francia, Inghilterra e l’Italia  era stata ammessa alla gestione “internazionale” di Gerusalemme. Nel 1919  il sultano ottomano Mehemed VI  avevo autorizzato la cessione del “Cenacolo” al Re d’Italia perché per “pretensione” Re di Gerusalemme ed erede territoriale dei sovrani angioini di Napoli, che nel 1333 avevano comprato l’area sul monte Sion. Il “Santo Cenacolo” salvatosi dalle varie distruzioni di Gerusalemme per la sua posizione decentrata, era stato il centro della comunità cristiana e prima sede vescovile fino al 335: inglobato alla fine del IV secolo in una chiesa bizantina, ricostruita dai Crociati e poi smantellata dagli Arabi nel 1219, nel 1551 fu sottratto ai Frati Francescani, insediativisi alla fine del’300, e trasformato in moschea. Solo nel XIX secolo fu autorizzata  l’apertura ai Cristiani della sala dell’Ultima Cena, dove i Frati si recavano ufficialmente a pregare il Giovedì Santo e per la Pentecoste. Il governo inglese si manifestò contrario a che un’altra Potenza europea acquistasse prestigio in Palestina: nel 1928 fu programmata  la visita di Umberto di Savoia, Principe Ereditario, al ritorno da un suo viaggio in Eritrea e Somalia. La visita doveva servire per dare al Vaticano un segnale di buona volontà nel risolvere la “Questione Romana” e servirsi quindi del sostegno della Santa Sede per agevolare l’opera di penetrazione italiana in quell’area grazie al clero latino. Riconosce Franco Cardini che: “L’Italia postunitaria dal momento che il suo Re, in quanto appartenente alla Casa Savoia e pretendente a tutte le prerogative dei precedenti Stati italici, vantava doppiamente il diritto di fregiarsi del titolo di Re di Gerusalemme, dette un segno di interessamento per la Città Santa, che si andò rafforzando dopo i Patti Lateranensi del 1929, in coincidenza con i migliorati rapporti diplomatici con la Santa Sede e con la politica estera di quegli anni, che andava sviluppando un discreto interesse per il mondo arabo e che dava segni di sempre maggiore interesse ad ostacolare l’egemonia britannica nel Mediterraneo”;

 Monzali, La politica estera…, op cit;

 Poncèt, A Palazzo Farnese. Memorie di un ambasciatore a Roma (1938-1940, Firenze,  2009;

 Luciolli, Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista, Firenze, 2011, pag.22

 

  • Consigliere Nazionale dell’Istituto del Nastro Azzurro, M componente del Collegio degli Scrittori della Rivista QUADERNI
  • contatti: quaderni.cesvam-istitutonastroazzurro.org