Prima Guerra Mondiale. Prigionia Italiana in Austria

  

La geografia dei campi di concentramento

 

I Campi per prigionieri italiani erano nei territori controllati dall’Impero Austro Ungarico: Serbia, Montenegro, Albania, Romania, Macedonia e in Italia, nel Trentino. Altri campi furono aperti anche nelle province conquistate in Italia, ovvero nel Veneto e poi nelle province conquistate in Polonia, in Ucraina, nella Volina e in Curlandia. Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania si ebbero campi anche nel territorio tedesco e della Turchia sua alleata.

La Geografia dei campi di concentramento ove furono rinchiusi i prigionieri italiani durante la prima guerra mondiale è dovuta alla ricerca ed al lavoro certosino di Alberto Burato. La ricerca di Burato parte dalla volontà di aggiungere alla lapide del proprio paese, Guarda Veneta, i nomi di cinque caduti in prigionia alla lista di quelli morti in combattimento. Iniziata la ricerca nel 1987, alla lista che lo interessava ha potuto aggiungere non 5 ma ben 30 nomi ai 31 già iscritti nella lapide. La ricerca è poi proseguita recuperando fonti orali, con la consultazione dell’Albo d’Oro dei Caduti della guerra del 1915-1918 e poi con la consultazione dei fogli matricolari dell’Archivio di Stato. Durante la consultazione di questi documenti, Burato annota pazientemente i luoghi della Prigionia, dell’Internamento e della Deportazione. Passa poi a studiare i documenti nell’Archivio Storico del Distretto Militare presso il Centro Documentale del Distretto stesso a Padova, integrando poi questi dati con i contatti presi con i Consolati e gli Enti preposti all’Onoranza dei caduti presso il Ministero della Difesa in Italia e l’Osterreichisches Schwarzes Kruez di Linz in Austria.

In questo modo è stato elaborato l’elenco dei campi di concentramento in Germania, in Austria, in Ungheria, in Polonia, nella Repubblica Ceca e nelle Repubbliche sorte dall’ex Jugoslavia, oltre che in Romania e in Turchia. Questo elenco comprende 72 campi in Austria, 8 in Belgio, 26 in Bulgaria, 3 in Bosnia, 3 in Croazia, 5 in Francia, 135 in Germania, 2 in Iraq, 16 in Italia, 2 in Serbia e Montenegro, 2 in Macedonia, 37 Polonia, 28 nella repubblica Ceca, 1 in Romania, 2 in Siria, 1 in Svizzera, 5 in Slovacchia, 5 in Slovenia, 42 in Turchia, 41 in Ungheria.

I Campi di concentramento in Austria

Nell’anno in cui l’Italia rimase neutrale, in Austria furono aperti dei campi di concentramento per accogliere i profughi e gli internati civili. Questi campi per internati civili furono il modello a cui si ispiravano quelli per prigionieri di guerra.

Si ebbero per i prigionieri di guerra tre tipi di campi: i campi di vera e propria detenzione, i Kriegsfangenenlager, le cosiddette stazioni per prigionieri, ovvero i campi di smistamento, Kriegsfangenen-Stationen, dai quali dipendevano i prigionieri isolati affidati a proprietari civili, e le compagnie di lavoro, Arbeiter Kornpanien.

L’impostazione urbanistica del campo era simile sia in Austria che in Germania: il campo sorgeva con al centro una costruzione in muratura, che poteva essere una caserma, una fabbrica, un castello o altro, nella quale si ponevano i servizi del campo: le cucine, i bagni, la lavanderia. Da questo centro si organizzavano in lunghe file parallele le baracche che ospitavano i prigionieri. Più o meno spaziose, queste potevano contenere da 100 a 250 uomini; le baracche, separate tra di loro, erano organizzate e divise in blocchi. Ogni blocco poteva, a seconda dei casi, avere dei servizi come la Cappella, l’infermeria, o anche un ospedale, dei locali per la disinfestazione, il barbiere, ecc. In alcuni campi vi erano aree per i giochi e per le adunate collettive.

 

 

Uno sterminio collettivo?

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, già nella sua dizione, ricercava nella volontà del nemico la causa principale dell’alto numero di decessi fra i prigionieri di guerra italiani. La monarchia austro-ungarica e la Germania imperiale si sarebbero vendicate, sui prigionieri di guerra, della decisione italiana di abbandonare la Triplice e di allearsi con l’Intesa. La Commissione sostiene che i Governi di Vienna e di Berlino avevano deciso, facendo mancare viveri e vestiario ai prigionieri italiani, e quindi violando la Convezione dell’Aja del 1907, di provocare il maggior numero di morti fra gli italiani in loro mano.

Se questo fosse stato vero, vi doveva essere un tasso di mortalità altissimo fra gli ufficiali, cioè tra gli esponenti della classe dirigente che avevano perpetrato il tradimento, ma noi sappiamo che invece il tasso di mortalità fra gli ufficiali fu molto basso. Dobbiamo allora pensare ad una vendetta esercitata solo sui soldati, in nome forse di un principio di classe? Appare quanto mai improbabile.

Nelle carte della Commissione emerge il fatto che le cause primarie delle morti in prigionia sono state la fame, il freddo e gli stenti. Si riportano un gran numero di testimonianze in questo senso. Ed è chiaro che le autorità, sia tedesche che austriache, non davano al prigioniero italiano vitto ed indumenti sufficienti per sopravvivere.

Viene chiamato in causa il servizio di assistenza che dall’Italia era attivato a favore dei prigionieri, ovvero l’invio dei pacchi contenenti cibo ed indumenti. Il nemico era intervenuto in questo settore, ponendo ostacoli infiniti, per non far giungere i pacchi che le famiglie dei prigionieri inviavano ai loro congiunti, con lo scopo di creare malumore e rancori tra le famiglie dei prigionieri e le autorità italiane. Una sorta di guerra psicologica sul fronte interno italiano.

Nelle carte della Commissione non risultano però tutti i disservizi del servizio postale in Italia, e le varie difficoltà via via frapposte dal Governo Italiano e dal Comando Supremo all’invio dei pacchi ai prigionieri italiani, così come non appare la decisione di non attuare, come facevano invece gli altri stati alleati, un servizio di stato di assistenza ai prigionieri. Quindi tutte le osservazioni della Commissione sono volte a dimostrare le colpe dei paesi detentori e le loro finalità crudeli. Non vi sono riferimenti di alcun genere al comportamento del Governo Italiano su questo problema né tanto meno a quello del Comando Supremo.

Un problema nuovo: la prigionia di massa

Nella prima guerra mondiale, per la prima volta nel corso della storia, si confrontarono enormi masse di soldati e i Governi dovettero affrontare anche il problema di gestire un numero altissimo di prigionieri di guerra. Era impensabile sterminarli tutti; dunque occorreva provvedere ad essi. Le norme di diritto internazionale in essere si rilevarono presto non adeguate. Infatti, quando si parla di trattamento nei campi, in termini di vitto, la norma della Convenzione dell’Aja del 1907 prevedeva che la razione giornaliera da corrispondere al prigioniero fosse uguale a quella corrisposta ai militari dell’esercito della nazione detentrice. Questo andava bene in riferimento alla Gran Bretagna o alla Germania, in cui la razione era accettabile; i problemi iniziarono a sorgere in riferimento a nazioni come la Serbia o la Turchia, in cui la razione per il proprio soldato era miserrima e la sopravvivenza era in pratica affidata alla iniziativa del singolo ed alle cosiddette risorse locali. Questo vuol dire che il rispetto formale della convenzione non bastava a salvaguardare la vita del prigioniero.

Durante la guerra poi, gli Imperi Centrali informarono — attraverso le organizzazioni umanitarie, ovvero la Croce Rossa Internazionale con sede a Ginevra e il Vaticano — che, in seguito al blocco attuato nei loro confronti, le risorse alimentari erano scarse sia per la popolazione sia per i prigionieri di guerra in loro mani. Si dichiaravano comunque disponibili a sottoscrivere eventuali accordi al fine di far giungere ai prigionieri viveri dalla propria patria d’origine. Gran Bretagna, Francia e Belgio si posero subito il problema e la loro politica fu quella di attuare un servizio di Stato di assistenza diretta ai Prigionieri in Germania e in Austria, servizio che doveva essere gestito, nella sua fase finale, dalle organizzazioni umanitarie, cioè la Croce Rossa o anche il Vaticano.

Sotto la spinta dell’opinione pubblica furono attuati vari accordi che portarono prima allo scambio dei “grandi invalidi” e dei feriti gravi, poi dei prigionieri validi, che avessero particolari requisiti: per esempio che avessero più di 18 mesi di prigionia, o fossero padri di oltre 4 figli o avessero una età avanzata. Il frutto di tali accordi fu che il prigioniero inglese, americano, francese o belga riceva in modo continuo e corretto la sua razione di viveri e l’assistenza dal proprio paese.

La Gran Bretagna si adeguò immediatamente a questo sistema che fu esteso a tutti gli altri stati alleati. In pratica quindi i prigionieri inglesi, belgi, rumeni, montenegrini, polacchi, serbi e russi, riuscirono ad avere questa assistenza di stato.

È facilmente intuibile che, messo in atto questo sistema di assistenza, la conseguenza fu che il tasso di mortalità per queste prigionie fu quanto mai accettabile. Dei 600.000 prigionieri francesi in mano agli Imperi Centrali, solo 20.000 morirono in prigionia.

 

L’azione del Governo italiano verso i prigionieri di guerra

Quale fu, invece la politica del Governo italiano, e in primis quella del Comando Supremo?

Anche il governo italiano fu sorpreso dal gran numero di prigionieri che caddero nelle sue mani; ma fu ancor più sorpreso dal fatto che i soldati inviati al fronte, ed impiegati con i metodi “cadorniani” spesso preferivano disertare o darsi prigionieri piuttosto che morire sul posto.

In Italia, su sollecitazione della Croce Rossa Internazionale, già dal 1914 era stata costituita la Commissione Prigionieri di Guerra da parte della Croce Rossa Italiana, presieduta prima dall’on. Emilio Mariani, poi per tutta la durata della guerra dall’on. Giuseppe Frascara, con il compito di curare le esigenze e le necessità dei prigionieri di guerra italiani e degli internati civili italiani nei paesi a cui avevano dichiarato guerra. Inizialmente tale commissione, tramite la Croce Rossa Internazionale, prese contatto con la equivalente commissione della Croce Rossa austriaca a Vienna; e dopo la dichiarazione di guerra alla Germania avviò contatti anche con quella di Berlino. Successivamente instaurò contatti -peraltro molto limitati- con le equivalenti istituzioni della Bulgaria e della Turchia.

I compiti della Commissione inizialmente erano quelli di preparare e scambiare con Vienna le liste dei prigionieri, curare il buon funzionamento della corrispondenza, provvedere al recupero delle reliquie dei caduti, svolgere le pratiche legali necessarie, e soprattutto aiutare a preparare i pacchi di viveri ed indumenti per i prigionieri. Sul territorio nazionale la Commissione aveva quindici comitati locali, che furono poi affiancati da altri comitati aperti nelle sedi dei Comandi di Corpo d’Armata.

Con il procedere della guerra, si ritenne opportuno sottrarre alla Commissione il compito di gestire la corrispondenza che fu affidata all’Ufficio Prigionieri presso la Divisione Stato Maggiore del Ministero della Guerra (ufficio denominato “Z”). Lo scopo di questo provvedimento era quello di controllare attentamente la posta per scoprire chi tra i prigionieri poteva essere considerato disertore. Ovviamente questi controlli allungavano i tempi di smistamento della corrispondenza.

L’attività principale della Commissione fu quella dell’organizzazione dei soccorsi di cui lo Stato italiano si disinteressava lasciando che tutto fosse affidato alla buona volontà, alle risorse e alla organizzazione di questa Commissione e dei comitati con il contributo e il concorso delle famiglie dei prigionieri e della carità pubblica. I soccorsi consistevano in denaro, che permetteva al prigioniero di acquistare sul posto quanto gli necessitava, oppure in pacchi di viveri ed indumenti.

 

Questa organizzazione, basata sulla buona volontà di operatori privati, funzionò abbastanza bene, finché la situazione rimase sotto controllo e il numero dei prigionieri non crebbe troppo. La mancanza di un vero coordinamento e il continuo crescere del numero dei soldati da assistere rese però del tutto inadeguata l’attività della Commissione e dei Comitati Locali. L’organizzazione si dimostrò impari alle necessità. Quando, dopo Caporetto, il numero dei prigionieri da assistere arrivò ad oltre 600.000, l’organizzazione privatistica della Croce Rossa manifestò tutta la sua inadeguatezza. Proprio questa realtà aveva convinto il Governo Francese e quello della Gran Bretagna a gestire direttamente il sostegno ai prigionieri, fermo restando che i paesi detentori non avevano i mezzi per farlo. L’onere finanziario e organizzativo dell’assistenza doveva essere assunto dallo Stato.

Il Governo Italiano, con chiara interpretazione legalistica, si appellò all’art. 7 della Convenzione dell’Aja, che imponeva al paese detentore di provvedere al sostentamento dei prigionieri in sua mano, mentre l’art.15 prevedeva l’invio di soccorsi solo da parte dei privati e — per tutta la guerra autorizzò solo l’invio di soccorsi individuali da parte di privati tramite la Croce Rossa; con la sola eccezione dell’invio di soccorsi collettivi per gli Ufficiali. Questi vedevano anticipare dalla Croce Rossa la spesa delle derrate o indumenti inviati che poi veniva restituita dalle famiglie con invii di denaro su appositi conti della Croce Rossa Italiana. Anche questo sistema, in ogni caso, fu interrotto dopo Caporetto.

Il Governo vietò di ricorrere a sottoscrizioni pubbliche a favore dei prigionieri, mentre varie organizzazioni cattoliche ed umanitarie trovarono forti ostacoli a finalizzare il proprio aiuto ai prigionieri. La stessa commissione della Croce Rossa aveva fondi solo dai privati, perché lo Stato aveva autorizzato solo i proventi della vendita della carta straccia e dei cosiddetti “rifiuti d’archivio”, cioè dei mobili dismessi dai ministeri e dagli uffici pubblici. Quando l’organizzazione della Commissione per i Prigionieri dovette necessariamente ingrandirsi e si ricorse all’impiego di personale retribuito, perché quello volontario a prestazione gratuita non era più sufficiente, i fondi a disposizione praticamente bastavano solo a l’attività dell’organizzazione stessa e rimaneva poco o nulla da destinare alle necessità dei prigionieri.

In pratica nel momento del massimo bisogno l’organizzazione di sostegno e soccorso ai prigionieri in Italia giunse al limite del collasso. I prigionieri le cui famiglie non erano in condizione di mandare aiuti furono abbandonati a se stessi e spesso condannati a morte.