SERGIO BENEDETTO SABETTA. Memorie di una famiglia del primo ‘900.

  

 

Oggi nel Centenario della Grande Guerra ritengo giunto il momento di mettere per iscritto ciò che resta delle memorie della famiglia di mia madre nel corso del secolo scorso.

La data è significativa in quanto la famiglia di mia madre, Mattiuzzo Clementina Rita, nata il 21.03.1918, profuga, ospitata fortunatamente dal nonno materno a Paese (TV), si ritrovò senza più beni e terre lungo il Piave, rese aride dalle battaglie, luogo oltretutto di rottura del fronte quale fu Nervesa della Battaglia, il Montello, Spresiano.

Suo padre Mattiuzzo Raimondo era da anni in guerra, guerra di Libia e Grande Guerra, i figli nascevano durante le licenze ed i beni venivano in parte consumati per mantenerli, la disfatta creò un vulnus nella famiglia sia economico che psichico che si protrasse per oltre tre generazioni.

La nonna Laura Baseggio, parente dell’attore goldoniano Cecco Baseggio,  raccontava che la figlia Clementina Rita, durante i bombardamenti degli austroungarici veniva presa dai soldati ed insieme alla nonna portata nei loro rifugi in quanto dicevano che : “dove vi è un Angelo non può cadere una bomba”.

Terminata la guerra a pochi chilometri dal Piave la fame era forte e la nonna con i figli, ospite del padre, viveva con le razioni passate dall’Esercito, la piccola Clementina Rita, di soli uno/due anni andava per mano, con la sorella  Serafina, di soli due anni più grande,  a prendere, con un gavettino, il latte fresco  presso la cucina da campo dei soldati accampati poco lontano, perdendone buona parte per il dondolio, ma a casa qualcosa pur arrivava.

Al ritorno dalla guerra il nonno Raimondo trovò i campi devastati e la casa saccheggiata e diroccata, il negozio, gestito con i fratelli completamente sparito, i figli nel frattempo erano diventati otto,  bisognava  sfamarli, i  campi  improduttivi  il

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cui risanamento richiedeva soldi e tempo, furono venduti, nessun risarcimento da parte dello Stato.

L’unico lavoro che il nonno trovò furono giornate di scavo per i canali che si stavano costruendo nel Veneto al fine dell’irrigazione, uno dei vari motivi era dare del lavoro ai reduci.

Successivamente con l’ascesa del fascismo non volle prendere la tessera del P.N.F. , restò pertanto disoccupato e dovette quindi partire con il figlio maggiore  per le miniere di carbone nel Belgio dove rimase per oltre un anno.

La nonna  di fronte al rischio di malattie e soprattutto di infortuni, a seguito delle lettere che riceveva, chiese caldamente ai suoi cari di ritornare, tutti insieme avrebbero trovato altre soluzioni.

Gli fu consigliato di iscrivere la famiglia nel registro dei poveri del comune, dove avrebbero avuto alcuni  litri di latte e del pane per tutti, ma la nonna con dignità rifiutò.

Nel frattempo vi erano parecchi scontri per la salita al potere del fascismo, la mamma con le sorelle ed i fratelli aveva iniziato a frequentare la scuola dell’obbligo, le elementari triennali, la maestra raccomandava ai bambini di scappare dalla finestra in caso di irruzione nella scuola di bande armate. Mensilmente venivano portati sulle rive del Piave a gettare fiori ai caduti, lungo il percorso spesso rinvenivano resti umani, ma data l’età non si impaurivano.

Il fratello maggiore Narciso, che aveva avuto la “febbre nervina” ed era stato salvato in extremis con pezze fredde dal medico, risultava di costituzione “debole”, ed era anche di statura più piccola rispetto alla media.

Un giorno mentre andava per una strada di campagna cantando, assistette ad un pestaggio e bevuta di olio di ricino di alcuni suoi amici avvenuta ad opera di una squadra di fascisti nascosti dietro le siepi accanto alla strada.

Un suo cugino bastonato nell’occasione prese una baionetta, armi che si trovavano  facilmente  quali  residuati  di  guerra  lungo  il  Piave,  e  corse  per  la

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campagna gridando che avrebbe ucciso un fascista.

Sua mamma terrorizzata che potesse venire ucciso da una squadra di fascisti, corse dalla nonna implorando l’aiuto del nonno che partì per la campagna alla sua ricerca e, trovatolo, lo convinse a deporre l’arma e rientrare a casa.

La mamma Clementina Rita, durante le elementari per aiutare la famiglia, fuori dell’orario della scuola, andava a pascolare quattro o cinque oche lungo i fossati a fianco della strada, portando con sé l’abecedario per leggerlo seduta sul ciglio della strada. Il nonno si raccomandava di non ricevere lamentele dai vicini perchè le oche invadessero i loro campi e di non toccare la frutta dagli alberi, in quanto sì poveri, ma sempre onesti e rispettati.

I fratelli del nonno che non avevano  avuto figli  si offrirono per allevarne alcuni , i nonni accettarono alla sola condizione che vi andassero spontaneamente.

Questi zii erano più agiati non essendo andati in guerra, erano riusciti a conservare campi e stalle, tuttavia i bambini non accettarono e la mamma con la sorella scapparono tra le braccia dei genitori sicché rimasero a casa.

Non mancarono tuttavia gli aiuti da parte degli zii che davano al nonno dei sacchi di frutta per i figli, o lo aiutavano a comprare grossi sacchi di zoccoli di legno che portati in cucina venivano rovesciati sul pavimento ed ognuno cercava quelli adatti, mentre le calze di lana erano preparate dalla nonna con i ferri a mano, successivamente anche le bambine avevano imparato a lavorare la maglia.

Al compimento della maggiore età lavorativa, 13 anni, la mamma fu portata alla filanda a Lovadina e schierata insieme a tutte le altre bimbe nel cortile. Il direttore della filanda passò e scelse quelle che sarebbero andate a lavorare, saputo che si trattava di una Baseggio la scelse insieme ad altre ed ordinò che si presentasse il giorno dopo.

Il giorno dopo vestita di un completo di maglia bianca, gonna nera e calzettoni bianchi, andò a lavorare accompagnata dal papà, si trattava di vivere nella filanda dal lunedì al sabato mattina e nel pomeriggio tornava a casa accompagnata dal papà.

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La  mamma non le permetteva di lavorare a casa perché diceva: “chi lavora deve riposare” .

Il nonno, quando usciva, si copriva con il mantello militare sulle spalle, ricordo degli anni di guerra, e usava la bicicletta, tutti i figli indossavano maglie e calze di lana fatte a mano e zoccoli ai piedi, mentre molti bambini andavano solo con gli zoccoli nella neve o sul ghiaccio senza calze.

A casa vi era sempre accesa la stufa economica a legna con l’acqua calda per lavarsi, il nonno ripeteva che voleva figli sani e forti, non importava che non ci fossero più beni, se li sarebbero rifatti, la TBC falciava infatti intere famiglie, anche contadini benestanti che risparmiavano sul vestiario, e fortunatamente nessuno dei figli si ammalò.

Un giorno la nonna andando a Messa, si partiva presto essendo il percorso tutto a piedi,  venne indicata nella predica dal parroco per una festa da ballo organizzata in casa per il compleanno di una delle figlie.

Si vergognò e ritornò mortificata a casa, il nonno prese la bicicletta, mise il mantello sulle spalle e andò dal parroco affrontandolo, chiese se era meglio mandare le figlie, che non potevano sempre lavorare, vista anche la giovane età, senza alcuno svago, fuori casa presso altre famiglie od organizzare un ballo in casa sotto la sorveglianza dei genitori. Il parroco diede ragione al nonno.

Questi si svegliava spesso gridando per i traumi di guerra, una volta era entrato in camera da letto il figlio primogenito Narciso per salutarlo, dormiva, si svegliò urlando , lo prese per il collo e lo trascinò alla finestra per gettarlo giù. Lo fermò la nonna che si attaccò alla camicia da notte  gridando di svegliarsi, mentre il figlio urlava: “papà sono io”, si riprese giusto in tempo, disse che sognava di essere in trincea ed un soldato austriaco era saltato dentro con la baionetta innestata.

Il nonno raccontava che durante la guerra in un attacco nemico vide un soldato austroungarico saltare nella postazione di artiglieria dove era addetto, afferrato il fucile gli sparò uccidendolo.

Gli rimase il rimorso per tutta la vita e nel raccontarlo, finiva dicendo che avrebbe voluto mandare dei soldi alla vedova e ai figli per dimostrare che era stato

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costretto dalla violenza della guerra e non avrebbe mai voluto far soffrire la sua famiglia, poi continuava concludendo “anche io avevo una famiglia, chissà quanti ne ho uccisi con il cannone, ma non lo volevo né li vedevo”.

Mentre la sorella maggiore Serafina, grazie alla mediazione del parroco, andò in collegio in Svizzera presso le suore del Cantone di San Gallo, dove imparò a cucire e ricamare, tornando dopo qualche anno con un baule carico di corredo e vestita con guanti, mantellina e cappello da collegiale, mia mamma Clemetina Rita, lavorava in filanda dal lunedì mattina al sabato mattina, vivendo all’interno in grandi camerate.

Al mattino ponevano il cibo, che dove essere cotto per il pranzo, all’interno di ciotole poste sul baule ai piedi del lettino, vi erano lunghe file di letti nelle camerate come in una caserma, nella mattinata veniva raccolto e cucinato per essere distribuito alla sala mensa.

La vita in filanda era scandita dall’alternarsi delle ore lavorative e delle ore serali di riposo sempre chiuse all’interno, si provvedeva a cucire, ricamare, lavorare ai ferri la lana.

Mia mamma era addetta ai bachi da seta che doveva distribuire lungo la filiera in ciotole di acqua bollente, le mani venivano refrigerate immergendole in ciotole di acqua fredda. Una delle compagne più adulte seduta di fronte a lei, ogni lunedì, quando era contrariata per litigi con il fidanzato, si divertiva a bagnarla lanciando l’acqua dalla bacinella.

La mamma continuava a lavorare in silenzio bagnata senza lamentarsi, finché un giorno il direttore della filanda se ne accorse e ponendosi davanti alla ragazza anziana, la fissò con sguardo severo e questa smise l’angheria.

La nonna durante gli anni venti soffrì di pellagra sul collo, il medico che la diagnosticò chiese al nonno: “Raimondo, puoi comprare del formaggio e della frutta?” Il nonno piuttosto offeso rispose che senz’altro era in grado di acquistare il necessario.

Nelle ore libere la mamma veniva chiamata dal direttore della filanda per giocare con sua figlia molto più piccola, poiché la moglie era morta giovane, sebbene

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vi fosse una notevole differenza di età la bimba vivendo in una villa a fianco della filanda in campagna, non aveva compagnia, pertanto il direttore cercava una compagna di giochi per sua figlia. Sebbene fosse stata scelta per il suo buon carattere, alla mamma questo un po’ pesava, perché anche se aveva dei dolci in cambio, non aveva tempo per riposare.

Si ricordava che una volta entrata nella villa, nel salone principale vi era un grosso cane in porcellana di Bassano più alto di lei, tanto che, quando lo vide,  fece un balzo di paura ed il direttore si mise a ridere.

Dopo tre anni di filanda, arrivò da Genova la cartolina di una zia dove  diceva che vi era possibilità di lavoro, fu chiesto chi voleva andare e partì mia mamma con in tasca una cartolina preaffrancata indirizzata a casa, da spedire all’arrivo alla Stazione di Genova Porta Principe, per dimostrare che il viaggio era stato positivo e senza nessun imprevisto. Il direttore della filanda nel congedarla si disse pronto a riassumerla se a Genova non si trovava bene.

Il primo lavoro fu presso la locanda della zia nella Salita Di Negro presso la Chiesa, là vi andavano a mangiare i portuali e la mamma serviva ai tavoli, una volta in cucina le cadde la pasta dal piatto, fu lestamente raccolta e rimessa sullo stesso e servita al tavolo, “quello che non uccide, ingrassa” fu la sentenza.

Una macchietta analoga era capitata già nel Veneto, dove presso il Piave un’altra zia aveva e gestiva con il marito una Osteria, una volta mentre bambine lei e la sorella maggiore Serafina davano una mano , mancò il vino; la sorella maggiore fu spedita in cantina per riempire le brocche, ma non tornava. Andarono a vedere e la trovarono che succhiava dalla canna della damigiana il vino e continuava a bere, era ubriaca, non si capacitava a riempire la brocca!

La zia girava con una gonna lunga fino ai piedi ed una cinghia di cuoio dove teneva infilate le chiavi della cantina, manteneva l’ordine cacciando dalla porta di peso gli ubriachi.

Tornando alla mamma, lo zio conosceva il cambusiere del REX che attraccava al ponte dei Mille, questi sapeva che la famiglia nobile Maineri, provenienti da Fiume cercavano personale fidato e chiese allo zio.

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Lo zio segnalò la mamma che prese quindi servizio presso la nobile famiglia marchionale, alloggiata nella villa D’Oria presso Ponte dei Mille.

La mamma era addetta al guardaroba ed aiutava in cucina qualora fosse necessario, aveva comunque una stanza sua e l’uniforme.

Quando arrivava il transatlantico REX , che attraccava a Ponte dei Mille, sbarcava anche il genero del marchese che era ufficiale  e con lui venivano sbarcati i bauli-valigia contenenti dodici divise bianche estive, dodici divise invernali e dozzine di camice ed altra biancheria personale.

Tutto doveva essere lavato e stirato entro quindici giorni, per cui si procedeva al lavaggio a mano ed alla  stiratura ad oltranza con particolare oculatezza.

Il lavorare nelle cucine permetteva di accedere alla dispensa per poter aiutare con qualche alimento la sorella Giuseppina.

Quest’ultima aveva sposato nel  Veneto un uomo di cagionevole salute per cui non trovava lavoro, questo indusse i nonni a chiedere alle figlie di chiamarlo a Genova per cercare lavoro.

Il marchese Maineri, istriano, era diventato nel frattempo direttore dello stabilimento Ansaldo di Sestri Ponente e tutti i giorni andava al lavoro con il tram, la mamma gli chiese un lavoro, anche semplice,   per il cognato.

Nel frattempo la Guerra procedeva e si allargava all’Italia nel giugno del 1940.

Alla sera del giorno della dichiarazione di guerra si presentò la flotta francese uscita da Tolone che bombardò Genova, vi fu panico e molte delle infermiere dell’ospedale di San Martino diedero le dimissioni. Si creò una mancanza di personale infermieristico, alla zia Serafina che avendo lavorato come sarta in un collegio di San Gallo in Svizzera, tornata in Italia era stata assunta presso l’ospedale di San Martino quale guardarobiera, fu chiesto se conosceva qualcuno di fidato. Serafina, su richiesta della suora caposala, portò quindi la sorella a lavorare in ospedale quale inserviente, lasciando con affetto, la famiglia dei marchesi.

In quel periodo assistette a tutti i bombardamenti di Genova, nonché al ricovero e cura  di tutti i feriti, durante un bombardamento fu centrato l’ingresso di

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un rifugio, la detonazione e la polvere sollevata con la caduta dei calcinacci determino panico e un senso di asfissia. Vi fu una corsa generale all’uscita, alcuni caddero e furono calpestati, alla fine furono raccolti centinaia di corpi, morti per schiacciamento, furono portati e distesi sul piazzale della Camera Mortuaria al lato destro di San Martino.

La mamma quel giorno vide la marea dei corpi affiancati e il tentativo di riconoscimento da parte dei parenti e delle autorità.

Durante i bombardamenti vi era l’ordine di non lasciare soli i pazienti, così che quelli che si rifiutavano di essere trasportati ai rifugi dovevano essere comunque affiancati nei reparti dal personale sanitario.

Durante un bombardamento, per errore, fu centrato e distrutto uno dei padiglioni con la conseguente morte di molti pazienti, degli infermieri ed un dottore, da allora vi fu l’ordine di lasciare soli i pazienti che non volevano essere trasportati.

Con l’occupazione dell’Italia del centro-nord da parte tedesca dopo l’8 settembre a San Martino alcuni padiglioni vengono dedicati agli ammalati fascisti e tedeschi.

Tutti i giorni andando a lavorare da Largo Zecca, sotto Corso Firenze dove era in affitto, all’ospedale era obbligata a passare vicino alla Casa dello Studente che, trasformata in prigione dalle SS e dalla RSI, conteneva gli oppositori politici che venivano interrogati e torturati.

La mamma si ricordava le urla e i lamenti dei detenuti, nonché il filo spinato che circondava l’edificio con le guardie, tuttavia per non subire guai bisognava passare senza dare manifestazioni di disappunto, anche in occasione di grida improvvise provenienti dai sotterranei.

Nel frattempo le sorelle avevano trasferito nel Veneto un baule con gli indumenti più pregiati, questo fu interrato ma la mamma non riebbe più indietro i suoi vestiti che vennero lasciati ai nonni.

Le sue sorelle Giuseppina e Serafina, nel frattempo sposatesi, avevano avuto un figlio maschio ciascuna, purtroppo la prima nel portare il piccolo in fasce nel Veneto dai nonni al fine di sottrarlo dalla guerra nella grande città, sottoposta a

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bombardamenti e restrizioni,  durante il tragitto contrasse la difterite che lo condusse a morte.

La nonna, di fronte a tale lutto, chiese di non portare più bimbi in fasce da custodire per non assumersi colpe per una eventuale disgrazia.

La seconda Serafina rimasta incinta perse il figlio a seguito delle paure provate durante i bombardamenti, il piccolo nacque morto strangolato dal cordone ombelicale. I medici volevano aspettare ma la sorella Rita, essendo infermiera si accorse che passato il decimo mese il colore della sorella diventava cianotico e ne parlò con i medici che visitata la paziente la fecero partorire, salvando in tal modo la vita della sorella.     In guerra vi era una continua urgenza!

Durante il periodo dell’8 settembre a seguito della grande confusione che si era determinata, alla mamma fu dato dalla caposala il bracciale della CRI affinché potesse superare senza problemi i posti di blocco delle Forze Armate Tedesche.

Al fine di evitare tali posti di blocco e non incappare in eventuali retate, la mamma soleva passare in quei giorni per le strade a monte di Genova, ma anche lì vi erano alcuni posti di blocco. In uno di questi un militare tedesco, vedendo mia madre con il bracciale della CRI,  con  i capelli biondi e gli occhi azzurri, le disse che lei era ariana e quindi doveva andare in Germania per curare i soldati tedeschi. La mamma con prontezza di spirito disse che aveva la sua mamma malata, il soldato tedesco si commosse dicendo “ja, ja, mamma ammalata” e la lasciò passare.

Durante l’occupazione le milizie della RSI arruolavano anche dei minorenni, ragazzini sui dodici – quattordici anni, alla fermata del tram a Largo Zecca, mentre andavano al lavoro, la sorella Serafina vide uno di questi ragazzini fermo sul marciapiede armato fino ai denti, la zia rivolta alla mamma disse “quanto ci vuole a disarmarlo ed a scappellotti mandarlo a casa”. La mamma intimorita le disse di tacere perché se avessero sentito le avrebbero arrestate essendo dietro a quelli altri militi adulti.

Durante un bombardamento all’uscita del rifugio, una delle casa di Corso Firenze bruciava e i pompieri cercavano di spegnere l’incendio con gli idranti, in quel momento si accorsero che uno spezzone incendiario aveva appiccato il fuoco nel tetto della casa di  fronte  dove  loro  abitavano,  girarono  gli  idranti  e  riuscirono  a

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spegnere l’incendio. Fu una fortuna, altrimenti entrambe le sorelle sarebbe state sfollate.

Venne il giorno della liberazione, la mamma con la sorella erano a San Martino quando iniziarono le sparatorie per la città. Dovevano tornare a casa, ma per le vie vi erano scontri armati, infatti scese a Piazza Terralba vennero bloccate da una sparatoria.

Da una casa isolata, presso la ferrovia un  gruppo di fascisti, asserragliati, non volevano arrendersi e sparavano su chiunque attraversasse la strada, aspettavano gli Alleati.

Quando esaurivano il caricatore l’arma veniva immediatamente sostituita, così da ottenere un fuoco continuo, i partigiani a loro volta rispondevano al fuoco e durante l’intervallo di pochi secondi tra un caricatore e l’altro, uno di essi appostato all’angolo della strada dava il segnale ai cittadini di correre per attraversarla e raggiungere il palazzo opposto.

La mamma con trepidazione attese il suo turno e al segnale con la sorella corsero attraverso la strada cercando di non scivolare, raggiunta la salvezza  poterono continuare per la via di casa.

In quei giorni di aprile del 1945 partì dalla stazione Principe l’ultimo treno, carico di fascisti e tedeschi in ritirata, il convoglio era governato da personale delle FF.SS. comandato, tra questi vi era il cognato Walter marito di Serafina, le due sorelle si precipitarono alla stazione in attesa di notizie. Avevano timore che lungo la strada o giunti a destinazione, per attacchi aerei o per rappresaglia il personale venisse ucciso, finalmente giunse notizia che il convoglio ritornava intatto.

Alcune settimane dopo la liberazione arrivò con il Corpo di Liberazione, quale carabiniere mio padre Donato, il Comando fu insediato vicino a Piazza Principe a Largo Zecca.

Fu immediato l’impatto con le varie anime del CLN, infatti un giorno alla foce del Bisagno fu fermato da una pattuglia che si presentò quale partigiana, questi armati gli dissero di seguirli per il riconoscimento.

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Con prontezza di spirito papà rispose che loro dovevano seguirlo al Comando Carabinieri per un reciproco riconoscimento, fu lasciato andare. Papà ha sempre sostenuto che in realtà mirassero ad impossessarsi delle sue armi.

Altro fatto avvenne all’attentato di Togliatti, quando via XX Settembre fu bloccata con delle mitragliatrici pesanti poste sul Ponte Monumentale. La città fu bloccata per alcuni giorni, lui ricette l’ordine di passare compiendo un lungo giro per Spianata Castelletto, al fine di evitare qualsiasi provocazione, nella necessità tuttavia di mantenere i collegamenti tra Principe e Forte San Giuliano, sede dei reparti dell’esercito. Alcuni giorni dopo il blocco fu tolto e tutto rientrò.

Nel frattempo erano tornati dalla prigionia i due fratelli che, in mancanza di un lavoro dovettero essere alloggiati provvisoriamente dalle sorelle.

Anche il cognato, partito nel 1943 per il fronte, tornò ammalato di tubercolosi e ricoverato al padiglione isolamento di San Martino, dove era stata trasferita la mamma quale infermiera specializzata, era uno dei reparti più temuti per la forte infettività.

Le medicine, finita la guerra, scarseggiavano e la penicillina del tutto innovativa e portata dagli Alleati era distribuita con il conta gocce, tanto che veniva conservata in un armadietto metallico la cui chiave era custodita dalla caposala.

Anche nel Veneto vi furono delle tragedie, un cugino, catturato, venne fucilato al poligono di Treviso quale partigiano, nel tragitto fu condotto innanzi alla casa dei genitori e lanciato un sassolino alla finestra si videro per l’ultima volta.

Nel 1943-44, durante le deportazioni, un treno merci pieno di deportati si fermò vicino casa, si sentivano le grida degli assetati, il nonno, riempito un secchio d’acqua, con un mestolo si avviò, ma giunto vicino ai vagoni da dietro a questi spuntò un tedesco che gli spianò l’arma urlando “Rauss”, furono pochi secondi di paura, il nonno dovette allontanarsi rapidamente, in silenzio, senza fare alcun gesto.

La figlia minore, Resi, nel 1944 a sua volta si era fidanzata ed aveva sposato un milite della RSI impiegato presso il Ministero P.I. di Salò, alla fine della guerra il nonno dovette darle rifugio mentre il marito, originario di Salerno, con l’aiuto del

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parroco salì su un treno diretto verso il Sud Italia e successivamente fu raggiunto dalla moglie.

Quando finalmente nel 1950 era in corso la ricostruzione il nonno, ormai logoro dalle molte vicissitudini, ebbe un ictus, vennero chiamati i figli per un ultimo saluto e con loro il parroco per l’estrema unzione che  rivolgendosi al nonno e chiamandolo affettuosamente “Mondo” (diminutivo di Raimondo), disse: “devi confessarti”. Il nonno rispose. “Cosa ho da dire? Non ho rubato, ho lavorato sempre per allevare i miei figli, sono andato in guerra ed ho perso tutto”, il parroco lo guardò “hai ragione Mondo” e lo benedì.

La nonna non si tolse mai il lutto, come del resto anche la nonna paterna per la perdita del figlio Benedetto  disperso a Cefalonia.

In questi frangenti, finita la guerra nacquero due nipotini, Daria e Piero che nelle difficoltà portarono una luce di fiducia.

Tre anni dopo la fine della guerra, finalmente, papà si fidanzò con la mamma avendola incontrata alla fermata del tram davanti alla sua caserma. Ufficializzato il fidanzamento presso il Comando, papà venne trasferito, come da regolamento, a Finale Ligure, non potendo rimanere in servizio nella stessa località dove risedeva la fidanzata.

Successivamente nel 1955 si sposarono e subirono un ulteriore trasferimento ad Ancona, sede lontana dai parenti di entrambi e dopo due anni ebbero un figlio che lo chiamarono Sergio Benedetto, a ricordo dello zio scomparso a Cefalonia.

Sergio  Benedetto  Sabetta

 

 

 

 

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