Pablo Dell’Osa. Pola 31 ottobre – 1 novembre 1918: l’ultima notte della Virbus Unitis

  

Pola, 31 ottobre-1 novembre 1918: l’ultima notte della Viribus Unitis

di

Pablo Dell’Osa[1]

 L’azione di guerra che si consumò, nelle acque del porto di Pola, in due ore, dalle 4.30 alle 6.30[2], dell’1 novembre 1918, con l’affondamento della corazzata Viribus Unitis, ufficialmente battente bandiera del neocostituito Stato degli sloveni, croati e serbi[3], ma ancora intimamente austroungarica, prendeva le mosse nell’ottobre 1915[4]. Lo spiega lo stesso inventore della torpedine semovente -nei due prototipi S1 e S2- Raffaele Rossetti, nelle sue memorie dell’impresa Contro la Viribus Unitis. Opera pubblicata, in due differenti edizioni, dalla Libreria politica moderna di Roma nel 1925. Congegno con motore propulsore ad aria compressa da 10 miglia di autonomia e velocità di 2 nodi e due cariche di tritolo ad elettrocalamita da 175 chilogrammi ciascuna, dotate di spolette ad orologeria con regolazione massima di 6 ore, che passerà alla storia con il nomignolo di Mignatta, come le sanguisughe dei salassi medici ottocenteschi[5].

Sintetizzare in poche battute come si sia arrivati all’emblematica notte di Pola non è semplice. In estrema sintesi prendiamo questo stralcio di un volume imprescindibile: «Notizie propagate in città accennavano ad ammutinamenti scoppiati sulla Viribus Unitis; in ogni dove e da tutti si andava raccomandando quiete e calma, si assicurava che una potenza verrebbe quanto prima a mettere ordine: chi parlava d’americani, chi d’inglesi; rispetto agli italiani era quasi una congiura del silenzio. Tutto ciò dava da pensare»[6]. Ed andando ancora a ritroso rileggiamo insieme un altro testo chiave: «Pola era fin dall’inizio del conflitto l’obbiettivo assoluto della regia Marina, a partire cioè dal promemoria del settembre 1914 del Duca degli Abruzzi. Comandante dell’Armata navale, che mirava a “farsi trovare di fronte a Pola e decimare la flotta austriaca mentre usciva dal porto, prima che potesse assumere la formazione da battaglia”»[7]. Poi, stando alle parole di Raffaele Paolucci, entriamo nel vivo dello spirito di quell’azione: «Una cosa della quale l’Ingegnere si duole è che io attenda ancora con una certa cura alla mia persona, che voglia ritornare spesso a bordo per fare il bagno tiepido, che non abbandoni mai i guanti, che non rinunzi al piccolo conforto della nostra vita quotidiana. Bisogna dare un addio ai beni di questo mondo mi disse con accento lugubre poche sere fa; un addio a tutte le meschinità, tutte le fatuità, tutte le dolcezze della vita … Brrr!»[8]. Quindi, affidandoci alla prosa del primo biografo di Rossetti, cerchiamo di capire anche lo spirito dell’altro principale protagonista: «E se il trionfo personale può dirsi immenso, le successive vicende ufficiali […] non possono non destare ulteriore amarezza alla prima costatazione del Rossetti:”Lo sforzo contro le ostruzioni opposte al mio progetto dalla regia Marina italiana conseguì lo scopo dopo due anni e mezzo di lotta individuale ostinata. Lo sforzo contro le ostruzioni della Marina austro-ungarica non durò più di venti minuti …”»[9]. Suggestioni quasi letterarie che consentono di calarci nel contesto storico decisivo. La torpedine Rossetti era un’arma semplice e tremenda. L’apparecchio era sprovvisto di timone e per modificare la direzione di marcia i due operatori dovevano provvedere ad aumentare la resistenza all’avanzamento sul lato verso il quale volevano accostare, protendendo in fuori braccia e gambe. Unico comando per la propulsione era la chiave della valvola di registro per aprire, chiudere o regolare l’afflusso dell’aria compressa dal serbatoio alla macchina. Un sistema di autodistruzione, costituito da una piccola carica con congegno ad orologeria, era alloggiato nella sezione poppiera. Gli operatori potevano sedere a cavalcioni della torpedine, uno dietro l’altro, ma in tale configurazione l’apparecchio assumeva un assetto appoppato e il secondo uomo si trovava sgradevolmente immerso fino al collo. Per il collegamento delle cariche al bersaglio era previsto il sistema elettromagnetico che conferiva a tutto l’attrezzo il nome. Ovviamente l’ingegnere Rossetti prendeva il pretesto per sottolineare il lasso di tempo dedicato alla pianificazione dell’operazione e alla progettazione, costruzione e prova della nuova arma, che sarà l’antesignana del siluro a lenta corsa[10], il maiale, che verrà consacrato nell’impresa di Alessandria d’Egitto[11], per polemizzare dell’ostruzionismo attuato dai vertici verso la sua idea. Che si sarebbe sbloccata nell’aprile 1918.

«Una guerra nell’Adriatico moderno è come una partita a scacchi giunta agli estremi. Si possono fare poche mosse. Tra due contendenti, invadere la sponda opposta comporta sempre costi elevati […]. A Pola, gli austriaci attesero uno sbarco italiano per tre anni, nel 1915-18 […]. L’Adriatico, chiuso e stretto, dal 1866 è stato un mare bipolare; fatto che ha disincentivato la resa dei conti tra le parti. Né la Marina austroungarica né quella italiana erano del resto in grado di sferrare un’offensiva su larga scala. Vienna non pretese il dominio totale dell’Adriatico; Roma lo sognava, ma aveva anche altri mari a cui badare»[12]. Questa situazione di bipolarismo era stata incrinata a partire dalla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria Ungheria. Ma gli equilibri sul mare si erano andati riconfigurando in terra. Sul Piave, «il cui esito felice ridette animo agli italiani e fece loro ritenere che la crisi di Caporetto fosse definitivamente conclusa»[13]. L’avanzata sul Piave, che avrebbe portato al lancio dell’offensiva finale, quella verso la vittoria, sarebbe stata l’innesco che avrebbe fatto premere il piede sull’acceleratore dell’organizzazione della missione alla Viribus Unitis. In grado di far avvertire, all’interno dell’ammiragliato italiano, che quello fosse il momento. Che non si potesse fallire l’opportunità di lasciare il segno[14].

E con l’offensiva, trionfale, di Vittorio Veneto, che aveva fatto sfaldare la linea difensiva, era giunto il segnale che imponesse di agire: «Ormai l’Esercito austriaco era in pieno sfacelo»[15]. Il 28 ottobre di quel 1918 Vienna aveva chiesto l’armistizio[16]. Sul litorale asburgico le ripercussioni, interne, erano state anticipate dal montante malcontento della componenti etniche della monarchia patchwork. Ma all’implosione, che contribuì a rendere più agevole l’incursione nel porto di Pola di Paolucci e Rossetti, poiché l’attenzione di guardia era minore del solito, aveva contribuito in misura sostanziale un elemento più pratico che politico: la fame[17].

La cronica mancanza di viveri aveva punto in pancia ai militari di quella che Robert Musil, nell’Uomo senza qualità, avrebbe bollato come “Kakania”, soprattutto in Istria. Ed era balzato il malcontento che aveva a sua volta generato manifestazioni, non del tutto pacifiche, di ribellione e di dissenso. Come quella di Pola dell’1 febbraio 1918[18]. Nell’immaginario collettivo la grande guerra è avvertita come un conflitto combattuto a terra, nel fango e nelle trincee. Il ruolo della Marina è correlato alla rievocazione di singoli (e a volte straordinari) eventi. Come gli affondamenti o i tentativi, più meno riusciti, di forzamenti delle difese, proprio come quello del porto di Pola[19]. Propositi come quello sperimentato con i barchini saltatori[20]. Come quello del Grillo, che, anche per la sua disavventura, insieme al tenente di vascello Mario Pellegrini, rimarrà più impresso nella memoria[21]. Nonostante per quella prova Pellegrini avesse ottenuto la medaglia d’oro al valor militare, andando ad infoltire la schiera degli eroici sabotatori italiani dell’Adriatico[22]. O, tutt’al più, la Marina si ricorda per l’eccezionale impresa umanitaria che fu il salvataggio dell’Esercito serbo, condotto dal Duca degli Abruzzi, eternata dalla targa scoperta, nel porto di Brindisi, il 17 febbraio 1924[23].

Se non fosse riuscita l’azione di Paolucci e Rossetti, la Marina italiana sarebbe ricorsa ad una ennesima trovata. Meno ardita ed ingegnosa della Mignatta, ma che non avrebbe lasciato scampo ad insuccessi. La trasformazione della vecchia corazzata Re Umberto in nave rompi sbarramento, con carena blindata da cassoni in cemento armato e rostri che avrebbe, idealmente, dovuto consentire l’apertura di un varco tale da far penetrare dentro la rada uno sciame di Mas[24]. Rimase solo un piano. Così come solo uno studio di fattibilità resterà l’operazione che sarebbe dovuta partire qualora la carica esplosiva a calamita elettromagnetica della Mignatta fosse stata davvero in grado di affondare la Viribus Unitis. Era in fase di elaborazione l’ipotesi che la Locusta, il barchino saltatore come il Grillo, la Pulce e la Cavalletta, potesse tentare il forzamento della base di Fiume seguendo modalità non ancora sperimentate. Il mezzo, modificato, avrebbe dovuto trasportare, oltre le linee di sbarramento nemiche, saltate dal barchino, dei nuotatori. Che avrebbero raggiunto a pinnate e bracciate le navi avversarie alla fonda e le avrebbero fatte saltare con le cariche ad orologeria, da attaccare alle carene metalliche, anticipando gli uomini Gamma della X flottiglia Mas del 1940-1943[25].

Ma erano trascorsi due anni dal primo forzamento di Pola, avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1916, ad opera del tenente di vascello Ildebrando Goiran[26]. Quest’ultimo era riuscito a creare un taglio nelle reti di protezione, abbastanza ampio da far passare il suo Mas e lanciare due siluri, che però si andarono a schiantare contro altre protezioni, senza riuscire ad affondare alcuna nave nemica, quindi era dovuto fuggire alla svelta perché puntato dai proiettori austroungarici[27]. Nel corso dei 24 mesi, andare oltre gli sbarramenti del porto di Pola[28], era divenuta una ossessione da parte dei vertici della regia Marina militare. Alla fine, osservati a posteriori, scevri dall’ebbrezza del momento, l’affondamento della Viribus Unitis a Pola, come quello che sarà più consacrato, anche per una precisa scelta politica da parte della Marina militare, della Szent Istvan a Premuda[29], furono episodi di risalto più scenico che di importanza sostanziale. Che fecero scalpore, risollevarono il morale, ma che poco influirono sull’esito della guerra[30].

Tra le teorie balenate successivamente al risultato conseguito nell’operazione targata Paolucci e Rossetti si farà strada quella secondo la quale i due arditi incursori italiani avessero ricevuto ordine di far sprofondare la Viribus Unitis per impedire che il pezzo più rappresentativo dell’armata del secolare nemico passasse nella proprietà della Jugoslavia. Anche per fiaccare nello spirito questa nuova entità. Che avrebbe comunque potuto costituire un intralcio nella supremazia dell’Adriatico[31].

Con la cessione della flotta, oltre ai mezzi, era stata tolta all’Austria Ungheria anche la Marina e la possibilità di andar per mare[32]. Caso unico nella storia[33]. Dal conflitto l’Italia usciva con una vittoria strategica completa, proprio per aver eliminato l’ombra austriaca, non solo dal confine orientale, ma anche dall’Adriatico. Situazione destinata a non perdurare, sia per la traballante posizione dell’Albania, proprio per la comparsa della Jugoslavia, che per le tensioni con la Grecia, caratterizzate anche dalla posizione strategica dell’isola di Corfù[34].

Appena conclusa, la retorica del momento enfatizzava l’impresa di Pola fino all’esagerazione. Verranno vergate pagine ridondanti. Come: «Raffaele Rossetti, maggiore del Genio navale, decide l’ardua impresa e traccia il tragico dilemma di gloria o di morte […]. Intanto, il granitico massiccio degli Asburgo, sotto i colpi inesorabili inferti per terra e per mare negli ultimi mesi della guerra, si sgretola da ogni parte e gli avanzi vengono dispersi da una minacciosa procella che apporta squilli di vittoria e presagio di inevitabile disfatta […]. Oltre la misteriosa foschia dell’Adriatico, verso la quale durante i lunghi anni di guerra, fecero rotta tutte le nostre navi, le siluranti e i sommergibili perché l’agguerrito avversario tremasse della riscossa marinara, brilla oggi un enorme faro verso i secoli, conobbe tutto l’insuperabile ardimento della nostra stirpe»[35].

L’affondamento della Viribus Unitis è stato relegato in una sorta di oblio[36]. Non solo rispetto all’azione di Premuda[37], ma anche nei confronti di operazioni “analoghe”, perpetrate nella seconda guerra mondiale e che non sarebbero mai state praticabili se non ci fosse stato il primo atto, compiuto da Paolucci e Rossetti.

La fine della nave ammiraglia col motto dell’imperatore Francesco Giuseppe, decretata dall’ardimento di Rossetti con il tenente medico Raffaele Paolucci, ha reso popolarissimi i due. A partire dal conferimento della medaglia d’oro al valor militare[38], ma ha anche avuto ripercussioni durate fino alla conclusione delle vite terrene di entrambi. Favorevoli, molto, per Paolucci e meno, decisamente meno, per Rossetti[39]. Perché le loro vicende militari, con l’abbandono della Marina, politiche, con strade assolutamente diverse, monarchico, nazionalista e fascista Paolucci[40], repubblicano e antifascista Rossetti[41]. Hanno di fatto spaccato il Belpaese, fino alla tomba[42]. Paolucci, romano di nascita con origini ad Orsogna,[43] sepolto proprio ad Orsogna, in quel di Chieti, nel Parco delle rimembranze[44]. Con strascico di polemiche anche post mortem, per Paolucci, per non aver ricevuto gli onori militari, per essere stato, su sua precisa indicazione, sepolto nudo ed avvolto, nell’Italia repubblicana, nella bandiera tricolore con lo stemma dei Savoia[45]. E Rossetti, genovese con antenati in Sardegna, sepolto a Zoagli, in provincia di Genova, nel cimitero di Sant’Ambrogio, considerati, come prima qualifica, gli affondatori[46].

Lasciato il servizio attivo in Marina, per Paolucci «la metamorfosi è in atto, anzi è compiuta: il combattente non è andato in pensione, sta solo cambiando pelle trasformandosi in militante politico, anche se, in fin dei conti, la mutazione è la logica evoluzione del Paolucci belligerante al fronte. I motivi per masticare amaro, infatti, ci sono. I frutti della vittoria. A cominciare da quelli concreti, ma non ultimi quelli morali, non possono essere vanificati dall’oggettiva, montante onda di disfattismo, manovrata da settori interessati demagogicamente alla sovversione istituzionale e antipatriottica: l’assioma non offre margini interpretativi e Paolucci, per educazione e per esperienza, lo condivide in pieno»[47]. Il 15 novembre 1924 Paolucci era stato nominato vicepresidente della Camera dei deputati, carica che gli era stata attribuita «quasi in compenso della mancata inclusione nella lista del governo»[48]. Paolucci pagherà il suo schieramento a favore del fascismo con l’epurazione dall’incarico di professore universitario. Il 10 agosto 1945 l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo aveva inviato alla Procura del regno di Roma la denuncia formale contro l’eroe di Pola[49]. Alla quale era poi seguito il procedimento penale in quanto «imputato […] per aver promosso l’insurrezione del 28 ottobre 1922 organizzando nel 1919 la lotta anticomunista e contro i partiti estremisti a Napoli e nel Napoletano presiedendo il primo Congresso Nazionale dei fasci di combattimento tenutosi a Bologna nel 1921 e partecipando alla marcia su Roma al comando dei “Sempre pronti”, di avere altresì contribuito con atti rilevanti a mantenere vivo il regime fascista adoperandosi efficacemente per la fusione del movimento nazionalista col movimento fascista e di consigliere nazionale poi dalla 26ᵃ alla 36ᵃ legislatura , di vice presidente della Camera dei deputati prima e della Camera dei fasci e delle corporazioni poi, facendo infine parte della M.V.S.N. fino dalla sua costituzione col grado di Caporale d’Onore»[50].

E Rossetti, che era uno dei principali animatori di “Italia libera”[51], l’associazione che aveva fatto la sua prima uscita, a Roma, in piazza Venezia, il 24 giugno 1923, vicina al movimento repubblicano di Randolfo Pacciardi, come contrapposizione all’Associazione nazionalista ormai indirizzata verso il fascismo[52]. E l’avvicinamento all’Italia libera di Rossetti sarebbe stato influenzato da Luigi Rizzo, vicino di casa nella frazione di Pozzetto di Zoagli[53]. L’ingegnere Rossetti era stato anche uno dei testimoni a favore di Fernando De Rosa, a Bruxelles, nel processo iniziato il 23 settembre 1930, nella capitale belga, nel tentativo di salvarlo dalla condanna come tentato attentatore del principe Umberto di Savoia, dopo il colpo di pistola esploso a vuoto, il 24 ottobre 1929, davanti alla tomba del milite ignoto belga, mentre il rampollo della casa regnante italiana era a chiedere la mano della futura moglie Maria Josè[54]. E proprio in apertura della prima udienza, dove era teste, aveva dichiarato che, oltre ad essere stato bastonato in tre occasioni, prima di espatriare in Francia[55], «ho lasciato l’Italia […] perché non trovavo nessuno che avesse il coraggio di offrirmi un lavoro che mi permettesse di vivere»[56].

E durante il ventennio, a parte la revoca a Rossetti, imposta da Benito Mussolini, della medaglia d’oro al valor militare, meritata a Pola, come eloquente gesto di squalifica verso il comportamento da oppositore del regime, era stata attuata una vera e propria operazione di rimozione della figura dell’ingegnere genovese. Che solo alla morte verrà vagamente recuperata, ma senza particolari slanci emotivi, come invece accaduto per Paolucci che era stato fin troppo ampiamente celebrato in vita[57]. Era «giunto l’ordine di ignorarlo»[58]. Questo, col susseguirsi degli anni genererà malintesi e fraintendimenti: fino a spargere errati convincimenti che l’ideazione della Mignatta fosse addirittura opera del conte di Valmaggiore[59].

L’affondamento della Viribus Unitis è stato spesso esposto come un affronto eseguito fuori tempo massimo, avvenuto a conflitto concluso. «La guerra era finita. Il rappresentante politico di Zagabria vi si oppose e la “Viribus Unitis” fu attaccata. Una conclusione ancora più tragica di navi, così gelosamente preservate, perse quando ormai la guerra era sfumata. L’azione italiana ebbe poi riverberi negativi nelle relazioni con i nuovi stati sorti dal disfacimento della monarchia austro-ungarica, dando inizio a frizioni e tensioni la cui onda lunga si avverte ancora oggi. Indubbiamente l’azione dei due ufficiali è degna del massimo rispetto»[60].

La missione svolta da Paolucci e Rossetti fu sicuramente militarmente lecita, dato che soltanto l’armistizio potesse sospendere le operazioni. E in quel caso erano in corso le trattative. Ma l’accordo fu firmato solo il 3 novembre 1918: l’Esercito italiano continuava ad avanzare inseguendo le truppe austroungariche in ritirata e la Marina, quindi, poteva attaccare la flotta avversaria. In ogni caso, poi, pur con la carenza di sorveglianza dovuta al dissolvimento dei vincoli gerarchici sulle unità austroungariche, la missione degli incursori italiani è stata notevole. Ma più dannosa che inutile. Le conseguenze dell’effetto boomerang sono state tante. Quella sortita ai danni della corazzata ammiraglia dell’ex imperial e regia Marina si sarebbe potuta evitare. Salvo, non si analizzi quell’evento isolando il significato più puro. Ovvero infierire contro i nuovi potenziali avversari, i croati, appartenenti alla neonata formazione statuale sintetizzata sotto la sigla SHS. Quella frutto del dissolvimento irrinunciabile spiegabile in questa sintesi: «Il tentativo di imporre alla monarchia un regime assoluto è indice eloquente dell’incapacità del potere asburgico di confrontarsi col problema chiave dell’impero: quello nazionale»[61].

Dal punto di vista giuridico ogni dichiarazione di nascita dello Stato jugoslavo era priva di validità. Perché non era ancora riconosciuta a livello internazionale. Queste sono le considerazioni tese a legittimare l’affondamento della nave ammiraglia della flotta imperiale[62]. Di contro c’è da osservare che l’Italia si faceva forte del trattato di Londra firmato con gli alleati nell’aprile 1915, ma tali accordi prevedevano vantaggi territoriali in caso di sconfitta dell’Austria-Ungheria, ma qui l’impero era sparito e un alleato, gli Stati Uniti, non riconosceva questi accordi, per cui era necessaria prudenza e diplomazia per gestire una situazione del tutto nuova. Se anche l’armistizio, inoltre, non era ancora firmato, le trattative erano in corso e la situazione di disfacimento della flotta era nota alla regia Marina; l’azione quindi, sotto il punto di vista militare era inutile. Diverso è il discorso se si vada ricercando il valore politico alla missione: se lo scopo era quello di ribadire la vittoria italiana e il suo dominio sull’Adriatico forse sarebbe bastato l’ingresso in forza della flotta italiana, come fece l’ammiraglio Cagni, il 5 novembre successivo. Ma la Marina voleva una “vittoria” navale ad ogni costo.

 

 

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ICONOGRAFIA

 

Per le didascalie alle foto (me ne sono state chieste due, ne invio quattro, ma ovviamente le più significative sono l’affondamento della nave nel porto di Pola e la Mignatta, conservata nel museo tecnico navale di La Spezia, anche se inserire i ritratti in divisa di Paolucci e di Rossetti, spazio permettendo, non sarebbe male): le immagini allegate provengono dalla fototeca dell’ufficio storico dello Stato maggiore della Marina militare di Roma, con permesso di pubblicazione concesso all’autore il 17 luglio 2013.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Pablo Dell’Osa (Pescara, 1976), giornalista professionista, inviato della rivista D’Abruzzo. Ogni giorno nella rubrica #Today, sulla versione online de Il Centro, quotidiano dell’Abruzzo, ricorda un fatto dimenticato del Novecento italiano. Socio dell’Istituto abruzzese per la storia della resistenza e dell’Italia contemporanea. Autore dei saggi: Il principe esploratore. Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, Mursia, Milano 2010 (menzione speciale al premio Guido Polidoro, dell’Ordine dei giornalisti dell’Abruzzo, 2010); Il Tribunale speciale e la presidenza di Guido Cristini 1928-1932, Mursia, Milano 2017 (premio Franco Giustolisi – giustizia e verità, 2018). Il contributo qui pubblicato è l’adattamento, con riduzione dalle 58 pagine iniziali, della tesi “Considerazioni e valutazioni sull’affondamento della Viribus Unitis (Pola, 1 novembre 1918)” del master, prima edizione, in Storia militare contemporanea 1796-1960, promosso dall’Istituto nazionale del Nastro azzurro con l’università “Niccolò Cusano”, telematica, di Roma.

[2] Xavier Tracol, Viribus Unitis, in Los!, numero 15, giugno-agosto 2014, pagina 40.

[3] Creato il 29 ottobre 1918 e cessato l’1 dicembre 1918, con sede a Zagabria, non ottenne alcun riconoscimento diplomatico da parte delle altre nazioni. Da non confondere con il successivo Regno dei serbi, croati e sloveni, durato dall’1 dicembre 1918 al 3 ottobre 1929, con capitale Belgrado.

[4] Raffaele Rossetti, Contro la Viribus Unitis, Associazione culturale Sarasota, ristampa a cura del Museo tecnico navale di La Spezia, La Spezia 2015, pagina 19.

[5] Sergio Tazzer, Piccolo abecedario della Grande guerra, Kellermann, Vittorio Veneto 2015, pagine 98-99.

[6] Bernardo Benussi, Le “sette giornate” di Pola (dal 30 ottobre al 5 novembre 1918), Stabilimento tipografico Gaetano Coana, Parenzo 1920, pagina 66.

[7] Martino Ferrari Bravo, Le principali azioni aeronavali in alto Adriatico durante la grande guerra, in Dalla Serenissima all’aquila bicipite, Biblion, Milano 2012, pagina 46.

[8] Raffaele Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, Cappelli, Bologna 1952, pagine 201-202.

[9] Romain Rainero, Raffaele Rossetti dall’affondamento della “Viribus Unitis” all’impegno antifascista, Marzorati, Settimo Milanese 1989, pagina 44.

[10] Junio Valerio Borghese, Decima flottiglia Mas, Garzanti, Milano 1950, pagine 20-21.

[11] Quella realizzata da sei uomini della X flottiglia Mas, il 19 dicembre 1941, ossia: Luigi Durand de la Penne ed Emilio Bianchi, Antonio Marceglia e Spartaco Schergat, Vincenzo Martellotta e Mario Marino, squarciando soprattutto le navi inglesi Queen Elizabeth e Valiant. Si veda Luigi Romersa, All’ultimo quarto di Luna, Mursia, Milano 2011, pagina 114.

[12] Egidio Ivetic, Storia dell’Adriatico, Il Mulino, Bologna 2019, pagina 271.

[13] Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, Laterza, Bari-Roma 1969, pagina 547.

[14] Office of the chief of staff of the Royal italian navy-Historical section, The italian navy in the world war 1915-1918, Provveditorato centrale dello Stato, Roma 1927, pagina 25.

[15] Piero Pieri, L’Italia nella prima guerra mondiale (1915-1918), Einaudi, Torino 1965, pagina 197.

[16] Alberto Di Gilio, Gli ultimi giorni, Gino Rossato editore, Valdagno 2018, pagina 29.

[17] Antonino Toscano, Storia navale della grande guerra, Tipografia della regia Accademia aeronautica di Caserta, Caserta 1928, pagine 148-149. Già nel 1917 si era verificata la rivolta della flotta austroungarica, sempre causata dalla penuria di derrate alimentari, diserzioni che avevano toccato il picco proprio a Pola. Poi c’era stato il caso, emblematico, della torpediniera asburgica T.11, il cui equipaggio aveva disertato consegnandosi alle autorità italiane a porto Recanati. Quindi erano seguiti moti a gennaio del 1918, sempre a Pola, dopo la sommossa di Pola dell’1 febbraio dello stesso anno si erano verificati disordini anche a Cattaro, dove c’era stato il tentativo, rimasto tra i più ricordati, di uscire dal porto con le unità e consegnarsi all’Italia per protestare contro la cronica mancanza di vitto e la scarsità di permessi per poter tornare a casa. Dopo il siluramento della Santo Stefano il processo di demoralizzazione degli equipaggi della Marina austroungarica era aumentato, con in testa la rappresentanza del Consiglio nazionale jugoslavo.

[18] Henry Baerlein, The birth of Yugoslavia, volume 1, Bibliobazar. Charleston 2007, pagina 267.

[19] Karl Gogg, Österreichs Kriegsmarine 1848-1918, Verlag, Salisburgo 1968, pagina 23.

[20] Maffio Mafii, La riscossa navale, Alfieri e Lacroix, Milano 1918, pagina 158.

[21] Edmondo Turci, Gli arditi del mare, Ardita, Roma 1933, pagina 203. Ma si veda anche: Alfredo Viglieri, In mare, in terra, in cielo, Mursia, Milano 1977, pagina 74.

[22] Giacomo Scotti, Miti e storie dell’Adriatico, Mursia, Milano 2019, pagina 351.

[23] Ettore Bravetta, La grande guerra sul mare, volume I, Mondadori, Milano 1925, pagine 245-247.

[24] Ufficio storico della Marina militare, La Marina nel suo primo secolo di vita 1861-1961, Roma 1961, pagina 183.

[25] Vincenzo Grienti e Leonardo Merlini, Navi al fronte, Mattioli 1885, Fidenza 2015, pagina 102.

[26] Saverio Cilibrizzi, Storia parlamentare politica e diplomatica d’Italia da Novara a Vittorio Veneto, volume VII 1917-1918, Tosi, Roma, pagina 400.

[27] Claudio Fontanive, Capitò nei secoli in Istria in novembre, 1916, in Arena di Pola, 11 novembre 1989, pagina 6.

[28] Per quanto riguarda le fortificazioni e l’assetto del porto in tempo di guerra fare riferimento a: Olinto Mileta, Le genti di Pola. Indagine demografica sulla storia di una città, in Centro ricerche storiche Rovigno, Quaderni, volume XXII, Rovigno 2011, pagine 109-111.

[29] Un comunicato austriaco ammette la perdita di una corazzata silurata dai nostri nell’Adriatico, in Gazzetta del Popolo, 14 giugno 1918.

[30] Stefano Malatesta, La vanità della cavalleria, Neri Pozza, Vicenza 2017, pagina 260.

[31] Mario Francini, Battaglie sul mare, Vallecchi, Firenze 1963, pagina 143.

[32] Wilhelm Donko, A brief history of the Austrian navy, Verlag, Berlino 2012, pagina 84.

[33] Leone Veronese junior, Imbarcà su la Viribus Unitis, Luglio, Trieste 2003, pagina 20.

[34] Giuliano Da Frè, Almanacco navale della Seconda guerra mondiale (1939-1945), Odoya, Città di Castello 2019, pagina 266.

[35] Fulvio Vicoli, Oltre la foschia dell’Adriatico, Bemporad, Firenze 1927, pagine 184 e 189.

[36] Luigi Barbara, Quarant’anni fa nel porto di Pola. La “Viribus Unitis” salterà in aria, in La Domenica del Corriere, numero 38, 21 settembre 1958, pagina 22.

[37] Una divisione navale austriaca attaccata da due siluranti italiane, in Gazzetta del Popolo, 12 giugno 1918. Ma si veda anche: Gli uomini di Premuda, in Il Secolo illustrato, numero 15, 1 agosto 1918, pagine 530-531.

[38] Adolfo Balliano e Giuseppe Soavi, L’Italia sul mare nella grande guerra, Giovanni Chiantore, Torino 1934, 230-231.

[39] Giorgio Pillon, Al servizio della Patria e della scienza, in Candido, numero 19, 11 maggio 1958, pagine 42-45.

[40] Giovanni Macchi, Raffaele Paolucci incursore e chirurgo, in Rivista marittima, numero 10, ottobre 1991, pagina 107. Sulla scomparsa di Paolucci si veda Giovanni Artieri, Paolucci e la sua avventura impossibile, in Il Tempo, 6 settembre 1958. Ed anche: Ruggero Guarino, L’Abruzzo ha tributato solenni onoranze al suo grande figlio Raffaele Paolucci, in Il Tempo, 7 settembre 1958.

[41] Lorenzo Verdolini, La trama segreta, Einaudi, Torino 2003, pagina 58. Ma si veda anche: Santi Fedeli, I repubblicani in esilio nella lotta contro il fascismo (1926-1940), Le Monnier, Firenze 1989, pagina 167.

[42] Per quanto concerne la morte di Paolucci, avvenuta a Roma, a 66 anni, il 4 settembre 1958, si veda: Arturo Lusini, Torpedini e bisturi nella vita di Paolucci, in Oggi, numero 38, 18 settembre 1958, pagine 41-42. Sul decesso di Rossetti, invece, occorso a Milano, a 70 anni, il 24 dicembre 1951, fare riferimento a: Morto l’affondatore della “Viribus Unitis”, in La Domenica del Corriere, numero 54, 6 gennaio 1952, pagina 5. E soprattutto: Luigi Cavicchioli, Annunciò alle sue vittime “salteremo in aria fra tre minuti”, in Oggi, numero 2, 10 gennaio 1952, pagine 25-26.

[43] Alfredo Fiorani, L’immortalità delle vittime. Gli abruzzesi alla grande guerra, Di Felice, Martinsicuro 2015, pagina 32. Ma si veda anche: Orsogna ricorda l’eroe Paolucci, in Il Centro, 4 novembre 2018.

[44] Vittorio Pace (per “Il teatro di Plinio”), Orsogna nella memoria, Art nouveau, Orsogna 2006, pagine senza numerazione.

[45] Giorgio Pillon, La bandiera di Paolucci, in Candido, numero 38, 21 settembre 1958, pagina 28. Ed anche: Matteo Del Nobile, Paolucci, il medico soldato che affondò la corazzata, in Il Centro, 7 marzo 2016, edizione di Chieti.

[46] Giorgio Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico, Mondadori, Milano 2003, pagine 95 e 146. Ma anche, dello stesso autore, Attacco dal mare, Mondadori, Milano 2007, pagine 74-75.

[47] Nicola Ricciardelli, Raffaele Paolucci, il destino di un giusto, Iuppiter, Napoli 2014, pagina 94.

[48] Franco Di Tizio, Raffaele Paolucci, Solfanelli, Chieti 1992, pagina 134.

[49] Archivio di Stato di Roma, Corte d’assise speciale, Sezione istruttoria, Professor Paolucci Raffaele, busta 1712.

[50] Maurilio Di Giangregorio (a cura di), L’epurazione del Professore Raffaele Paolucci, stampato in proprio, L’Aquila 2018, pagina 9.

[51] Simonetta Tombaccini, Storia dei fuorusciti italiani in Francia, Mursia, Milano 1988, pagina 22.

[52] Luciano Zani, Italia libera, Laterza, Roma-Bari 1975, pagina 3.

[53] Fabio Andriola, Luigi Rizzo, Ufficio storico della Marina militare, Roma 2000, pagine 220-221.

[54] Mario Giovana, Fernando De Rosa, Guanda, Parma 1974, pagina 138.

[55] Renzo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1996, pagina 313.

[56] Anne Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio (1922-1940), Bonacci, Roma 1987, pagina 59. Sfogo di Rossetti, che a Parigi si manteneva svolgendo il lavoro di tipografo e di linotipista, riportato anche nel volume Il processo De Rosa, Velais, Parigi 1930, pagina 99.

[57] Giancarlo Fusco, Sette ore di coraggio, in L’Europeo, numero 2, 9 gennaio 1952, pagina 16. Ed anche: Enrico Roda: 40 domande a Raffaele Paolucci, in Tempo, numero 5, 31 gennaio 1957, pagina 6.

[58] Silvio Bertoldi (a cura di), A cavallo di una torpedine, in Navi e marinai, Rizzoli, Milano, volume III, pagina 770.

[59] Marco Zaganella (a cura di), L’Aquila e l’Abruzzo nella storia d’Italia, Edizioni nuova cultura, Roma 2013, pagina 99.

[60] Massimo Coltrinari e Giancarlo Ramaccia, Dizionario minimo della grande guerra. 1918. L’anno della gloria, I libri del Nastro azzurro, Edizioni nuova cultura, Roma 2018, pagina 257.

[61] Jozě Pirievec, Serbi, croati, sloveni, Il Mulino, Bologna 1995, pagina 139.

[62] Achille Rastelli, L’affondamento della Sms Viribus Unitis: un fatto militare o politico, in Centro di ricerche storiche di Rovigno, Quaderni, volume XVIII, Rovigno 2007, pagine 373-374.