VERONA 8-9 SETTEMBRE 1943. NOI C’ERAVAMO

  

Nel corso dell’anno 2010 nel nostro periodico sono stati pubblicati delle significative testimonianze che si ritiene opportuno riproporre .

In seguito ai noti eventi connessi alla caduta del regime fascista determinata dal voto del Gran Consiglio del Fascismo espresso nella seduta del 25 luglio 1943, le Forze Armate ebbero, fra gli altri, il compito di garantire l’ordine pubblico in tutto il Paese: in particolare, col pattugliamento nelle strade durante il coprifuoco e con la presenza armata a protezione di importanti Uffici pubblici.

A quell’epoca ero in forza ad un reparto del 32° Reggimento Carristi distaccato nel territorio del comune di Montorio Veronese distante circa 20 Km da Verona, con il grado di Sergente in attesa della “nomina diretta” a Sottotenente di complemento. ln considerazione della mia esperienza militare acquisita “sul campo” in Africa Settentrionale con la Divisione Ariete, il cui annientamento finale si consumò ad El Alamein, ero addetto all’addestramento delle reclute da destinare alla ricostituenda Divisione Ariete.

L’8 settembre 1943 mi fu dato l’ordine di presidiare la Questura di Verona con sei carristi dotati di armamento regolamentare ed una mitragliatrice Breda. Raggiungemmo la Questura nel primo pomeriggio a bordo di un autocarro che, al termine del servizio della durata di 24 ore, sarebbe dovuto tornare per rilevarci e ricondurci in sede. Le prime ore trascorsero tranquille come tranquilli furono del resto, per l’ordine pubblico nelle varie città, quei 45 giorni successivi al 25 luglio.

Alle ore 20.00 la radio trasmise il comunicato del Maresciallo Badoglio che dava notizia dell’avvenuto armistizio con le soverchianti Forze Angloamericane e concludeva con la sibillina esortazione a reagire ad attacchi “di qualunque provenienza”. A quell’annuncio ci furono, come in tutte le località italiane, improvvisate e spontanee esplosioni di gioia: non tutti, ma molti credettero che la guerra fosse finita.

L’euforia fu però di breve durata. Auto con altoparlanti ordinavano ai militari in libera uscita di rientrare immediatamente nelle rispettive caserme. Poi, silenzio. Il nostro servizio alla Questura continuò a svolgersi nel modo usuale: due carristi alla mitragliatrice, piazzata all’ingresso, con avvicendamento ogni due ore. Durante l’intervallo, tra un turno e l’altro si sonnecchiava sulle panche. lo trascorsi le prime ore della notte conversando con il Commissario di servizio che, felice per l’annunciato armistizio, mi offri da bere inneggiando a Badoglio, definendolo “un cattolico che ha voluto la pace”. Ma il suo entusiasmo si spense quando, dopo la mezzanotte, gli venne chiesto, telefonicamente da una non bene precisata autorità, di inviare delle ronde in giro per la città a vedere un po’ cosa stesse accadendo. “Manifestazioni sovversive? Minacce all’ordine pubblico?” “Macché ordine pubblico!” gli fu risposto, “Si tratta dei tedeschi”.

Il Commissario cominciò allora ad inveire verso chi impartiva tali ordini esclamando significativamente: “Ma che posso fare io senza mezzi a disposizione?”.

Comunque, due agenti uscirono con la bicicletta in perlustrazione per le vie della città. Dopo quasi un’ora tornarono e imprecando, a loro dire, per uno scampato pericolo: riferirono che i tedeschi avevano occupato la stazione ferroviaria di Porta Nuova ed il palazzo delle Poste che ospitava il telegrafo, mentre pattuglie armate circolavano per le strade deserte. Noi militari restammo svegli ed allertati per tutta la notte. Il Commissario, ad alta voce, si poneva tutti i possibili interrogativi. Quella notte in Questura, con ben altre preoccupazioni, non ci fu il consueto movimento degli abituali “ospiti” dei posti di polizia.

Ricordo un solo episodio: si presentò un uomo di mezza età, claudicante con la moglie, una povera donna dall’espressione triste, e tre figli di cui uno in tenera età, chiedendo ospitalità. Senza fissa dimora, non sapevano dove trascorrere quella notte così diversa da tutte le altre e così densa di incognite. Un agente disse che l’uomo era una vecchia conoscenza della Polizia: non aveva lavoro, viveva di elemosine e, durante le frequenti sbornie di vino, picchiava moglie e figli, e così dicendo stava assumendo un atteggiamento duro; senonché un Maresciallo, forse reso più sensibile dall’esperienza, propose al Commissario di accontentare quella povera famiglia facendole trascorrere la notte in camera di sicurezza. Il Commissario acconsentì e l’uomo fu lieto di quella soluzione.

Le ore trascorrevano lente. Intanto giungevano notizie di movimenti di truppe tedesche, motorizzate e corazzate quelle stesse che subito dopo il 25 luglio erano scese a Verona e vi si erano installate. Doveva essere una breve sosta, prima di proseguire per la Sicilia invasa dagli Alleati. La sosta durò ben 40 giorni, cosicché l’8 settembre non colse i tedeschi di sorpresa.

Il mattino del 9 settembre, il Vice Questore, giunto in ufficio, mi chiamò e mi fece osservare che la presenza di militari in Questura poteva provocare la reazione dei tedeschi. Gli feci presente che ero in attesa dell’auto, sollecitata per telefono, la quale avrebbe dovuto condurci nella nostra caserma. Quell’auto, seppi poi, partì effettivamente da Montorio Veronese, ma prese una direzione diversa.

Il Vice Questore, sempre più preoccupato, per la nostra presenza, mi propose di raggiungere la caserma dell’8′ Reggimento Artiglieria che si trovava a poca distanza dalla Questura: era zona militare ed aggiunse che lì tutto era tranquillo. Ci avviammo con la mitragliatrice Breda verso quella caserma.

Lungo la strada ci vennero incontro donne e uomini che, preoccupati per la nostra sorte, ci scongiuravano di metterci in salvo, perché i tedeschi si stavano muovendo minacciosamente. I soldati italiani, che potevano farlo, stavano fuggendo abbandonando armi e divise. Noi eravamo all’oscuro del quadro che ci veniva descritto. Le uniche notizie in nostro possesso erano quelle apprese in Questura dove, peraltro, non si era parlato di sbandamento di militari. Venivamo ora esortati a scappare, seguendo l’esempio di tutti gli altri. Quelle esortazioni ci apparvero inconcepibili. Indossavamo una divisa. Ma soprattutto avevamo le stellette che per i soldati hanno sempre rappresentato l’essenza, al di là di ogni militarismo, di quel senso dell’onore puro ed onnipresente sui campi di battaglia, nelle fortune e, maggiormente, nelle sfortune. Possibile che quei valori, nel giro di poche ore. si stavano dissolvendo? Fra tanta confusione ci trovammo d’accordo su un punto: scappare per paura? Mai! Quindi ci affrettammo decisamente verso la caserma dell’8″ Artiglieria dove il Comandante, Colonnello Eugenio Spiazzi, ci accolse affettuosamente: “Benvenuti ragazzi e benvenuta anche la mitragliatrice. Qui, siamo decisi a resistere ad oltranza, se saremo attaccati “.

Il senso dell’onore si concretizzava finalmente nella realtà di un Comandante Militare che di fronte al fuggifuggi generale, noncurante del comportamento di altri, e senza atteggiamenti autoritari, teneva compatto e pronto a morire, in nome della Patria, un reparto composto da elementi di varie estrazioni sociali e culture diverse.

Prendemmo posizione con la mitragliatrice, per ordine del Colonnello, sul tetto del locale che ospitava il Corpo di Guardia, alto circa tre metri, per tenere sotto controllo il vicolo di accesso alla caserma. Eravamo soddisfatti, convinti di avere fatto la scelta giusta. Un solo cruccio: data l’eccezionalità della situazione, non c’erano state le consuete formalità di “presi in forza” e simili, per cui eravamo degli sconosciuti, con tutte le possibili conseguenze negative. All’ingresso della caserma c’era un viavai di ragazzi che davano informazioni sui movimenti dei tedeschi e spesso consegnavano i fucili abbandonati dai soldati italiani in fuga. Intorno alle ore 17.00 dalla mia postazione vidi avvicinarsi un’auto tedesca con bandiera bianca dalla quale scesero due ufficiali che rivolsero al Colonnello Comandante un ultimatum: tutta la città era nelle loro mani ed ogni resistenza si rivelava perciò inutile. ln segno di riconoscimento del coraggio degli artiglieri donarono una cassa di bottiglie di birra.

L’ultimatum fu respinto e gli attacchi ripresero, sempre in direzione della porta carraia. Al tramonto il Col. Spiazzi, vista la preponderanza delle forze avversarie e quindi l’impossibilità di ogni ulteriore resistenza, decise la cessazione delle ostilità. I tedeschi concessero la resa con l’onore delle armi e non entrarono nella caserma.

La lunga giornata veronese del 9 settembre 1943 era finita. Scese la notte e gli artiglieri si ritirarono nelle loro camerate. Noi carristi, volontari ed ospiti, preferimmo restare all’aperto. La notte era chiara e la temperatura mite. Ci sdraiammo sul prato della caserma e ci addormentammo sotto le stelle. Del tutto ignari che in quel giorno, senza rendercene conto avevamo guadagnato un pezzo della Medaglia d’Oro concessa anni dopo al Comune di Verona per la resistenza dell’8° Reggimento Artiglieria.

Aldo Menichelli

(” Presenza ” Lug-Set 2003)