Flavio La Franca.La Regia Marina tra cobelligeranza e Guerra di Liberazione

  

 

Il pomeriggio del 7 settembre 1943, quattro giorni dopo la firma dell’Armistizio di Cassibile, si tenne a Roma, presso lo Stato Maggiore della Regia Marina, una importante riunione. Durante l’incontro l’Ammiraglio Raffaele De Courten, Capo di Stato Maggiore della Regia Marina e Ministro della Marina, diede ordine ai presenti ufficiali di prepararsi a trasferire le navi situate nei porti italiani settentrionali verso quelli del centro, per evitare eventuali azioni di forza tedesche. Ciò fu fatto, tuttavia, senza dar notizia dell’eventualità di un armistizio. Il De Courten, in seguito dichiaratosi ufficialmente tenuto all’oscuro del sopracitato accordo fino al giorno 6, tentò in questo modo di evitare eventuali fughe di notizie che potessero allertare le forze germaniche. Ogni cautela fu vanificata, come è noto, il giorno seguente, in seguito all’annuncio via radio del generale Dwight Eisenhower. Diverse sono le fonti che illustrano quanto in realtà l’armistizio con le Nazioni Unite fosse una eventualità data ormai come certa da diversi giorni. Questi dati dimostrerebbero dunque che le alte sfere della Marina si mossero durante le ore precedenti alla dichiarazione seguendo una determinata strategia. Quali che fossero i piani, tuttavia, vennero certamente stravolti dal precipitare degli eventi. In breve, le alte sfere politico-militari furono costrette a cercare nella piena collaborazione con gli Alleati, facendo leva sulla loro necessità di supporto militare, la via di fuga dalle responsabilità del passato.

Le vicende della marina confermano la difficoltà degli alti comandi di affrontare con lucidità il rovesciamento di fronte. […] Soltanto alcune ore dopo l’entrata in vigore dell’armistizio De Courten si decise a dare ordine alle navi di prendere il mare, dando però come obiettivo alle corazzate di La Spezia (le più importanti) l’isola di La Maddalena, in contrasto con le richieste degli alleati. Un’applicazione delle clausole dell’armistizio […] per lo meno tardiva ed elusiva.[1]

La marina nei giorni del caos

L’obiettivo di trasferire le unità navali della Regia Marina verso le basi britanniche, nei giorni del caos postarmistiziale, riuscì in un buon successo a vantaggio del futuro peso e dell’immagine della forza armata. Nel complesso, entro il 20 settembre, nei porti britannici giunsero 79 navi militari italiane, nonostante numerose difficoltà e diverse perdite. Tra queste, la più grave e nota fu quella della modernissima nave da battaglia Roma, parte della Squadra Navale salpata da La Spezia, dopo aver atteso le prime ore del 9 settembre, e affondata assieme all’Ammiraglio Carlo Bergamini e ad altri 1.252 uomini dell’equipaggio a seguito di un attacco aereo tedesco.[2] Un secondo importante gruppo di unità da battaglia, sotto il comando dell’Ammiraglio Da Zara, salpava da Taranto la sera del 9 settembre. Le memorie del Capitano di Fregata Giovanni Bianchi, comandante in 2a della nave da battaglia Andrea Doria, ci danno modo di comprendere quanto fosse intenso il senso di smarrimento vissuto dai marinai italiani.

Eccoci fuori da Taranto in ordinatissima formazione. […] Nessun velivolo di scorta, ma alla mancanza di ricognizione e protezione aerea italiana la nostra Marina è già da un pezzo abituata. […] A terra fumo d’incendi: forse si combatte già contro i tedeschi. Aerei tedeschi ci seguono, lontani. Ed ecco all’orizzonte, parallele, ma con direzione opposta alla nostra, sorgere, regolarmente intervallate, le sagome scure delle navi britanniche […]. Afferro il microfono della rete generale. “Vietato qualsiasi movimento di apparecchi di punteria, telemetri, armi. Rimane in funzione solo la difesa controaerea”. E faccio togliere corrente al grosso calibro, per ulteriore precauzione. […] Per la prima volta, dopo più di tre anni, senza scambiarsi la morte. Sul mare liscio come uno specchio, passa un invisibile fremito.[3]

In vista di Malta la tensione e lo smarrimento a bordo diventano tanto forti da far rischiare un ammutinamento, alimentato dalle false notizie e dal nervosismo. Il tentativo viene, per fortuna del nostro testimone, sedato dagli ufficiali.

Per la prima volta mi sembra però di sentire nella nave che qualcosa non va. […] Passerà! Penso. La cosa è invece più grave. Mentre sono a poppa al termine di uno dei soliti giri si avvicina un sottufficiale. “Comandante, c’è della gente che non vuole più andare a Malta. Pare siano spalleggiati anche da alcuni ufficiali. […] occorre intervenire subito perché non so cosa vogliono fare… si tratta nella gran maggioranza dei nuovi imbarcati”. “Corra subito nel mio alloggio, nel mio armadio c’è un mitra … lo prenda e si metta davanti al deposito delle armi portatili”. Metto un colpo in canna alla pistola che ho con me e informo il Comandante col telefono diretto chiedendogli “sparo o li prendo con le buone?”. La risposta è evasiva “non posso muovermi dalla plancia…fai tu”.[4]

Per quanto concerne i corpi della Marina stanziati a terra, la reazione all’aggressione tedesca assunse forme profondamente influenzate dai Comandi dell’Esercito, superiori nel rapporto gerarchico nel contesto dei settori di difesa costiera. I Comandi dei settori esterni al territorio italiano ebbero come principale preoccupazione quella di trasportare il maggior numero possibile di truppe in patria, progetto ostacolato duramente dalle modalità caotiche di proclamazione dell’armistizio. Nonostante la quasi totale mancanza di appoggio alleato, furono tratti in salvo, lungo le tre direttrici principali del settore adriatico (Spalato-Curzola-Bari, Lagosta-Pelagosa-Bari, Corfù-Santi Quaranta-Brindisi) circa 25.000 uomini, pagando lo sforzo con la perdita di tre torpediniere e due piroscafi. Una menzione a parte merita il settore Egeo, in cui la resistenza fu più accanita, favorita dal territorio irregolare e dalla vicinanza allo scacchiere Mediorientale in mano britannica. Nell’isola di Lero, in particolare, fu possibile osservare l’effettiva cobelligeranza tra forze italiane (in gran parte marinai) e inglesi, le quali, nonostante le numerose divergenze tra i comandi, furono in grado di resistere per 52 giorni ai continui bombardamenti e assalti germanici.

Gli avvenimenti sopracitati furono i primi tasselli sui quali si andrà costituendo l’ampio fenomeno della cobelligeranza, e come tali andrebbero letti; interpretati in continuità, come banchi di prova di un disegno politico volto a migliorare il più possibile l’immagine del nuovo stato italiano, debole e alla mercé dei ben più potenti paesi delle Nazioni Unite. Progetto per il quale la Marina si presentava come un fattore di fondamentale importanza.

La guerra sui mari. Il ruolo del naviglio da Malta in poi.

Fu con l’accordo Cunningham-De Courten, siglato il 23 settembre a Taranto tra De Courten e il comandante in capo della Mediterranean Fleet, ammiraglio Sir Andrew Cunningham, che si sancì ufficialmente l’impegno della flotta italiana nella Guerra di Liberazione, a fianco delle Nazioni Unite. L’11 ottobre l’Italia consegnava una dichiarazione di guerra alla Germania e il 13 ottobre, dalle ore 15.00, entrava ufficialmente nel conflitto come paese cobelligerante. Già da diversi giorni i leader delle forze alleate attendevano la dichiarazione ufficiale, come confermato dalla corrispondenza tra Winston Churchill e Iosif Stalin, nelle cui lettere la consegna della flotta italiana viene ribadita come un fattore di estrema importanza. Se per Churchill appare essenziale agire per “rafforzare l’autorità del Re e di Badoglio che hanno firmato l’armistizio con noi e che da allora l’hanno osservato lealmente e come meglio potevano, ed hanno consegnato il grosso della loro flotta“, Stalin si dice d’accordo e, diversi giorni dopo, pronto ad accettare la collaborazione italiana a seguito di una dichiarazione di guerra ufficiale da parte del governo Badoglio.[5]

Il primo articolo del sopracitato accordo Cunningham-De Courten era stato fondamentale per accendere le speranze nei vertici politico-militari di evitare penose sanzioni grazie all’impegno della flotta. Il paragrafo e recitava difatti: “Deve essere chiaramente compreso che il limite a cui i termini dell’armistizio vengono modificati, per permettere gli arrangiamenti sopradetti e seguenti, dipende dall’estensione ed efficacia della cooperazione italiana”.[6] Nel terzo articolo del testo dell’accordo venivano specificate le clausole relative all’impiego dei diversi mezzi navali. Per quanto riguardava navi da battaglia e incrociatori, la disposizione era di momentaneo inutilizzo, ad eccezione di un eventuale piccolo gruppo di questi ultimi; i cacciatorpediniere e torpediniere, assieme al naviglio leggero, venivano mantenuti in servizio per compiti di scorta; i sommergibili, pur essendo poi, come vedremo, utilizzati in diverse operazioni, secondo l’accordo erano da tenere immobilizzati in attesa di una effettiva necessità.[7] A differenza delle suddette previsioni, gli incrociatori vennero presto impiegati in diverse operazioni; un primo nucleo fu inviato a Freetown per cacciare i corsari tedeschi nell’oceano Atlantico, effettuando 12 crociere per un totale di circa 40 mila miglia; un secondo gruppo fu impiegato per il trasporto di truppe, nazionali ed alleate, tra l’Africa Settentrionale e l’Italia. L’Eugenio di Savoia, infine, fu utilizzato in operazioni di addestramento a Suez. A Taranto si trovava, invece, la base principale di cacciatorpediniere, torpediniere e corvette, utilizzati soprattutto per la lotta antisom e per scortare i convogli anglo-americani e nazionali all’interno del settore Mediterraneo. In totale i convogli scortati furono 1525 (Il 15% dei quali nazionali) con l’impiego di 2997 unità, mentre 2931 furono le missioni per l’attività antisommergibile.[8]

Un importante esempio di coinvolgimento delle unità navali da guerra italiane nella strategia della guerra di liberazione è dato dall’impiego in appoggio delle Missioni speciali, infiltrazioni oltre le linee nemiche portate da piccoli gruppi di militari e civili militarizzati. Questi gruppi portavano avanti operazioni informative, addestrative, di collegamento con formazioni partigiane o di sabotaggio, trasportati grazie all’impiego di Mas, Ms e Sommergibili. Complessivamente, tra unità da guerra e ausiliarie, verranno impiegate durante queste missioni 529 unità, attive maggiormente nel settore Adriatico.[9]

Per quanto concerne l’attività nelle retrovie, intenso fu l’apporto nei campi tecnico e logistico. Alla metà di agosto 1944 risultano 4.511 marinai impiegati nei porti di Bari, Brindisi, Cagliari, Napoli, Taranto, oltre ad altri minori.[10] Nel calcolo non sono compresi i numerosi militari della marina coinvolti nelle località portuali in funzione di difesa antiaerea.[11] Anche le attività addestrative a favore delle unità navali e aeree alleate coinvolsero numeroso personale, oltre ai mezzi, arrivando per i soli sommergibili allo svolgimento di 1.723 esercitazioni congiunte.

Una partecipazione effettiva dunque, ma decisamente subordinata, tanto da spingere l’ammiraglio De Courten a cercare di ottenere un ruolo di maggior risalto. Risultava difficile accettare la progressiva riduzione del ruolo delle forze di Marina, “Impiegata negli ultimi dodici mesi soltanto in “compiti sussidiari”“.[12] Occorre infatti notare che, sebbene le risposte dei comandi Alleati illustrassero quanto il livello di scontro in Mediterraneo andasse sempre più riducendosi con il procedere del fronte, le navi alleate continuavano a combattere nel Mar Ligure, nell’Adriatico e nell’Egeo, “mentre ciò non era concesso alle unità italiane“.[13]

La guerra classica. Le azioni del Reggimento San Marco

Il progetto di costituzione di una rinnovata unità di fanteria di marina risaliva ai giorni appena successivi all’armistizio. L’idea di una formazione impegnata sul fronte terrestre richiedeva una struttura in grado di effettuare operazioni di sbarco in appoggio dell’Esercito e capace di operare rapidi colpi di mano. La creazione di questa unità richiese diversi mesi di pianificazione e addestramento, avvenuto nei pressi di Lecce durante l’inverno 1943-1944. Il 1° novembre 1943 il reparto fu posto al comando del Capitano di Vascello Augusto Tesi e il 1° gennaio 1944 ottenne il nome di Reggimento San Marco. La formazione era costituita inizialmente su un solo battaglione, il Bafile, con una forza totale di 1100 uomini, cui poi fu aggiunto un secondo, il Grado. I battaglioni si articolavano su cinque compagnie, due delle quali al comando di ufficiali dell’Esercito. Dopo un iniziale dispiegamento nelle retrovie del fronte di Cassino, nella seconda metà di maggio il Bafile fu trasferito sul settore adriatico, alle dipendenze del Corpo Italiano di Liberazione (Cil). Assieme al Grado, giunto il 15 luglio, iniziò così la risalita della penisola lungo la dorsale collinare adriatica liberando, anche con duri combattimenti, “Iesi, Ostra Vetere, Belvedere Ostrense, Corinaldo, Cagli, Acqualagna, Urbino”.[14] Tra il 15 luglio 1944 ed il 1° settembre 1944, il San Marco svolse operazioni di protezione del fianco sinistro del Corpo d’Armata Polacco, per poi essere ritirato dal fronte dopo quattro mesi di attività.

Il San Marco tornò ad operare nel marzo 1945 sul fronte della Romagna. Inquadrato nel nuovo Gruppo di combattimento Folgore e, con l’aggiunta del terzo battaglione, il Caorle, il reggimento giunse alla consistenza di 3400 militari. Il mese di marzo vide i tre battaglioni impiegati a contribuire al crollo del fronte tedesco in nord Italia. Durante questo periodo i battaglioni difesero le proprie posizioni affrontando sette offensive germaniche, subendo oltre 2400 colpi di artiglieria da mortaio. Durante gli ultimi giorni di attività sul fronte i militari si distinsero nell’operazione che portò alla presa del Monte dei Mercati. Per le azioni condotte durante le giornate del 13, 14 e 15 aprile 1945, il San Marco ricevette encomi da parte del comando del XIII Corpo d’Armata britannico («Sono orgoglioso di sentire che i vostri dipendenti del reggimento “San Marco”, sono riusciti in quel giorno […] a raggiungere il loro obiettivo di Monte del Re ed invio a Lei e ai suoi dipendenti le mie congratulazioni per il successo ottenuto»)[15] e del X Corpo britannico («320/Ris. – Il comandante del corpo si congratula con il battaglione “Bafile” per il suo brillante e vittorioso assalto alla baionetta nella zona di Monte del Re, il 15 aprile»).[16] Alla fine di aprile il reggimento fu dislocato nei pressi di Faenza, dove rimase fino alla cessazione delle ostilità. Durante il periodo operativo il San Marco aveva perso, tra feriti e morti, 479 marinai.[17]

Oltre alle azioni di guerra classica, diversi marinai del Reggimento furono destinati allo svolgimento di operazioni speciali, di sabotaggio e di sorpresa. Questo reparto di specialisti del San Marco, costituito da 50 Nuotatori Paracadutisti Guastatori (provenienti anche dalle altre Forze Armate), operò a partire dal giugno 1944 lungo la costa adriatica, inquadrato nell’8a Armata britannica. Furono membri di questo reparto Np i primi a sbarcare a Venezia il 30 aprile 1945.[18]

Dal settembre 1943 i 57 volontari del gruppo Np hanno avuto numerosi riconoscimenti dai comandi alleati ed italiani: le 2 promozioni per alti meriti, le 25 medaglie d’argento, le 43 medaglie di bronzo  e le 33 Croci di Guerra al Valore Militare testimoniano un così  straordinario contributo ed il valore e l’impegno del comando e del reparto.[19]

Altre forme di lotta. Le operazioni dietro le linee nemiche

Oltre ai fronti trattati in precedenza, un largo numero di uomini della Regia Marina offrì il proprio contributo collaborando con colleghi e civili per mettere in piedi strutture clandestine di resistenza. Tra le più importanti formazioni attive oltre le linee controllate dalla Germania, centrale per la vicinanza della città al fronte, per l’importanza politico-strategica della capitale e per le attività svolte durante il primo e delicato periodo di cobelligeranza tra Italia e Alleati, è il Fronte Clandestino della Marina a Roma.

Ufficialmente costituitosi il 1° novembre 1943 ad opera di ufficiali di Marina, il gruppo fu attivo sul fronte assistenziale, informativo e operativo (sabotaggio e antisabotaggio). Diretto dal 21 gennaio 1944 dall’Ammiraglio Emilio Ferreri, il Fronte Clandestino della Marina assistette durante i mesi di attività centinaia di militari di tutti i gradi e, sul piano operativo, costituì tre formazioni attive. Dopo numerose azioni volte al sabotaggio delle forze occupanti l’attività di uno dei gruppi, guidato dal guardiamarina Giovanni Fantin, si ridusse drasticamente a causa della delazione di una spia, cui seguirono parecchi arresti. Gli altri due nuclei armati parteciparono attivamente alla liberazione romana sostenendo tra il 4 e 5 giugno diversi scontri a fuoco.[20]

A Roma iniziarono, inoltre, per poi diffondersi a settentrione, le operazioni del Servizio Informazioni Clandestino (Sic). Messa in piedi tra settembre e novembre 1943, la rete informativa nacque dagli sforzi dell’Ammiraglio Maugeri, già capo del Servizio Informazioni Segrete (Sis), coadiuvato da altri suoi collaboratori decisi a entrare in clandestinità per operare contro l’occupante.[21] Inizialmente i marinai poterono appoggiarsi a fondi e sedi del Sis e in breve il gruppo arrivò a contare i 30 appartenenti, tutti membri della Regia Marina; ben 20 erano ufficiali, cui si aggiunsero 7 sottufficiali e 3 marinai. Successivamente si unirono ufficiali dell’Esercito e 28 civili, fra i quali 12 donne. Non impegnata in attività di guerriglia, la rete agì per raccogliere e trasmettere informazioni, il cui bacino di raccolta si andò ampliando con la creazione di centri informativi in diverse città del nord, incominciando da Milano, Firenze e La Spezia. La rete radio, presto in grado di ricevere rapporti provenienti fin dal Trentino, permise di avvertire gli alleati della posizione di importanti centri logistici avversari e degli spostamenti di forze in procinto di effettuare offensive o controffensive. Il Sic continuò a operare durante tutta la Guerra di Liberazione, nonostante i duri colpi inferti dal controspionaggio tedesco, riuscendo ad inviare oltre le linee nemiche 254 persone. Di queste 41 furono fucilate, 66 caddero in seguito a ferite e 15 finirono prigioniere.[22]

Conclusione

Il 2 maggio 1945, con l’entrata in vigore delle clausole della Resa di Caserta, si conclude la Guerra di Liberazione. Pochi giorni dopo è il turno della resa tedesca e, con essa, della fine delle ostilità in Europa. A est il conflitto con il Grande Impero del Giappone resta aperto; per questo motivo il secondo conflitto mondiale continua a trascinarsi ancora per quattro mesi, durante i quali l’esperienza della cobelligeranza rimane attiva. La Regia Marina resterà dunque ancora un mezzo fondamentale nel tentativo di superare lo status di cobelligerante, al fine di ottenere quello di alleato e vincitore, nella speranza di mitigare gli aspetti punitivi dell’armistizio. Credendo ancora possibile una tale mutazione di relazioni, si operò perfino per organizzare una spedizione navale contro la potenza nipponica. Nonostante i promemoria, le preparazioni e l’interessamento di De Courten e dei presidenti del consiglio Parri e Bonomi, l’operazione non fu mai approvata dai comandi alleati.[23] Alla firma della resa del Giappone non presenziò alcun osservatore italiano. Nonostante i diciotto mesi di cobelligeranza e l’effettivo miglioramento dei rapporti tra Alleati e Italia, concretizzato dal memorandum Macmillan del 24 febbraio 1945, lo status di paese cobelligerante non riuscì dunque a evolvere, come sperato, in una forma di alleanza. Si usciva dunque dalla Seconda Guerra Mondiale “sconfitti e cobelligeranti[24], dopo aver covato la speranza, sostenuta dall’ impegno sul campo militare, di lasciar pendere sul solo apparato fascista le passate responsabilità.

Le trattative con le Nazioni Unite avevano portato a una resa incondizionata che garantiva il quasi totale dominio angloamericano sul territorio italiano; se vi furono degli aspetti positivi, come abbiamo visto, fu principalmente grazie alle esigenze militari alleate, che poterono giovarsi della collaborazione italiana. In questo ambito la Regia Marina riuscì a pesare grandemente, gestendo gli affari logistici e di trasporto, operando con il naviglio e con il personale a terra, contribuendo allo sforzo bellico sul fronte della guerra classica e stabilendo cellule di intelligence e reti informative oltre le linee avversarie. Questi sforzi furono pagati con oltre 10.000 caduti, tra morti e dispersi, in prigionia o sul campo di battaglia, 846 dei quali nell’ambito della lotta partigiana.[25] Ciononostante, il trattato di pace riduceva decisamente le potenzialità e la forza della Marina. Per quanto ingeneroso, esso non fu tuttavia punitivo come nel caso di altre forze dell’Asse. La minaccia concreta della riduzione della marina a un livello di quasi inesistenza era stata sventata, dimostrando dunque che lo sforzo e l’impegno militare avevano avuto effettivamente un risultato positivo concreto, destinato oltretutto a migliorare ancora negli anni seguenti con l’ingresso dell’Italia nella Nato e con il mutamento del panorama internazionale.

[1] Rochat G., L’armistizio dell’8 settembre 1943, in Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi, Volume 1, Torino, Einaudi, 2000, pp. 37, 38.

[2] Vallauri C., Soldati. Le forze armate italiane dall’armistizio alla liberazione, Torino, UTET, 2003, p. 88.

[3] Rossi E.A., L’inganno reciproco: l’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 1993, p. 382.

[4] Ivi, p. 383.

[5] Carteggio Churchill-Stalin. (1941-1945), Milano, Bonetti, 1965, pp. 213, 215.

[6] Burracchia M., La Marina del trattato di pace, in L’Italia del dopoguerra: il trattato di pace con l’Italia, a cura di R. H. Rainero, G. Manzari, Gaeta, Stabilimento grafico militare, 1998, p. 158.

[7] Documenti relativi all’armistizio tra le Nazioni Unite e l’Italia, in Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 12, no. 1/4, 1945, pp. 179-199.

[8] Fioravanzo G., La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, Ufficio Storico Marina Militare, Volume XV, Roma, 1962, p. 92.

[9] Vallauri C., Soldati, p. 92.

[10] Fioravanzo G., La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, p. 270.

[11] Mattesini F., Bari: la seconda “Pearl Harbour”. I bombardamenti tedeschi sui porti dell’Italia Meridionale del Novembre-Dicembre 1944, p. 13.

[12] Mattesini F., Da Cobelligeranti ad Alleati? La Regia Marina e la dichiarazione di guerra al Giappone, p. 19.

[13] Ibidem.

[14] Manzari G., La partecipazione della Marina alla Guerra di Liberazione (8 settembre 1943- 15 settembre 1945), in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Marzo 2015, p. 137.

[15] Ibidem.

[16] Ghetti W., In lotta per la resistenza: la Marina militare nella guerra di liberazione e nella Resistenza, Milano, Mursia, 1975, p. 169.

[17] Fioravanzo G., La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, p. 276.

[18] Vallauri C., Soldati, p. 92.

[19]Ambrosi A., Ambrosi A., I nuotatori-paracadutisti (N.P.) della Regia Marina, in La Marina nella Guerra di liberazione e nella Resistenza: atti del Convegno di studi 28-29 aprile 1995: Venezia, Sala del Cenacolo-Isola di San Giorgio, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1996, p. 113.

[20] Manzari G., La partecipazione della Marina alla Guerra di Liberazione, pp. 143, 144.

[21] Orlando S., Il servizio informazioni della Marina Militare. Organizzazione e compiti (1884-1947), in Società italiana di storia militare. Quaderno 1999, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, pp. 195-197.

[22] Vallauri C., Soldati, p. 92.

[23] Mattesini F., Da Cobelligeranti ad Alleati, p. 50.

[24]Gabriele M., Aspetti politici dall’armistizio alla cobelligeranza, in La Marina nella Guerra di liberazione e nella Resistenza: atti del Convegno di studi 28-29 aprile 1995: Venezia, Sala del Cenacolo-Isola di San Giorgio, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1996, p. 41.

[25] I caduti nel corso della cobelligeranza furono 10.219, di cui 2.239 a bordo delle navi e 7.980 nei vari contesti terrestri. Ufficio Storico della Marina Militare, La Marina Italiana nella Seconda Guerra Mondiale – Volume I: Dati statistici, pp. 352, 353.