David Giuseppe Truscello. Sacerdoti in trincea

  

FATTI OPERE E PENSIERI DEI CAPPELLANI MILITARI NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

di David Giuseppe Truscello*

 

La recente ricorrenza del Centenario della Vittoria ci permette di aggiungere ulteriori riflessioni ai fini della comprensione di un periodo storico complesso e sovente soggetto alle retoriche contrapposte del Novecento. Lo studio della storia del Corpo dei cappellani militari, restaurato dopo il periodo liberale all’alba dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, ci permette di intuire il tentativo attraverso il quale alcuni settori dello Stato provarono, nei propri ruoli e obiettivi, e nella misura in cui la moralizzazione religiosa avrebbe restituito alla nazione buoni soldati e ottimi cittadini, la ricristianizzazione della popolazione a partire dalla contingenza dall’esercito in guerra. Questo tipo di lettura, forse non immediatamente suscettibile di attenzione, a motivo dell’insistenza preferenziale per alcuni temi sovente dibattuti in relazione alla Grande Guerra, affonda le sue radici nelle nutrite aspirazioni riconducibili a specifici ambienti del regio esercito, ed in particolare al gen. Cadorna, di affidare alla predicazione del clero un ruolo rigeneratore sul piano morale. Non sfugge, ad contempo, che l’incardinamento in armi del clero, parimenti facilitava la Chiesa al piano del rapporto diretto con la nazione, riproponendo nell’agenda politica temi tanto cari ad essa che, dopo i fatti del 1870, risultavano esposti al rischio di essere strumentalizzati in chiave politica. Facendo un passo indietro, va tuttavia sottolineato che, dopo la presa di Roma, malgrado si fosse consumata la rottura diplomatica tra lo Stato italiano e la Santa Sede, mai venne meno il riferimento del prete nella società, che, se mai, sarebbe divenuto sempre più apprezzato nel sociale riguardo agli emarginati, ai poveri, ai malati, nel solco dei principi dell’assistenza e della carità evangelica, e di quelli del buon cittadino. Così avveniva nel Piemonte, culla della dinastia sabauda, dove alacremente operavano il Cottolengo e don Bosco, Giuseppe Cafasso e il beato Clemente Marchisio. Di fronte all’emergere di sempre maggiori disagi per i ceti popolari e nel momento in cui la tensione tra valori civili e religiosi toccò il suo apice nel periodo risorgimentale, senza per questo mettere in discussione i propri dogmi, fulgidi esempi di preti-patrioti li ritroviamo in don Leonardo Murialdo, capace di trovare un equilibrio tra  fede e  culto della patria, ed in Francesco Faà di Bruno, reduce della Prima guerra di indipendenza e precettore dei giovani Principi Umberto ed Amedeo di Savoia. Come loro, molti religiosi, fondatori a vario titolo di congregazioni, ordini e innumerevoli opere di carità sottolinearono, nel solco del pensiero giobertiano, il rapporto privilegiato tra l’essere italiano e la fede cattolica, segnando un momento di sintesi particolarmente proficuo tra pensiero e azione. Esempi dello stesso periodo li ritroviamo al Sud con Sant’Annibale Maria di Francia a Messina, con il beato Bartolo Longo nel napoletano o il beato Giacomo Cusmano a Palermo; tutti esponenti di un cattolicesimo sociale capace di condensare ad un tempo l’apostolato religioso e quello civile. Un amalgama, quello tra fede e dovere civico, che si palesa in tutta la sua efficacia nei momenti più difficili e drammatici della nazione e che traccia, altresì, l’andamento delle dinamiche che dal Risorgimento giungono e si arrestano al primo conflitto mondiale, quando molti cattolici si schierano a favore della partecipazione dell’Italia al conflitto. I motivi sono i più diversi: si va dalla condivisione dell’ideale dell’indipendenza nazionale che chiude il cerchio delle battaglie risorgimentali, fino all’intento di favorire la diffusione dei principi democratici e di libertà per i popoli sottomessi all’Austria Ungheria.  E se per molti cattolici sorsero scrupoli di coscienza nel pensarsi in guerra contro una potenza cattolica, per altrettanti cattolici l’Austria incarnò il tradimento degli ideali cristiani, o quanto meno il soggetto politico che, servendosi della Chiesa, tutelò i propri interessi nazionali in Italia. Non meno dell’Austria, infatti, anche l’Italia poteva dirsi una potenza cattolica. Cattolici erano i vertici dello Stato a partire dalla Corona fino al Presidente del Consiglio dei ministri Antonio Salandra. Cattolico era il ministro Filippo Meda, già direttore dell’Osservatore Cattolico di Milano, e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Luigi Cadorna, il quale poteva dire di aver due figlie monache.[1] A favore dell’intervento anche il conte Giuseppe Dalla Torre, scelto presidente dell’unione Popolare da S.S. Pio X ed arruolatosi volontario nel 1915. Tra i numerosi  interventisti ritroviamo anche don Luigi Sturzo, allora segretario della Giunta centrale di Azione Cattolica e quasi la totalità dei cappellani militari e del basso clero. In sintesi, ma con una riflessione di ben altro tenore per le gerarchie ecclesiastiche, si sarebbe potuto asserire che la maggioranza della classe dirigente cattolica fosse favorevole all’intervento. [2] In questo clima rientra la partecipazione dei cappellani militari alla Grande Guerra. Tra loro, molti di quelli avrebbero fatto carriera: un papa, sette cardinali, una sessantina di vescovi.[3] C’è da dire che già in precedenza, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, i cappellani militari si erano distinti nelle avventure coloniali italiane in Africa: in Eritrea e in Libia soprattutto. Noti con il nome di Elemosinieri, erano già presenti nell’esercito preunitario sardo. Nel 1865 sono circa 189, riempiendo gli organici. A seguito delle frizioni politiche scaturite dal conflitto con lo Stato Pontificio, per decisione di Giovanni Lanza e Quintino Sella, allora ministro delle Finanze, e dietro generali considerazioni riconducibili a pur vaghe ragioni di bilancio pubblico, nel 1866 vennero aboliti e sostituiti dai frati cappuccini affiliati alla Croce Rossa.[4] Rimanevano, tuttavia, ancora presenti negli ospedali militari e, consentaneamente alla mobilitazione, venivano fatti salvi gli ecclesiastici nelle sezioni sanità, negli ospedali da campo e in quelli militari. Nessun riferimento, da disposizioni, era invece previsto per le truppe.[5] Reintrodotti con una circolare da Luigi Cadorna il 12 aprile 1915, questi soldati di Dio, come vennero definiti, oltre ad amministrare i sacramenti, assunsero un ruolo sempre più crescente nella tenuta complessiva delle Forze Armate. A questo proposito il gen. Cadorna, come già accennato, faceva molto assegnamento sui cappellani, ritenendoli funzionali per contrastare il rilassamento dei costumi che si era fatto largo a partire dagli ultimi sessant’anni. [6] L’assenza del sentimento religioso era per Cadorna  all’origine della mancanza di disciplina, e per lo stesso era riconducibile al sistema parlamentare ed alla prassi avviata in epoca giolittiana.[7] Tornando ai cappellani, se nel 1911 erano state reintrodotti in numero limitato e con funzioni relative all’assistenza negli ospedali durante la campagna di Libia,[8] in occasione della Grande Guerra assistevano emotivamente i soldati, intercedevano non di rado per loro con gli ufficiali superiori, erano presenti negli ospedali militari e nelle sezioni sanità dislocate lungo il fronte. Si occupavano di pratiche concernenti la prigionia, la ricerca e la tumulazione nei cimiteri militari. Nella Grande Guerra i cappellani militari sono quasi tutti cattolici, con un ecclesiastico ogni reggimento,[9] con l’eccezione di 9 valdesi e di un rabbino per i 5.000 soldati di origine ebraica. Il rapporto è di un cappellano ogni 3.000 militi, essendo in totale poco meno di 2.500, di cui 1.582 sono gli ufficiali. Tra le fila dell’esercito i seminaristi e gli ecclesiastici raggiungono il numero di 22.000.  La scelta dei cappellani è di pertinenza del Vescovo, che si avvale del diritto di proposta al Ministero della Guerra. Questi sacerdoti al fronte sono riconoscibili attraverso le stellette che portano sul bavero e la fascia sul braccio sinistro raffigurante una croce rossa su fondo bianco. Tra i cappellani e i religiosi in sanità ricordiamo alcuni tra i più noti: p. Giovanni Semeria, p. Reginaldo Giuliani, don Primo Mazzolari, don Giovanni Minzoni, p. Agostino Gemelli, fra Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, inquadrato nella sanità militare, Angelo Roncalli, futuro Pontefice, anche lui in sanità. Scriveva quest’ultimo nel suo periodo di leva: << Ho imparato, ho allargato, ho perfezionato quella fatica che in seguito avrei dovuto esercitare in così tante circostanze … noi sappiamo come i legami allacciati negli anni giovanili non si spezzano per tutta la vita. L’opera dei cappellani militari valse a guadagnare tanta stima al clero e ad avviare nuovi rapporti tra lo Stato (laico dei Savoia) e la chiesa >>.  [10] Circa la reintroduzione dei cappellani militari nelle Forze Armate, il provvedimento suscita interesse non solo dal punto di vista dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, ma anche in riferimento al consenso che tale iniziativa avrebbe suscitato in prospettiva dell’entrata in guerra. Come si è già accennato, l’utilizzo di poche unità di cappellani militari, circa venti nelle guerre coloniali, circoscritti al conflitto italo-libico (1911), aveva generato una certa approvazione nell’episcopato italiano, confortato anche dalla possibilità di rilanciare l’azione evangelica nei territori ostili. E’ con note di entusiasmo che trans Tiberim viene accolta la circolare con la quale il gen. Cadorna reintroduce i cappellani nelle Forze Armate. Essi, infatti, accanto alla missione spirituale, tramite il ricorso ai doveri morali ed ai benefici della disciplina nella vita di un cattolico, avrebbero dovuto risvegliare negli italiani in armi la devozione alla Patria. Rimanendo sul punto, di fondamentale importanza risultava la disciplina. Riguardo a ciò non erano rare le note di biasimo in linea con quelle emanate dal comando supremo circa gli atteggiamenti più licenziosi e disfattisti dei soldati lontani dal fronte. Il 1° febbraio 1916 il direttore del <<Prete al campo>>, don Giulio De Rossi, scriveva che << tutti i soldati reduci dalle licenze recavano in loro una diminuita resistenza alla lotta, alla fatica, all’obbedienza vigile e pronta al dovere, al dovere duro della guerra >>.[11] La dolente nota era preceduta, in data 2 gennaio 1916, dalla circolare del comandante supremo gen. Cadorna, inviata a tutti i comandi di reggimento, e al presidente del consiglio e al ministro della guerra, il cui contenuto era uno stato d’accusa contro chiunque in licenza diffondesse sfiducia sul successo dell’impresa, compiendo una biasimevole opera di disfattismo solo pari al basso livello morale di chi la compieva.[12] Tornando all’istituzione delle cappellanie militari, era chiaro che non comprendessero soltanto la religione cattolica; al provvedimento faceva seguito l’inquadramento delle Forze Armate di nove cappellani valdesi, a fronte di 3- 4.000 soldati di tale confessione, di un cappellano battista e diversi rabbini, attivi soprattutto in previsione delle festività ebraiche. Curioso, invece, in seno al cattolicesimo, l’adeguamento all’assistenza spirituale fornita dal clero militare latino delle minoranze di rito orientale: al riguardo pensiamo soprattutto al ceppo greco-albanese. Procedendo unilateralmente, con un decreto della Congregazione Concistoriale, datato 1 giugno 1915, la S. Sede istituiva il vescovo di campo, destinandolo ad avere giurisdizione su tutti i cappellani miliare del Regio Esercito, fatta esclusione per quelli dell’Ordine di Malta. Attraverso una dialettica instaurata tra la Santa Sede e il governo italiano, con decreto luogotenenziale si arrivò  al riconoscimento della figura del vescovo di campo, assimilandolo al grado e al trattamento economico di maggiore generale, mentre ai cappellani fu riservato quello di tenente.[13] Come stabilito nel decreto entrato in vigore il 27 giugno 1915, al vescovo di campo era riconosciuta << l’alta direzione del servizio spirituale nell’Esercito e nella Marina >> e << l’autorità ecclesiastica disciplinare su tutti i Cappellani Militari di terra e di mare >>.[14] L’analisi dei candidati era piuttosto rigida: lo stesso vescovo castrense, mons. Bartolomasi, assumeva precise informazioni prima di procedere alla nomina. La condotta e la morale del candidato sacerdote risultavano alquanto precipue per un eventuale esito positivo. Oltre a queste qualità, che diremmo basilari, si ricercavano doti di zelo e di pietà, e la conoscenza delle condizioni fisiche del candidato. La selezione seguiva poi lo stesso iter per l’aiuto cappellano. Una certa cautela nel procedimento di selezione dei cappellani militari rispondeva alla enorme mole di domande presentate. La nomina era infatti molto ambita, e non pochi furono i sacerdoti militari che, per dignità del rango sacerdotale, per le migliori condizioni economiche e l’agevolezza della missione spirituale, cercarono lo “scatto” per più anni consecutivi. Con riferimento a ciò non mancarono pressioni e raccomandazioni presso la curia castrense e il ministero della Guerra, non solo da parte dei superiori religiosi, bensì anche della classe politica e dal resto delle autorità religiose e civili.[15] I religiosi che non riuscivano ad essere nominati cappellani potevano sempre chiedere di essere destinati alle mansioni sanitarie come infermieri, portaferiti e dove potevano svolgere compiti più umili. Un aspetto di particolare interesse era poi quello che riguardava la notevole differenza economica tra religiosi cappellani e religiosi soldati, la quale veniva a costituire un importante elemento di tensione. Nel complesso furono 1.582 i religiosi che ottennero gradi di ufficiale, e si registrarono casi di reparti comandati da preti che avevano seguito il corso allievi ufficiali.[16] Inoltre, vista l’insufficienza del numero dei cappellani, non furono pochi i casi in cui mons. Bartolomasi evidenziasse le difficoltà di assolvere i numerosi impegni pastorali. In generale, però, possiamo sbilanciarci nel dire che l’ordinamento del servizio religioso nel regio esercito era migliore di quello approvato per gli eserciti francese e inglese. Su questo stato di cose troviamo d’accordo La Civiltà Cattolica che, a tal proposito, nell’aprile del 1916 lodava dalle sue colonne l’assistenza religiosa molto ampia che riguardava il nostro esercito e la soluzione gerarchica concernente il corpo dei cappellani in vigore nelle Forze Armate.[17] Affinché l’operato dei Cappellani restasse impresso, il vescovo castrense, a latere della lettera di ringraziamento scritta il 10 novembre 1918, suggerì al clero militare la compilazione di una relazione sugli esiti ottenuti ricorrendo ad uno schema che egli stesso suggerì in base a determinati punti cardine. L’azione religiosa, che avrebbe dovuto riguardare la celebrazione della messa festiva e feriale, le funzioni quotidiane, quelle periodiche e straordinarie, la predicazione, l’ amministrazione dei sacramenti, il precetto pasquale, l’erezione di cappelle, il culto dei morti, i suffragi e l’assistenza in trincea. L’azione morale, che invece avrebbe dovuto svilupparsi attraverso compiti riguardanti l’ufficio notizie, le conferenze morali e patriottiche, la lotta contro la bestemmia e il turpiloquio, la censura della stampa pornografica, la distribuzione dei doni, le visite dei soldati in trincea, ai malati e ai feriti, l’organizzazione della casa del soldato ed altre iniziative varie. Ed i risultati, riferiti alla frequenza alla pratica religiosa, in merito alla condotta morale, ai sentimenti di amore verso la patria e agli episodi di fede.[18] Di fronte all’evolversi del conflitto suscitava però qualche perplessità il controllo disciplinare del clero mobilitato. Inutili furono su questo fronte le iniziative intraprese dal vescovo castrense, il quale ricorse alla nomina di 25 delegati che si videro negato il riconoscimento del Comando Supremo. Miglior sorte ebbero invece i 4 delegati castrensi sui fronti d’Italia, Albania, Francia e Macedonia. L’iniziale lacuna fu tuttavia colmata, almeno in parte, negli ultimi due anni, grazie alle capacità di adattamento del clero ed alla organizzazione di incontri perfezionati da personaggi del calibro di p. Semeria, di p. Gemelli o grazie all’intervento dello stesso vescovo castrense. In questo contesto acquistarono una certa giurisdizione anche i vescovi competenti per territorio, ai quali i cappellani erano tenuti a  relazionare sui preti-soldato ma non su loro stessi.[19] Prima di passare all’analisi di altre questioni, sarebbe utile soffermarsi brevemente sulle relazioni compilate dai cappellani su invito del vescovo castrense, poiché oltre alle importanti informazioni desunte al piano storico ed emotivo, ci restituiscono una generale ripartizione degli orientamenti in seno al clero militare. C’è innanzitutto da precisare che il punto di vista della Chiesa Cattolica sulla guerra era piuttosto articolato. Da tradizione non si rifiutava tout court il conflitto, né si condannava, avendo i padri della Chiesa scritto in merito. Sant’Agostino risultava il più eminente riferimento sul concetto di guerra giusta, ancorato alla condizione che fosse impossibile sottrarsi al conflitto. In questo senso la partecipazione italiana nel 1915 era discussa tra chi la sosteneva e chi la avversava. Al riguardo magna pars dei cappellani aveva modo di ribadire a tutti i fedeli il dovere e l’obbedienza al Capo dello Stato anche qualora, della guerra, non ne avessero compreso i motivi.[20] Per quanto concerne l’episcopato italiano abbiamo contezza del fatto ch’ esso, un po’ come avveniva per l’opinione pubblica, si fosse diviso tra una porzione minoritaria di nazionalisti e neutralisti, ed una maggioritaria di patriottici e moderati. Un’altra nota di distinzione era quella dovuta al rapporto tra la guerra e il tanto atteso risveglio religioso. L’interpretazione del conflitto come occasione di rinascita del fervore religioso fu abbracciata da una parte del clero a fronte di un’altra parte che riteneva la superstizione la motivazione principale dell’avvicinamento dei soldati alle pratiche religiose.[21] Da una disamina condotta su un campione di 180 relazioni dei cappellani militari emerge una tripartizione di fasce – come sostenuto dallo studioso Morozzo della Rocca – all’interno di uno stesso arco di orientamenti ideali. Desumiamo che circa il 70 % degli autori delle relazioni suddette si può a ragione definire di ottimi sentimenti patriottici, mostrando allo stesso tempo il fianco ad una ideologizzazione della guerra, ereditando da essa un cameratismo che si manterrà anche nelle future esperienze. Questo campione riflette pure delle considerazioni positive circa la religiosità dei soldati e non manca di descrivere i fatti d’armi e i racconti sulle cerimonie di carattere epico.[22] Accanto alla prima categoria, troviamo i cappellani dotati di un accentuato spirito nazionalistico, che potremmo stimare approssimativamente attorno al 15-20 % . Quest’ultimi, come i primi, hanno in comune i tratti enfatici per i fatti d’armi, aggiungendo a ciò la retorica patriottica e i riferimenti elogiativi ricevuti dagli ufficiali noti per rintracciare nella guerra uno sprone utile al ravvisamento dei valori morali nel soldato, tralasciando parzialmente il tema della religiosità ed evidenziando piuttosto l’assenza di note di dissenso tra i militi.[23] Per quanto concerne il restante 15-20%, esso si attesta piuttosto su posizioni moderatamente patriottiche, preferendo le preoccupazioni di carattere religioso alla valutazione delle azioni belliche e al cameratismo di cui non si fa alcun accenno.[24]Un altro aspetto è poi quello concernente la convivenza del clero nelle Forze Armate. Ciò dipendeva in primis dai rapporti che intercorrevano tra i cappellani e gli ufficiali superiori. Al riguardo occorre subito precisare che i cappellani dovevano relazionarsi con gli ufficiali superiori anche per quanto atteneva l’esercizio del servizio religioso. Gli ufficiali competenti, qualora avessero voluto, avrebbero potuto impedire la partecipazione dei soldati alla messa modificando gli orari di lavoro, quelli delle pause o i turni di riposo. Altrettanto determinante avrebbe potuto essere l’atteggiamento assunto dagli ufficiali riguardo le pratiche religiose, in quanto sul loro esempio il soldato avrebbe potuto sentirsi incoraggiato a partecipare o meno. Stante così le cose il cappellano avrebbe dovuto accattivarsi le simpatie degli ufficiali superiori ed enfatizzare la loro religiosità con effetti emulativi sulla truppa.[25]Allo stesso tempo, in funzione della missione assegnata, i cappellani dovevano preoccuparsi di attenersi alle direttive impartite dall’Ordinariato militare. Il punto di equilibrio succitato risultava particolarmente delicato posto che l’azione religiosa poteva facilitare la tenuta della disciplina nei reparti, nel senso auspicato dalla gerarchia militare, e rinvigorire lo spirito di corpo in funzione patriottica, anche se gli effetti controproducenti avrebbero potuto ricadere sul piano della fede e delle pratiche religiose, confondendo i cappellani sulla distinzione tra gli obiettivi militari e quelli religiosi. Prese di posizione volte ad esprimere biasimo per queste possibili commistioni erano assunte sulla rivista Il prete al campo, in cui nel sacerdote veniva fatta palese condanna del sopravvento degli aspetti militari. La rivista, altresì molto attiva e presente al fronte, non mancava di definire continuamente il ruolo del cappellano militare nel regio esercito, evidenziandone  i limiti e le pertinenze del clero: un esempio ne è il diritto al saluto come qualsiasi altro ufficiale e l’autorità che il cappellano-ufficiale esercitava sugli altri ecclesiastici inferiori di grado.[26]  La frequentazione tra ufficiali laici e ufficiali religiosi era agevolata anche dal fatto che per questi ultimi non vi era il controllo dei superiori ecclesiastici e, risiedendo presso il comando dell’unità di servizio, abitudini e orari simili rappresentavano una costante. Il fenomeno coinvolgeva principalmente i cappellani di marina, i quali trascorrevano naturalmente meno tempo con i soldati.[27]Una delle conseguenze dell’assiduità della frequentazione tra i cappellani e gli ufficiali, particolarmente intensa nei momenti della mensa, fu quella di ritornare continuamente ad una catechesi di alto livello, adeguata perlopiù ad un ristretto gruppo di individui con elevati livelli di istruzione. Da questo punto di vista non deve stupire se qualche cappellano arrivasse a scrivere che la migliore condizione del clero militare sarebbe stata quella di avere <<una vasta cultura filosofica, letteraria, storica, scientifica, e profonda dottrina teologica, più per chiarire che per combattere gli errori. Spessissime volte chiarir le idee è lo stesso che aver fugato un errore>>.[28] Il legame che si veniva ad instaurare con gli ufficiali, come precedentemente accennato, era dai cappellani considerato molto importante, giacché era foriero di agevolazioni con ricadute dirette sull’espletamento del servizio religioso. Di tenore diverso risultava invece il rapporto che intercorreva tra i cappellani e gli ufficiali medici, quest’ultimi spesso agnostici, increduli e con una impostazione laicista e scientista. Comprensibili, dunque, apparivano in questo contesto episodi di diffidenza e pregiudizio ideologico. Capitava pure che ufficiali superiori atei non ostacolassero l’esercizio dei doveri religiosi del clero militare. E’ il caso che riguardò il cappuccino Pacifico Brandi, il quale scrivendo del suo diretto superiore, il col. Calichiano, definendolo << ateo convinto […] >>, sanzionava l’assenza di rapporti conflittuali, e piuttosto esprimeva amarezza per la sua condizione interiore.[29] Alla luce di ciò si deduce che non mancassero ufficiali superiori ben predisposti all’operato dei cappellani. Al riguardo ci fornisce una valida testimonianza don Giuseppe Ferrecchia, del 5° Raggruppamento artiglieria di montagna, allorché cita il suo superiore, il col. Sandulli, definendolo un vero cristiano:

Figliuolo, insegni loro a pregare e a ben pregare… il resto verrà da sé. Ma non soltanto ai soldati: lo insegni anche a noi… e non abbia paura di parlare anche a noi: ne abbiamo bisogno, sa!  […] Nelle difficoltà si rivolga a me personalmente. Desidero inoltre che mi comunichi le sue impressioni sullo spirito dei soldati […].[30]

Un’altra testimonianza di concordia tra il cappellano e le gerarchie militari ci è offerta invece da don Tito Graziani, il quale ci descrive l’affiatamento con gli ufficiali.[31]

<< Nelle grandi ricorrenze patriottiche e religiose si è cercato sempre di organizzare delle belle funzioni. Basta solo ricordare la grandiosa funzione che, d’accordo con i preti circonvicini, fu organizzata nel giorno natalizio di Sua Maestà il Re, in quel di Campo Maggiore. Intervennero tutti i militari sotto il comando del Generale di Brigata, gran parte dei civili e tutte le autorità locali sia preti che borghesi. […]>>.[32]

Di fondamentale importanza, e particolarmente seguita dal vescovo castrense, risultava essere la predicazione. In quanto propedeutica per la ricristianizzazione dei soldati, su di essa contava molto il comando supremo, e pertanto era pure controllata affinché non assorbisse note di disfattismo e pacifismo. I temi della predicazione dei 2/3 dei cappellani vertevano sui seguenti punti: comincia e termina la giornata con brevi preghiere; ama i superiori e la Patria tua; non degradarti innanzi al vizio, perché la divisa è mantello d’onore; non lordare il tuo labbro con turpiloquio e bestemmia; non transigere col proprio dovere; frequenta i sacramenti; rispetta ogni donna, come vuoi sia rispettata tua madre, tua sorella, la tua sposa.[33] Gli argomenti omiletici e la predicazione in generale era fatta oggetto di attenzione a partire dal vescovo di campo, il quale evidenziava l’importanza di conciliare i messaggi evangelici con i contenuti militari nel segno della triade Dio, patria e famiglia.[34] L’azione religiosa concerneva la celebrazione delle messe e i momenti ufficiali di culto, interessando principalmente la pratica sacramentale. Stando alla relazione di un cappellano di Marina, la celebrazione finiva con un <<Oremus>> seguito ad alta voce da <<pro Rege et regia Familia>> e il grido <<Viva il Re!>>.[35] In concomitanza con la prima Pasqua di guerra, mons. Bartolomasi spiegò quali fossero i doveri dei soldati: << Soldati, vi desidero forti, perché tali vi desidera ed ha bisogno che voi siate la Patria, tale è il dovere vostro; e dalla fortezza vostra compatta per disciplina, temprata per virtù d’animo dipendono le sorti delle armi. La Patria guarda a voi, spera in voi, da voi attende il lieto giorno di pace gloriosa. Soldati, siate forti >>.[36]Per favorire il concorso della maggior parte dei soldati, non era raro che in vista delle grandi festività cattoliche, i cappellani cominciassero per tempo un’opera di sensibilizzazione. Con riferimento alla partecipazione annuale  in occasione della festa di Pasqua, ricorrendo ad alcune relazioni è possibile risalire alle percentuali delle comunioni: cosicché risulta che la frequenza al sacramento è del 59.5% dei soldati nel 1916, del 60,7% nel 1917, del 58 % nel 1918. Ai dati citati occorre però sottrarre una percentuale che oscilla tra il 2 e il 5 % per quanti assolvevano il precetto pasquale in licenza.[37] Vieppiù da considerare che la partecipazione era in larga parte favorita dalla predisposizione degli ufficiali rispetto alla messa, la quale spesso veniva considerata una opportunità per sugellare il senso di appartenenza patriottica. In particolare ciò avveniva con le celebrazioni delle feste dell’arma, delle messe di suffragio per i caduti dell’unità, durante le benedizioni di bandiere reggimentali o con le memorie dei santi che richiamavano vicende militari, con i protettori dell’arma, durante le visite delle autorità militari, civili o ecclesiastiche e nel conferimento di medaglie al valore. Particolare rilievo era poi riservato alle celebrazioni del due novembre, quando la mobilitazione assumeva caratteri di massa con spostamenti anche prossimi nella zona.[38] Un aspetto che impegnava i cappellani militari all’assolvimento della missione riguardava la partecipazione dei soldati alle messe da campo. A tal fine una pratica molto diffusa era quella di far leva sulle ricompense, tra le quali risultava particolarmente gradita la fotografia. Per quanto concerne l’azione religiosa, oltre al servizio liturgico e ai sacramenti, il culto dei morti occupava una centralità non indifferente, mentre particolarmente sentita era l’opera di assistenza ai moribondi e il sacramento dell’estrema unzione.[39] La principale rivista dei cappellani “Il prete al campo” consigliò come legare il significato del testo religioso all’esperienza della guerra. In questo senso la croce diventava il sacrificio per la patria, e il rispetto dell’autorità e il sentimento del dovere riflettevano il volere di Dio. Significativa risultava la decisione di una parte del clero, quella meno nazionalista, di attenersi alla predicazione strettamente evangelica e meno aderente al richiamo patriottico. Non stupisce in tema di predicazione religiosa il decreto della Congregazione Concistoriale del giungo 1917: << Se il predicatore vorrà trattare temi non strettamente sacri, sempre però convenienti alla Casa di Dio, dovrà chiedere e ottenere permesso dall’Ordinario locale, il quale non lo concederà, se non dopo matura considerazione e riconosciutane la necessità. Nondimeno a tutti i predicatori resta in tutto e assolutamente proibito di parlare nelle chiese di cose politiche >>.[40] Il suddetto decreto, unitamente ad un meno asfittico ricorso ai temi patriottici durante la predicazione condotta nella stampa clericale nei mesi centrali del 1917, suscitò una certa diffidenza verso il clero militare. Conseguenza di ciò fu la preoccupazione dei cappellani militari di scongiurare il ritorno di vecchi cliché già utilizzati contro i cattolici al tempo del processo unitario, aumentando quindi il ricorso al Vangelo e prendendo spunto dall’adeguamento delle parabole alla dura vita militare. Così nel “Mentre si combatte” il buon samaritano diventa un’unità sanitaria della Croce Rossa, la zizzania che impedisce il crescere del seme viene paragonata agli austriaci, il cieco di Gerico diventa simbolo dei tanti ciechi di guerra […].[41]Parimenti, per rinsaldare il legame tra il buon cristiano e il buon soldato, non solo si ritenne opportuno ricorrere al racconto delle parabole di Gesù ma, in quest’ottica, anche l’Eucarestia assunse il significato del << Pane dei forti e dei vittoriosi >>.[42] Sublimando il concetto di patria con quello della fede, oltre alle pubblicazioni i cappellani ricorrevano all’immedesimazione di Maria come “castellana d’Italia”, al richiamo ricorrente alla bandiera nazionale, alla figura del re, primo nella capacità militare e nella pietà religiosa, al trinomio “Dio, Patria, Famiglia”, rinverdendo la determinazione di combattere contro la barbarie.[43] Quello dei cappellani risultava sulle prime un corpo omogeneo tutto rivolto alla predicazione religiosa e alla propaganda patriottica, la cui estrazione risultava elitaria per via del ferreo metodo selettivo applicato dalla curia castrense, a tutto vantaggio della esaltazione che se ne faceva sugli organi di stampa. ciononostante si trattava pur sempre di un corpo di nuova fondazione, le cui diverse sensibilità, anche consentaneamente al grado di patriottismo, al suo interno non potevano restare a lungo celate. Con riferimento alla guerra, ne fu banco di prova la reazione seguita alla nota diplomatica di papa Benedetto XV del 1° agosto 1917, contenente l’espressione “inutile strage”, rispetto alla quale, ritenendola pericolosa, la segreteria di Stato aveva suggerito al pontefice di evitarla.[44] Al riguardo non sembra che i cappellani avessero diffuso il messaggio alla truppa, probabilmente preoccupati dalla reazione dei vertici militari, che si intuiva pessima, e dal timore che la nota avrebbe potuto vanificare i meriti dei cattolici nella difesa della patria. E’ in questo contesto che avviene una prima importante divaricazione nel ceto clericale italiano e tra i cappellani militari in particolare. Ci fu infatti chi sostenne la nota e chi, molto prosaicamente, ne prese le distanze sottolineando il significato politico a fronte di quello dottrinale a cui ci si sarebbe dovuti attenere. La reazione del comando supremo di stanza a Udine fu pessima, e ne fu data eco da alcuni ufficiali per accentuare lo spirito giacobino, al quale si sottrasse  Cadorna, che pur dolente taceva sofferente.[45] Il quadro peggiorava unitamente alle preoccupazioni dovute alla diffusione della nota attraverso la distribuzione dei giornali al fronte, cosa che non si sarebbe potuta sospendere senza la conseguenza di impensierire le truppe ed incidere sul morale già duramente provato dei combattenti. Tuttavia, nonostante i malumori delle autorità il soldato dette buona prova di sé, mantenendo un ottimo ardimento bellico. Alla luce delle condizioni in cui si trovava gli fu spiegato che la pace anelata dal pontefice si sarebbe potuta ottenere soltanto sconfiggendo il nemico. Mentre a corollario la censura praticava tagli sulla stampa, nel “Prete al campo” ci si affrettò ad interpretare le parole del pontefice come un monito ai governi, e non ai popoli, i quali erano tenuti a combattere.[46] L’assestamento del clero militare nelle Forze Armate subì un notevole sconvolgimento a seguito della disfatta di Caporetto, quando anche l’ attività dei cappellani fu messa sotto inchiesta. Diversi furono i motivi che tesero a questa recrudescenza, a cominciare dall’avvicendamento che si consumò al Comando Supremo. Malgrado il clero rintuzzasse la propaganda patriottica, e lo facesse con maggiore intensità migliorando l’organizzazione delle case del soldato, che spesso venivano erette su proposta dei sacerdoti al fronte e ad essi affidate con il sostegno del Comando e con l’aiuto finanziario di una costellazione di associazioni civili, difficilmente poté evitare la grave accusa di disfattismo confessionale. A farne le spese fu subito don Giovanni Minozzi, degradato a vice direttore delle case del soldato e sostituito da un maggiore dei carabinieri. [47] Con l’arrivo di Diaz, affiancato da Badoglio, anche l’approccio verso i cappellani mutò e venne prendendo corpo un orientamento più laicizzato. Il generale Diaz aveva escluso allo stesso don Minozzi la sua appartenenza massonica e, stando alle parole del sacerdote, molti massoni circolavano non perché ce ne fosse un’opzione preferenziale, quanto piuttosto per una incapacità di reazione. Ciononostante anche il vescovo di campo fu destinatario di proteste dal Comando supremo a motivo del ruolo tenuto dai cappellani prima di Caporetto, in particolare di due che, stando alle accuse, avevano compiuto delle manchevolezze disciplinari. Episodio che mise in evidenza il pesante clima che aleggiava contro il clero militare in guerra, e che accelerò la creazione di un servizio di spionaggio per contrastare il disfattismo.[48] La diffidenza verso i cappellani crebbe fino a rendersi necessaria una circolare destinata a tracciarne il perimetro della missione al fronte, ove ormai agli ufficiali P. veniva assegnato il compito di indagare i discorsi e l’opera dei cappellani.[49] In verità ulteriori episodi suffragarono l’ipotesi che l’attività dei cappellani fosse stata messa sotto controllo già prima della disfatta di Caporetto, e più precisamente a partire dalla fine del 1916, quando in una circolare dell’intendente generale dell’esercito potava leggersi che suore e cappellani compivano, sia pure involontariamente, propaganda pacifista […]. [50] La reazione del Comando supremo fu dunque quella di esprimere sforzi nel senso di rendere più virile l’incitamento del clero militare avvertito come eccessivamente deprimente lo spirito.[51] Altri spunti di riflessione sul tema ci vengono forniti dalla tensione che si creò attorno ad un altro aspetto ritenuto fondamentale: la tenuta del morale attraverso il ricorso alla propaganda. Anche in questo caso il Servizio Propaganda (Servizio P.), al principio ritenuto una pratica sleale mutuata dal nemico, e istituito a partire dal 1918, operando presso la 3a Armata del Duca Emanuele Filiberto di Savoia e la 4a Armata guidata da Mario Nicolis di Robilant, prima che il Comando Supremo ne emanasse le direttive organizzative, fu assegnatario sia dell’azione propagandistica, sia di quelle di assistenza e vigilanza.[52] Va tuttavia precisato che fino al 1916 la propaganda disfattista non suscitò particolari preoccupazioni, tanto che il Comando supremo decise di pubblicare la prima circolare sulle divulgazioni antimilitariste solo a partire dal 18 giugno 1916. L’episodio risultava dunque il sintomo di una preoccupazione rivolta a colpire la diffusione di giornali e manifesti di stampo anarchico che incitavano alla diserzione. Ulteriori circolari in tal senso venivano emesse l’8 dicembre successivo e il 4 gennaio 1917.[53] Ma il tema della propaganda riguardò anche l’universo cattolico al fronte, non solo perché i cappellani se ne occupavano già durante la loro azione, ma anche perché occorreva non perdere terreno rispetto alla crescente egemonia culturale dei soggetti direttamente avversi alla Chiesa.  Quindi l’episcopato statunitense, per esempio, con i cardinali Gibbons, Farley ed O’Connel, agiva sul governo per mobilitare l’opinione cattolica ed esercitando un’azione parallela a quella del movimentismo del lavoro dell’American Federation of Labour , associazione legata idealmente all’universo del socialismo italiano.[54] Accanto a queste preoccupazioni, si aggiunse pure quella dall’attivismo della YMCA (Young Men’s Christian Association), giunta al fronte a rimorchio delle truppe statunitensi. Il dinamismo dei suoi 277 elementi impensierì cosi tanto le gerarchie ecclesiastiche che si rese necessario l’intervento del cappellano dello Stato Maggiore p. Giovanni Semeria, molto vicino al comandante supremo Luigi Cadorna, e da lui introdotto, che nello specifico espletò il tentativo di disinnescare il pericolo di una possibile predicazione protestante tra le truppe.[55] A questo proposito fu proprio l’atteggiamento di don Giovani Minozzi, l’ideatore delle case del soldato, a rassicurare gli animi, in quanto sulla base di un apporto laico ritenne l’operato degli evangelici non nocivo sul piano dei principi religiosi cattolici.[56] Molteplici istituzioni americane si fecero promotrici dell’invio di uomini e mezzi in aiuto delle popolazioni civili e dell’esercito. In questo senso si distinse la Croce Rossa Americana, mentre  la YMCA, inizialmente avversata per i motivi sopracitati, non solo appoggiò la missione delle case del soldato finanziando don Minozzi, ma fu protagonista dell’istituzione di posti di ristoro lungo la rete ferroviaria e nei pressi delle prime linee, organizzando altresì spettacoli cinematografici, teatrali e musicali.[57] Tale approccio fu propedeutico per un drastico ridimensionamento delle diffidenze nutrite fino a quel momento nei confronti degli alleati americani, sui quali si faceva assegnamento per l’invio di numerose unità in prima linea. Certo, rimaneva sempre da considerare che a fronte dei 3.800.000 uomini mobilitati, solo 3.800 di loro avrebbero combattuto assieme ai soldati italiani, finendo per caratterizzare l’intervento americano più dal punto di vista morale che materiale.[58] Sensibili ai disagi del mondo contadino, che costituiva la categoria di maggiore appartenenza dei soldati al fronte, una ulteriore breccia polemica nei confronti del clero, unitamente al movimentismo cattolico, si aprì in rapporto alla sua funzione di ammortizzatore del malcontento sociale. Sul fronte dei ceti  popolari i sacerdoti in uniforme erano fatti bersaglio della stampa socialista convinta del ruolo ad essi attribuito al momento dell’intervento. Al fine lettore non possono però sfuggire gli interessi in gioco all’interno del contesto delle nascenti organizzazioni di massa che si andavano profilando parallelamente al conflitto. Se il richiamo all’adempimento del dovere per la difesa della patria aveva esposto da sinistra il fianco alle accuse di certi movimenti di massa, dalla parte opposta sospetti circa il ruolo della Chiesa per scongiurare l’intervento facevano il paio con le accuse di disfattismo e austriacantismo provenienti dal fronte interventista, tanto che la Santa Sede sul punto dovette protestare con il governo italiano. Ed ancora, di nuovo da sinistra, il ministro socialista Bissolati giunse addirittura ad accusare il Vaticano di essere corresponsabile della morte di Cesare Battisti.[59] Alla già difficile situazione appena descritta si aggiungeva, sempre per iniziativa delle forze socialiste, l’accusa rivolta ai cappellani di essere responsabili della distribuzione di materiale religioso alle truppe per mezzo delle dame della Croce Rossa.[60] Al riguardo, come d’altronde riportato da alcuni giornali, nel 1916 si mosse la massoneria di Palazzo Giustiniani, la quale indisse un’adunanza speciale, con la partecipazione di numerosi aderenti venuti in licenza dal fronte, proprio per esaminare la necessità di vigilare i cappellani militari.[61]  D’altra parte non era un segreto che nelle fila dell’esercito vi fosse la presenza di anticlericali, i quali, quando in posizione di comando, dalle testimonianze di alcuni cappellani sappiamo essersi mostrati ostili senza purtuttavia riuscire  ad incidere sullo stato delle cose.[62] Non appare dunque estraneo alla logica dei fatti il tentativo messo in piedi da mons. Bartolomasi di eludere la diffidenza montata contro l’attività evangelizzatrice dei cappellani invitando quest’ultimi a diversificare le attività a favore dei soldati. In questo senso rientravano gli obiettivi apparentemente meno aderenti alla dimensione religiosa ma, che ad un tempo, servivano ad aprire nei loro confronti un credito di fiducia da parte dei soldati. Si pensi per esempio al compito di leggere e scrivere le lettere per gli analfabeti.  Si è già più volte accennato all’importanza della tenuta morale delle truppe quale principale obiettivo da mantenere durante tutto il conflitto. Parimenti la presenza dei cappellani al fronte era funzionale anche al fatto che il Comando Supremo esercitasse un controllo sui soldati in relazione al tema della stampa pornografica, considerata deleteria sul piano della dignità del combattente e direttamente collegata all’aspetto morale.[63] In questo ambito notevole fu lo sforzo dei cappellani nell’azione di contrasto degli atteggiamenti più lascivi. Il ricorso alla propaganda per la moralità, anche attraverso l’organizzazione di conferenze, costituì un fenomeno non isolato.[64] Notava padre Gemelli che i bisogni più materiali costituivano i pensieri più preoccupanti per il soldato, cosicché << un nonnulla del rancio e dei servizi lo preoccupa e lo turba>>.[65]In questo senso continua p. Gemelli << […] il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi; […].[66] Quindi era di fondamentale importanza far sì che il morale delle truppe non cedesse al disfattismo.  A questo proposito il clero militare ricorreva ad una predicazione spesso patriottica partendo dalla spiegazione del Vangelo ancorata alla concretezza della vita reale. Nel contesto della guerra un ruolo determinante per i fanti l’ebbero poi le case del soldato, luoghi di accoglienza e conforto affidati ai Cappellani, ai preti-soldato o a militari di loro fiducia. La prima venne istituita nel Cadore nell’estate del 1915, con proprie risorse e su iniziativa di Don Minozzi, non sottoposto gerarchicamente al vescovo di campo in quanto appartenente all’Ordine di Malta. Vedendone il successo, con l’ausilio della contessina Carla Cadorna, l’esperienza fu replicata altrove. Non tardarono quindi a confluire finanziamenti da parte della società Ansaldo, di Navigazione Generale, di Fiat, di Terni e di altri soggetti economicamente rilevanti. Il Corriere della Sera aprì financo una sottoscrizione. [67] Nel contesto delle case del soldato occorre precisare che, se il vescovo castrense non mancò di ricordarne l’importanza, i metodi e i mezzi dell’attività patriottica dovettero essere trovati dal clero castrense. Questi centri ricreativi potevano assumere dimensioni e aspetti più diversi, passando dalla baracca alla villa signorile. L’incremento della case del soldato fu esponenziale; basti pensare che dalle 100 esistenti nel 1916 si passò alle 150 nel 1917 e, dopo una importante flessione seguita alla rotta di Caporetto, a 500 nel 1918. Tuttavia, potendo godere di discreti finanziamenti dovuti all’attività filantropica e al sostegno dell’associazionismo, le case del soldato erano prive di un coordinamento concertato con le autorità militari,  seguendo una logica a volte disordinata e improvvida di mezzi.[68] Nondimeno, il ruolo che giocarono nella vita del soldato in guerra, fu determinante per il morale. Lì il fante poteva scrivere, leggere, suonare o ascoltare la musica. In quelle più organizzate si poteva persino vedere un film. Con il tempo le case del soldato diventarono ritrovi dove organizzare feste, lotterie, tombole, giochi popolari. I Cappellani le utilizzarono anche per istituire corsi per analfabeti (scuole analfabeti) o piccole cooperative di consumo. Il successo delle case del soldato, visitate dai di 2.500 ai 3.000 soldati al giorno, non si deve attribuire soltanto al largo ventaglio di attività offerte, peraltro non prettamente di carattere confessionale, bensì anche all’utilità di certi servizi che vi venivano espletati. L’Ufficio Notizie, per esempio, costituiva la principale attività di collegamento tra le truppe e la famiglie dei militi. L’articolazione di questa attività consisteva nella trasmissione degli elenchi dei caduti, dei dispersi e dei feriti ad un Ufficio Notizie centrale (Bologna) attraverso il quale sarebbero state informate le famiglie. La mole di informazioni in transito era enorme, e tale attività, assicurata in prevalenza in ambito cattolico, per il cui espletamento del servizio erano stati creati diversi segretariati, costituiva un impegno non secondario per i cappellani militari, che riuscivano financo a supplire le lacune dell’apparato burocratico dell’esercito guadagnandosi il pieno riconoscimento delle autorità militari. Ciononostante il ruolo svolto nel contesto dell’Ufficio Notizie veniva interpretato in senso estensivo, assorbendo anche le mansioni dovute alla corrispondenza e le incombenze dei numerosi casi di analfabetismo. Ciò faceva del cappellano non solo l’assistente spirituale, ma qualcuno di cui fidarsi quale intermediario tra l’esercito ed i propri cari.  Purtuttavia In merito all’attività di corrispondenza, la missione del Cappellano doveva tenere conto di due esigenze specifiche. L’una era quella di assolvere il dovere di prestare solidarietà e assistenza caritatevole al militare che ne avesse bisogno, mentre l’altra avrebbe dovuto riguardare l’impegno alla vigilanza sul contenuto delle lettere e la pratica della censura, che laddove ordinata dai superiori costitutiva un altrettanto importare aspetto da espletare nell’osservanza dei propri doveri.[69] Presso le case del soldato anche la lettura costituiva una importante via di fuga dalla tragedia quotidiana della guerra. Su questo terreno il ruolo dei cappellani risultava strategico, sia per combattere l’ozio dei soldati, sia per offrire loro una precisa formazione attraverso la diffusione di determinate letture. Proprio la lettura veniva a costituire un’attività in grado di fornire lo stato dell’arte dei livelli di istruzione della popolazione italiana attraverso il rilevamento che di tale indice si riscontrava nell’esercito. Secondo statistiche del tempo l’analfabetismo si attestava dal 39,66 % della classe 1872 al 23,0 % della classe 1900. Anche se a corredo si sarebbe dovuto tenere conto dei semi-analfabeti. Attraverso l’attività delle case del soldato, don Minozzi rilevava che gli scrittori e le opere più richiesti erano il Manzoni con I Promessi Sposi, il Pellico con Le mie prigioni, il Grossi con Marco Visconti, il D’azeglio con La disfida di Barletta e l’Ettore Fieramosca, il Cesare Cantù con Margherita Pusterla, il Carcano con Angiola Maria; mentre per i meno istruiti erano ricorrenti Verne, Salgari, Mioni, Matteucci, Beltrami e quelli della Libreria Editrice di Torino, della Quotidiana di Brescia e della Pro Famiglia di Milano. Tra gli autori popolari, Trilussa risultava il più gettonato. Tra gli stranieri: Tolstoj, Dostoevskij, Shakespeare, Schiller, Cervantes, Dumas. Molto richiesti pure i libri del drammaturgo Tagore. Diffusissimi e accessibili a tutti risultano invece essere gli opuscoli di propaganda cattolica.[70]E’ oltremodo curioso notare come tra gli intellettuali in guerra, avvezzi con i classici greci e latini, lo scrittore più in voga non fosse né Manzoni né Tolstoj e tantomeno D’Annunzio.  Scriveva don Minozzi che quasi nessuno leggeva D’Annunzio, mentre molti cercavano i libri di Guido da Verona, che << si erano intrufolati dappertutto >>.[71] Nel complesso i cappellani militari assunsero il ruolo auspicato dal gen. Cadorna alla vigilia dell’entrata nel conflitto ai fini della tenuta complessiva delle Forze Armate.  L’apporto del clero al fronte si distinse anche in funzione della presenza dei preti soldato. Si trattava di circa 22.000 unità comprendenti novizi, chierici, conversi, seminaristi; di cui  solo i più vecchi andarono ai reparti della sanità presso gli ospedali da campo in zona di guerra e in quelli territoriali. A tal proposito possiamo comprendere la tensione che venne a crearsi per tutti gli altri che arruolati a tutti gli effetti nelle Forze Armate, dovettero sostenere il conflitto e, quando necessario, uccidere. I preti-soldato, a differenza dei cappellani, ai quali si riconosceva il rango di ufficiali, dovettero cimentarsi nei lavori più umili e sopportare le fatiche della guerra accanto agli altri soldati con i quali, la vicinanza e la condivisione degli stenti, ma anche la simile estrazione sociale di origine, favoriva l’instaurazione di un rapporto più autentico rispetto a quello che intercorreva tra i cappellani e i soldati.[72] Interessante notare come elementi di questa categoria religiosa al fronte, anche per la stretta convivenza con le truppe, si preoccupassero delle modalità con le quali venivano concesse le licenze e impartite specifiche raccomandazioni. Vista la esiguità dei cappellani militari e giacché incardinati nei reparti di appartenenza, i preti-soldato erano naturalmente portati a sostituirli nell’azione religiosa, generando inevitabili frizioni con i superiori, all’occhio dei quali non erano preparati gerarchicamente e nell’ordine della dimensione esperienziale. A questo si aggiunga che le autorità religiose, in merito ai preti-soldato, non fornirono direttive di apostolato tra le truppe.[73] Eppure essi confessavano, organizzavano momenti di preghiera e confortavano i commilitoni, al netto di tutte le difficoltà che riscontravano, non mancavano infatti di essere rifiutati e subire atteggiamenti ostili che, a differenza dei cappellani militari, che prendevano alloggio presso i comandi e vivevano la loro esperienza sul piano delle gerarchia, i preti-soldati erano costretti a rimanere e vivere tra le truppe subendo le tensioni e il logoramento del conflitto.[74] Tuttavia, malgrado le riluttanze del Vescovo di campo e delle autorità ecclesiastiche, ben 1.582 preti-soldati ricevettero i gradi di ufficiale. A loro discapito venivano però contestati fattori quali l’inesperienza al comando e l’abitudine alla sottomissione. Nondimeno per molti di loro fu necessaria la frequentazione dei corsi per allievi ufficiali.[75] I benefici che ricevettero con i gradi furono notevoli ed in breve possono riassumersi nel maggiore tempo libero, nel rispetto ricevuto, nel cambiamento delle frequentazioni; ma anche maggiori comodità, uno stipendio con cui provvedere alle proprie necessità, numerosi momenti da dedicare alla preghiera.[76]

Ancora, il tema delle promozioni per cappellani e preti-soldato generò casi di indisciplina ed abbandono dello spirito originario. Complice il trambusto della guerra, l’allontanamento dal complesso di valori e dallo stile di vita al quale erano stati forgiati, sacerdoti e religiosi furono soggetti ad una laicizzazione. Questo aspetto ancora poco indagato, e messo in luce dagli studi di Morozzo della Rocca, riguarda l’interruzione della forma mentis a cui era chiamato ad adeguarsi il chierico che desiderava farsi sacerdote. I giovani studenti ecclesiastici, avvezzi di fatto a regole comportamentali a cui erano sottoposti sin dal loro ingresso nei seminari, dove il contatto con il mondo esterno avveniva di rado, o perlomeno  durante le vacanze estive e il rientro in famiglia, si ritrovarono ipso facto catapultati in un universo a loro estraneo. Considerando il fatto che la chiamata alle armi per molti chierici giunse quando non avevano ancora professati i voti solenni e non erano divenuti sacerdoti, l’esperienza della guerra incise in molti di loro in maniera irreversibile. Basti pensare che nel 1911 la S. Congregazione per i Religiosi emise un decreto con il quale si fissarono alcuni capisaldi per il mantenimento della vocazione. Si faceva ferma raccomandazione di evitare i luoghi mondani, le persone sospette, i libri e i giornali non conformi alla fede, affidandosi, in caso di bisogno, ai confratelli più prossimi al luogo di servizio o ai parroci locali.[77] Se è vero che la crisi spirituale stravolse la gioventù religiosa al fronte, essa non risparmiò, come suddetto, nemmeno i sacerdoti in uniforme. In questo caso, tuttavia, unitamente al rilassamento religioso giocarono anche altri fattori. Va da sé che il sacerdote soldato, quando più maturo, veniva dislocato presso le unità sanitarie in prossimità del fronte, dove la tensione e le vicissitudini erano ben diverse e di minore intensità. A questo si aggiunga la disinvoltura del prete già navigato a prendere in considerazione il rigorismo e lo zelo che invece venivano diversamente vissuti dal chierico.[78] Per avere una vaga idea delle sospensioni a divinis, si consideri che su 12.000 individui dotati di ordini sacri, ben 350 andarono incontro al provvedimento disciplinare. Curiosa appare poi l’osservazione del Morozzo della Rocca circa l’incidenza di una maggiore percentuale di provvedimenti disciplinari assunti dalle autorità ecclesiastiche nei confronti dei preti-soldato del sud, dove, si continua, incise la prolungata non applicazione della riforma tridentina, nonché, nel breve periodo, l’incapacità dello stesso clero meridionale di farsi portatore di un progetto politico e sociale alternativo – movimento cattolico.[79]

In conclusione il bilancio umano della guerra fu altissimo e il corpo dei cappellani militari rispetto alle altre unità in combattimento non ne fu risparmiato.  Alla luce della composizione dell’esercito la loro presenza al fronte si rivelò a ragione imprescindibile per il morale dei soldati italiani, giacché, se si vuole, si potrebbe pure addurre al naturale rapporto di famigliarità che riuscirono ad instaurare con i fanti, i quali erano in larga parte di estrazione contadina. Era infatti nei ceti rurali che si conservava ancora integro il depositum fidei. Inoltre il loro supporto, anche in termini di valorizzazione del combattente, visto prima di tutto nella sua qualità di  persona, migliorò la condizione di moltissimi fanti, insegnando loro per esempio a leggere e a scrivere, o perorando presso gli ufficiali superiori un migliore trattamento per le truppe, per le quali si riuscì ad organizzare anche numerosi momenti ricreativi. Parimenti potrebbe dirsi che il cappellano era l’unico ufficiale con cui i soldati potevano parlare senza timore.[80] E poi la preghiera, la cura dei feriti e il culto dei morti, la distribuzione dei sussidi e dei doni, costituirono soltanto alcuni aspetti del rapporto instauratosi tra i soldati e i cappellani militari, che dovettero occuparsi anche dei 24.000 preti-soldato al fronte: conversi, novizi, seminaristi e chierici che con il resto dei fanti condivisero in prima linea quarantuno mesi di guerra.

Finito il conflitto, invece di tornare alla condizione di partenza, molti cappellani decisero di continuare ad operare nell’ambito dell’assistenza alle vittime di guerra. Pensiamo per esempio all’opera di don Minozzi, a quella di don Facibeni o di padre Semeria, che negli anni a seguire avrebbero continuato la pia opera a beneficio degli orfani di guerra.[81] Altro non si trattava che della fisiologica maturazione dell’esperienza del conflitto, ove i cappellani non si limitavano soltanto al momento della preghiera o a quello dell’accompagnamento alla buona morte dei feriti più gravi, assistendoli nelle sezioni sanità o nei vari ospedali militari, ma rischiavano come i fanti la vita nella speranza di recuperare, nella logica della propria missione, qualsiasi anima dal fatal pericolo, quindi spingendosi nella terra di nessuno, sotto i bombardamenti o nei reparti più infetti dei nosocomi militari. Di questi soldati di Dio a più di cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale ricordiamo 93 caduti e centinaia di decorazioni: di cui 3 medaglie d’oro; 137 medaglie d’argento; 299 medaglie di bronzo; 94 croci al valore militare;[82] 12 decorazioni civili e 4 decorazioni estere. [83]Considerando anche i preti soldato, la Sacra Congregazione Concistoriale calcolò un totale di 845 morti, 795 feriti e 1.243 decorati su un numero complessivo di 24.446 ecclesiastici.[84] L’impegno, il sacrifico e le perdite in termini di vite umane e di crisi del sacerdozio furono gli aspetti peculiari dell’attività dei cappellani militari in guerra, intenti a infondere fede e vigore alle nostre truppe, contro quello che fu uno degli eserciti più potenti del mondo.

  • * Socio della Federazione di Catania

[1] P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, Mondadori Libri, Milano, 2015, p. 157;

[2] G. Sale, Benedetto XV e la nascita del partito popolare, in La Civiltà Cattolica, 153( 2002, III) 3649-3654, pag 23;

[3] P. Gaspari, Preti in battaglia, Gaspari, Udine, 2017 p. 13;

[4] A. Nataloni, I cappellani militari nel primo conflitto mondiale: l’istituzione, la divisa, la guerra, i personaggi e le medaglie d’oro, in www.arsmilitaris.org, http://www.arsmilitaris.org/pubblicazioni/Cappellani%20militari.pdf;

[5] R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, Gaspari, Udine, 2015,  pag. 12;

[6] P. Melograni, Op. cit., p. 157;

[7] P. Melograni, Op. cit., p. 158;

[8] P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, Mondadori Libri, Milano, 2015, p. 124;

[9] Ibidem;

[10] A. Nataloni, ibidem;

[11] P. Melograni, Op. Cit., p. 101;

[12] Ibidem;

[13] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., pag. 13;

[14] V. Pignoloni, I cappellani militari d’Italia nella Grande Guerra, Ed. San Paolo, Milano, 2014, p. 12;

[15] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., pag. 14;

[16] P. Melograni., Op. cit., p. 126;

[17] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 16;

[18] V. Pignolone, op. cit., p. 15;

[19] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 17;

[20] P. Melograni, Op. Cit., p. 139;

[21] P. Melograni, Op. Cit., p. 129;

[22] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 80;

[23] Ibidem;

[24] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 84;

[25] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 46;

[26] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 48;

[27] R. Morozzo della Rocca, Op. cit. pp. 48-49;

[28] R. Morozzo della Rocca, Op. cit. p. 50;

[29] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 53;

[30] V Pignoloni, Op. Cit. p. 250;

[31] V. Pignoloni, Op. Cit., p. 337;

[32] Ibidem;

[33] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 65;

[34] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 66;

[35] R. Morozzo della Rocca, Op. cit.., p. 39;

[36] P. Melograni, Op. cit., p. 140;

[37] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 40;

[38] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 41;

[39] R. Morozzo della Rocca, Op. cit. p. 44;

[40] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 68;

[41] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 71;

[42] Ibidem;

[43] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 72;

[44] P. Melograni, Op. Cit., p. 351;

[45] P. Melograni, Op. Cit., p. 352;

[46] P. Melograni, Op. Cit., p. 353;

[47] P. Melograni, Op. Cit., pagg. 488-489;

[48] P. Melograni, Op. Cit., p. 488;

[49] P. Melograni, Op. Cit., p. 489;

[50] P. Melograni, Op. Cit., p. 345;

[51] Ibidem;

[52] AA. VV., Gli intellettuali e la Grande Guerra – Scrittori, artisti, politici italiani nella Prima guerra mondiale tra interventismo e opposizione – VOLUME 1 , Ed. Comune Legnano, Ecoistituto Valle Ticino, A.N.P.I. Sez. Legnano, Legnano, 2016, p. 364;

[53] P. Melograni, Op. Cit., p. 241;

[54] P. Melograni, Op. Cit., p. 484;

[55] E. Scarpellini – J. Schnapp, ItaliAmerica: il mondo dei media, Ed. Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 2012, p. 155;

[56] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p.20;

[57] P. Melograni, Op. Cit., p. 484;

[58] P. Melograni, Op. Cit., p. 485;

[59] P. Melograni, Op. Cit., p. 345;

[60] P. Melograni, Op. Cit., p. 137;

[61] Ibidem;

[62] Ibidem;

[63] R. Morozzo della Rocca, Op. cit., p. 29;

[64] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 30;

[65] P. Melograni, Op. Cit., p. 79;

[66] P. Melograni, Op. Cit., p. 85;

[67] P. Melograni, Op. cit., p. 145;

[68] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 33-34;

[69] Ibidem;

[70] P. Melograni, Op. Cit., pp. 228-229;

[71] P. Melograni, Op. Cit. pp. 229-230;

[72] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 94;

[73] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 105;

[74] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 106;

[75] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p.112;

[76] Ibidem;

[77] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 117;

[78] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., p. 120;

[79] R. Morozzo della Rocca, Op. Cit., pp. 121-122;

[80] P. Gaspari, Op. cit., 108;

[81] P. Gaspari, Op. cit., p. 12;

[82] P. Gaspari, Op. cit.p. 9;

[83] M. De Leonardis, L’Italia e il suo esercito, Rai-Eri, Roma, 2005, p. 49;

[84] P. Melograni, Op. cit., 127;

 

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