Approfondimenti – La causa dello sfacelo secondo Mussolini

  

Alessia Biasiolo[1]

 

Mussolini diede una risposta alla causa scatenante dello sfacelo italiano del 1943. E la collocò nel nord Africa. Secondo il capo della R.S.I., infatti, il tradimento del generale De Gaulle aveva aperto le porte dell’Algeria, in aperta congiura contro l’Italia. Non ci sarebbe stato da stupirsene, dal momento che l’Italia alla Francia aveva dichiarato guerra. L’8 novembre 1942, gli americani avevano sbarcato ad Algeri uomini e armamenti, accolti trionfalmente mentre gli inglesi si tenevano a distanza. Apparve subito chiaro che lo sbarco di un’armata americana nel Mediterraneo “costituiva un evento di grande portata strategica destinato a modificare se non a capovolgere” il rapporto di forze in quel settore, per l’Italia della massima importanza. Sia per le colonie italiane d’Africa, sia per l’estrema vicinanza con il territorio continentale che non poteva non sentirsi già minacciato. Gli americani, infatti, avrebbero potuto, come infatti accadrà, interrompere l’azione a tenaglia delle forze italo-tedesche comandate da Rommel verso Alessandria. Gli angloamericani, dal canto loro, partendo dall’Algeria e dall’Egitto, avrebbero potuto chiudere gli italo-tedeschi in Libia in una sacca.

I tedeschi pertanto reagirono immediatamente con l’occupazione della Francia, della Corsica e della Tunisia. Altra condizione essenziale sarebbe stata sferrare un forte e decisivo attacco agli americani mentre ancora non erano organizzati in territorio africano, cosa che si rivelò impossibile perché non c’era la necessaria superiorità aerea e le azioni di disturbo messe in atto con l’affondamento delle navi per il trasporto truppe e rifornimenti, avevano attuato un buon modo per impedire agli alleati dell’Asse di portare avanti la loro strategia militare. Mussolini, infatti, considerava proibitivo il modo in cui gli inglesi controllavano il Canale di Sicilia che, secondo lui, poteva essere considerato il cimitero della Marina mercantile italiana.

Pertanto, mentre le forze alleate progressivamente crescevano, quelle dell’Asse progressivamente incontravano difficoltà. Il 23 ottobre, prima pertanto dello sbarco americano in Algeria, Montgomery aveva attaccato le posizioni di El Alamein, dando inizio alla marcia di avvicinamento delle forze angloamericane sia da est che da ovest. Questo aveva comportato un peggioramento della situazione anche in Italia, con notevole entusiasmo da parte degli oppositori al regime e, di rimando, motivi di preoccupazione e di scoraggiamento da parte fascista. Infatti, secondo Mussolini, finché nel Mediterraneo c’era solo la Gran Bretagna, l’apporto di uomini e mezzi alla Germania poteva essere sufficiente e foriero di risultati; ma la comparsa degli americani, aveva turbato gli spiriti e portato a “milioni e milioni” coloro che ascoltavano le radio nemiche per sapere il più possibile la verità dei fatti. Sempre secondo il Duce, questi nuovi fatti tattici del nemico avevano messo in luce anche i nemici interni al regime, coloro che, pur essendo addirittura consiglieri nazionali, pertanto in seno al fascismo, di fatto non ne sostenevano più l’azione politica.

L’unica via d’uscita sarebbe stata aggirare il nemico alle spalle in Africa, ma secondo Mussolini quella manovra non venne nemmeno tentata. “Le due settimane che vanno dal 23 ottobre all’8 novembre furono di una importanza storica incalcolabile”, sostenne il Duce, perché da allora l’iniziativa strategica passò agli Alleati. Le azioni di attacco sostenute da Rommel durante l’estate, infatti, erano naufragate letteralmente per la mancanza di carburante dovuta al naufragio delle navi che dovevano rifornirglielo, pertanto si sarebbe dovuto abbandonare le posizioni di El Alamein e El Quattara, ritirando le truppe che non disponevano di ruote sulla linea Sollum-Halfaia, linea che lo stesso Mussolini, ripartendo da Derna nel luglio del 1942, aveva ordinato in forma scritta al maresciallo Bastico e al generale Barbasetti di riordinare e di sostenere con tutte le forze disponibili, utilizzando chi nelle retrovie era sempre a riposo, secondo il suo parere. Il ritiro sarebbe avvenuto indisturbato, seguito da subito da quello delle forze tedesche motorizzate, mettendo almeno 550 chilometri di deserto tra le forze dell’Asse e quelle nemiche e costringendo queste ultime a concentrare tutti i loro sforzi nel tentativo di organizzare un attacco, mentre le truppe italo-tedesche si sarebbero adeguatamente rafforzate sulla linea Sollum-Halfaia già abbastanza difendibile. Il comando di zona, invece, decise di mantenere le posizioni e di fortificare la linea dove, presumibilmente, si sarebbe concentrato l’attacco nemico. Questo su El Alamenin fu particolarmente forte, soprattutto grazie alla ingente superiorità numerica degli aerei inglesi che mitragliavano e bombardavano le postazioni italiane di fanteria non adeguatamente riparate e che, tuttavia, resistettero anche eroicamente, come nel caso della “Folgore”. L’arrivo dei mezzi americani in supporto agli inglesi, migliorò la situazione tattica di questi ultimi, portando all’arretramento delle truppe italiane scarsamente dotate di mezzi di trasporto, pertanto costrette alla resa e prese prigioniere.

Secondo Mussolini, i nomi cari agli italiani di Sidi-el-Barrani, Sollum, Tobruk, Derna, Bengasi ricomparvero per l’ultima volta nei bollettini italiani di guerra, mentre Rommel con le sue formazioni corazzate, pur se bersagliato dal nemico via cielo e terra, riusciva ad uscire dalla morsa. Non si riuscì a creare una battaglia difensiva di arresto del nemico ad El Agheila-Marada, accesso alla Tripolitania, per mancanza di mezzi. La ritirata continuò fino a Homs, sperando che il deserto della Sirte potesse aiutare a fermare il nemico, cosa che non avvenne. Tutte le forze rimaste si diressero verso la Tunisia, dove il terreno si prestava ad una migliore resistenza. Il generale Giglioli riferì che nell’imponente ritirata vennero perduti pochissimi mezzi e materiali, ma diventava sempre più chiaro che, se fosse stata perduta la battaglia per la Tunisia, gli angloamericani si sarebbero avviati in Sicilia. In Tunisia venne mandato il generale Messe, già capace di fermare l’avanzata greca in Albania, verso Valona; poi venne inviato in Russia, dove comandò bene le truppe italiane. Quando nacque l’ARMIR, per quelle che Mussolini indicherà poi come gelosie di grado e di comando, Messe venne sostituito con il generale Gariboldi, pur se questi non si era particolarmente distinto nelle sue azioni in Etiopia e Libia.

Arrivato in Tunisia, Messe doveva organizzare uomini stanchi e sfiduciati, sempre con l’assillo dei rifornimenti che erano spesso improbabili, a causa dell’efficienza nemica nel e sul Mediterraneo: nel solo mese di aprile 1943 colarono a picco oltre 120mila tonnellate di navi italiane. La situazione del nemico era favorevole, invece, proprio per i pesanti rifornimenti che riceveva.

Mentre a Roma si disquisiva sull’attacco inglese della linea del Mareth, di 25 chilometri, Montgomery attaccò senza aspettare il plenilunio, attrezzando i fanti di teli bianchi affinché l’artiglieria li individuasse nel buio più assoluto. Gli inglesi non riuscirono a sfondare grazie alla resistenza delle truppe italiane, riparate da un fossato anticarro, quindi passarono ad attaccare la linea più debole, difesa da forze libiche poco attrezzate di artiglieria e di mezzi motocorazzati e non ben addestrate.

Anche i tedeschi venivano impegnati dalle forze angloamericane e sconfitti, sempre per scarsità di mezzi. In effetti, Rommel era riuscito a sbaragliare gli americani al passo di Kasserine per puntare a Tebessa, vittoria tattica che venne rallentata dai pareri di Von Arnim che pensava a manovre diverse, meno efficaci territorialmente, per andare direttamente a Tunisi. I ritardi nell’azione favorirono i nemici e costrinsero Rommel a evitare l’azione offensiva, che però riprese il 6 marzo. Gli inglesi, tuttavia, avevano messo in campo Ultra, la decifrazione super segreta dei messaggi, avvantaggiandosi nell’anticipare il nemico. Lo scontro avvenne a Médenine, con ottimo comportamento dei soldati italiani al comando di Messe, ma con risultati favorevoli agli inglesi.

Messe dovette arretrare di un centinaio di chilometri verso Tunisi, agevolando la manovra di accerchiamento del nemico e come si leggeva nella sua dettagliata relazione che a Roma sembrò un continuo elogio dei nemici, a sottolineare l’eroismo degli italiani. A questo punto, venne valutata la possibilità che Messe venisse preso prigioniero e si considerò se non fosse meglio riportarlo in Italia; secondo i più, doveva seguire la sorte dei propri soldati e rimanere lì, promosso però Maresciallo d’Italia, anche se il Re non gradiva l’idea di un così importante soggetto nelle mani del nemico. Il messaggio di onore di Mussolini arrivò il 12 maggio 1943 e l’indomani Messe si arrese senza l’onore delle armi che aveva chiesto. Dapprima non riconosciuto da Montgomery, che sperava di avere catturato Rommel, partito per Roma e poi alla volta della Germania, venne condotto con altri ufficiali a Wilton Park per saggiare se sarebbe stato possibile inviarli in Italia al comando degli Alleati che, nel frattempo, erano sbarcati in Sicilia. Quando gli inglesi si convinsero che Messe era fedele al Re, lo mandarono in Italia dove Vittorio Emanuele III lo nominò capo di Stato Maggiore della Difesa dell’Esercito Cobelligerante Italiano a fianco degli angloamericani, fatto che Mussolini giudicò tradimento, addirittura ipotizzando che le azioni in Africa fossero state un doppio gioco a favore del nemico con il quale, secondo lui, Messe aveva solidarizzato.

[1] Alessia Biasiolo è Membro Associato al CESVAM, professoressa, docente del Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea, Commendatore al Merito della Repubblica Italiana, Socio dell’Istituto del Nastro Azzurro