Il 27 gennaio è la data della liberazione di Auschwitz, il campo di concentramento e di sterminio dove vennero uccisi il padre ed i nonni di Liliana Segre e dove la senatrice a vita fu detenuta tra il 1944 e il 1945. Vogliamo ricordare il “Giorno della Memoria” con la sua ultima testimonianza pubblica a Rondine, un piccolo borgo in provincia di Arezzo

Entrai da sola, a tredici anni, nel reparto femminile del carcere di Varese: l’impronta digitale, la fotografia, come una delinquente comune. “Perché?” Era quel perché di quando mi avevano espulso dalla scuola, quel perché a cui nessuno sapeva o poteva dare una risposta. Perché non c’era una risposta. Poi fui prigioniera nel carcere di Como e in quello di San Vittore a Milano, dove fui di nuovo con mio papà nella cella 202 del V raggio che condividemmo per 40 giorni. Furono giorni importanti della mia vita, nei quali fui io a consolare mio padre.

Poi un giorno entrò un tedesco, lesse un elenco di più di seicento nomi, ci dovevamo preparare a partire il giorno dopo per ignota destinazione…Partimmo. Una fila di più di seicento persone, uomini, donne, bambini, vecchi. Un lento corteo silente, muto. Di quei seicentocinque siamo tornati in ventidue. A calci e pugni fummo caricati sui camion, attraversammo Milano: deserta, indifferente, con le finestre chiuse. Arrivati alla Stazione Centrale, lì dal binario 21, fummo stipati con estrema violenza sui carri bestiame. Fummo chiusi dentro il vagone sprangato. C’erano un po’ di paglia per terra e un secchio, che mi è rimasto molto impresso. Quando quaranta, cinquanta persone dentro un vagone non sanno dove andranno, e hanno terrore, hanno paura, quel secchio si riempie, deborda. Non c’era luce, non c’era acqua. C’era solo la vicinanza con quelli che amavi. Il viaggio verso il nulla durava circa una settimana…dopo aver visto paesaggi diversi, arrivammo in quella stazione artificiale che era stata preparata già da tempo per il nostro e per tutti gli altri treni che giunsero dall’Europa occupata dai nazisti.

Era il 6 febbraio 1944. Fummo obbligati a bastonate a scendere da quel convoglio spaventoso, sbalorditi, senza capire le diverse lingue che si mescolavano. Io non capivo niente, ero indietro come ragazzina, ero sciocca, terrorizzata. Rimanevo attaccata a mio papà senza comprendere che cosa ci stesse succedendo, mentre c’erano tutte queste persone appena arrivate e altri vestiti a righe, con la testa rasata, incaricati di dividere le famiglie.

Divisero gli uomini dalle donne. Io cercavo di fare dei sorrisini a mio papà. Quel momento era strano: nessuno poteva credere che sarebbe stato quel momento, nessuno lo voleva credere, ma era quel momento. E così io, chissà come mai – perché c’è una sorte e non perché avessi qualche dote particolare, se non che a tredici anni ero una ragazzona e me ne dettero sicuramente quindici o sedici -, fui scelta con altre trenta ragazze ebree italiane di quel trasporto. Tutte le altre, anziane, giovani, bambine, andarono al gas. E lo stesso successe agli uomini. Io vedevo da lontano mio papà, cercavo di mandargli ancora dei piccoli saluti, poi non lo vidi più. Non lo vidi mai più, ma allora non lo sapevo.

Ci fecero avviare, noi trenta donne, a piedi, senza renderci conto di dove eravamo. Io proprio non capivo, andavo dietro alle altre, delle quali ero la più giovane, ma anche loro non capivano. Avanzammo a piedi fino al cancello, quello da cui si entrava nel lager di Auschwitz-Birkenau. Una distesa di baracche, la neve per terra, decine di donne rasate, scheletrite, vestite a righe, che scavavano buche, che portavano pietre sulle spalle. Entrando lì pensai di essere impazzita, che ci fosse qualcosa che mi avesse tolto dal mio essere, dal mio essere quella che aveva abbracciato il papà mezz’ora prima, e che ora invece era in quel luogo pensato a tavolino, organizzato.

Entrammo nella prima baracca, noi con i nostri vestiti, così come eravamo scese da quel treno, e lì cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome. Per tutti noi il nome è una cosa importante. E lì, invece: “Dimenticate il vostro nome, non interessa a nessuno. Voi d’ora in poi sarete un numero». Un numero tatuato sul braccio, così ben fatto che dopo tanti anni il mio si legge ancora perfettamente: 75190. Poi fummo spogliate, rasate, svestite mentre passavano i soldati che sghignazzavano e ci guardavano con disprezzo. Ci tolsero tutto, non ci lasciarono un fazzoletto, un libro, una cartolina, una fotografia… Nulla della nostra vita precedente. Vestite con le divise a righe che non erano della nostra misura, zoccoli ai piedi e un fazzoletto in testa.

Ci guardavamo, ci guardavamo… Io non conoscevo nessuna delle altre trenta, ma immediatamente abbiamo dovuto riconoscerci. Ma perché ci capita questo, dove siamo? Nessuna, neanche quelle che avevano venticinque anni, massimo trenta. aveva capito. No, io non l’avevo capito che cos’era quel luogo che si vedeva in fondo al vialone centrale dell’enorme campo di Birkenau. Un edificio con la ciminiera, con il fumo o con il fuoco.

“Cos’è questo posto? Cos’è?”. Le prime prigioniere che incontrammo ci dissero: “Vedete là quel fuoco? Quelli che avete lasciato alla stazione sono già passati per il camino” “In che senso?” “Qui quelli che non lavorano vanno alla camera a gas e poi vengono bruciati nei forni». Guardavamo queste ragazze francesi non avevano l’aria delle pazze, ma ci dicevamo, noi appena arrivate: “Forse ci hanno messo in un manicomio”. Perché non era credibile, per una mente normale, non era possibile credere di essere arrivate in un posto così.

Cominciò la vita della prigioniera-schiava. Ebbi una grande fortuna, anche se certo non per le mie capacità. Divenni operaia-schiava nella fabbrica di munizioni Union. Fu una possibilità importante, infatti, uscire alla mattina dal campo: eravamo 750 donne di tutte le nazionalità, andavamo a piedi, obbligate a cantare canzoni tedesche, ma questo significava lasciare indietro la fiamma, le compagne in punizione, quell’atmosfera di terrore e orrore che era il lager. Significava camminare su una strada sentendo il rumore delle campane, la voce della gente che parlava nelle case, anche se non si affacciò mai nessuno a dirci “poverine”. Significava il lavoro-schiavo, che però ci dava almeno una ragione per passare la giornata.

Lì c’erano anche i prigionieri uomini. Il primo giorno vidi tra loro, che facevano lavori ancora più faticosi dei nostri, un ragazzo di Firenze che era nel mio trasporto, Aldo Sorani, uno dei pochi che ce l’hanno fatta ed è tornato. Subito gli chiesi: “Dov’è mio papà?”. E cominciai a domandarlo sempre: Dov’è mio papà? Dov’è mio papà? Poi non lo chiesi più. Conoscevo così bene la sua sensibilità, che dopo un po’ di tempo avevo capito che non l’avrei più rivisto. Però in quei primi tempi lo chiedevo, e lo chiedevo…

Lavoravamo tutto il giorno senza sapere l’orario perché nessuno di noi aveva un orologio, nessuno di noi poteva chiedere l’ora, nessuno di noi poteva chiedere niente. Poi tornavamo indietro, alla sera: la fiamma o il fumo, e capivamo, ormai lo sapevamo, se avevano già fatto il loro lavoro o se invece erano in azione. Com’è la notte del lager? Dormivamo per la stanchezza della giornata da operaie-schiave. Ci mettevamo le dita nelle orecchie per non sentire i rumori di notte, i fischi, i latrati, i pianti di quelli che andavano al gas.

Noi non volevamo sentire, non volevamo sapere. Giorno dopo giorno diventavamo più egoiste. Io non mi voltavo a guardare i mucchi dei cadaveri fuori dal crematorio, pronti per essere bruciati. Non mi fermavo a guardare le compagne in punizione, non volevo vedere. Avevo trovato dentro di me qualcosa che mi estraniava. Non volevo essere 1ì. Bisognava astrarsi, togliersi col pensiero, se si voleva vivere.

Io ho scelto la vita, anche se sono sopravvissuta per caso. Tutte sceglievamo la vita, la vita, la vita! Sognare di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una nuvola, una qualsiasi cosa bella. Ma in questo estraniarsi da quel luogo di morte, nel cercare di fare un passo davanti all’altro, di non guardarsi intorno, si finiva per diventare egoiste, monadi vaganti in quel posto terribile costruito per noi.

Tre volte superai la selezione nell’anno che trascorsi lì. Cos’era la selezione? Le kapò, che erano tremende, ci chiudevano nella baracca e si usciva a gruppi di cinquanta o sessanta. Si andava nella sala delle docce, quella vera. E lì, nude attraversavamo un corridoio, ognuna col suo corpo diventato orribile; in fondo c’era un piccolo tribunale: tre uomini, due militari e quel dottor Josef Mengele. Di fronte a loro, ciascuna donna, sola, veniva guardata davanti, dietro, in bocca, per vedere se poteva ancora lavorare. E poi c’era quel cenno del capo, quel gesto che Mengele, faceva senza una parola per dire che potevamo ancora lavorare. Che bontà avermi lasciata viva ancora quel giorno! Fu lì, però, proprio in uno di quei momenti, che io fui orribile. E non me lo sono mai dimenticato.

Alla Union trasportavo pezzi di ferro con cui le operaie facevano bossoli per le mitragliatrici. La mia referente, l’operaia da cui dovevo andare avanti e indietro, per un certo periodo fu una ragazza francese di nome Janine, più grande di me forse di una decina d’anni. Un giorno il macchinario che tranciava il ferro le tagliò le falangi di due dita di una mano. E quando fummo chiamate alla selezione lei, terrorizzata, trovò uno straccio con cui coprì le due dita, ma se si è nudi lo straccio si nota. Sentii che la fermavano, che la scrivana prendeva nota del suo numero sul braccio: non serviva più, andava al gas. E io, io che ero appena passata e che tutti i giorni lavoravo con lei, non mi voltai. Io non mi voltai. Non accettavo più distacchi. Così ero diventata.

Nel gennaio 1945, dopo un anno che ero stata deportata, cominciammo a sentire rumori di aerei sopra la fabbrica. Non era mai successo prima, erano aerei russi. Noi non sapevamo come stesse andando la guerra, non sapevamo niente di quello che stava succedendo in Europa.

Qualcuno mi chiede: “Ha perdonato?” No, non ho questa forza. E non ho dimenticato. Certe cose io non riesco, e non sono riuscita mai a perdonarle.

Cominciarono ad avvicinarsi i russi. Noi intanto, in fabbrica, venimmo a sapere che da un minuto all’altro saremmo dovute partire verso altri luoghi, proprio per l’avanzare dell’Armata Rossa. E, così come eravamo, ci fu detto di prepararci alla marcia. La marcia della morte. Eravamo denutrite, scheletrite, ma fummo obbligate a camminare per centinaia di chilometri e per diversi mesi. I russi arrivarono il 27 gennaio ad Auschwitz, però la guerra non era finita, in Europa sarebbe durata fino all’inizio di maggio

Fu una fatica terribile. Selvagge, ci buttavamo sopra i letamai, con le bocche sporche a frugare lì dentro. Com’è la fame? La fame porta via il cervello. Durante la marcia forzata, incontrammo un cavallo morto. Già alcune di noi, con le unghie e con i denti, con qualunque cosa trovata lì, avevano cominciato a mangiare la sua carne cruda. E anch’io lo feci, io che amavo così tanto i cavalli. Accadde perché quell’animale era importante per noi che avevamo fame: trovammo questa carne e, ogni volta che la mandavamo giù, sentivamo nel nostro corpo defraudato l’impulso che ci dava quel cibo. Eravamo orribili, molto peggio di quel cavallo. Eravamo morte dentro, ma volevamo vivere. Quella marcia, durata così tanto, ci fece incontrare letamai e cavalli morti, ma mai persone. Attraversammo paesi, città, però nessuno neanche stavolta aprì una finestra.

Ci spostarono in diversi lager, tutti luoghi di tristezza, di tragedia continua, finché arrivammo all’ultimo campo, nel nord della Germania. In quel momento non sapevo dove fossi, avevo camminato ma non mi rendevo conto quanto. Nell’ultimo lager, che si chiamava Malchow, non si lavorava più, non si mangiava quasi mai, non sentivamo più niente. Se non fosse finita la guerra non ci sarebbe stato bisogno di ucciderci perché saremmo morte di debolezza. Ma in questo campo successe una cosa straordinaria. Era piccolo, e al di là del filo spinato si vedeva il prato, gli alberi, la primavera. Passavano di lì quasi tutti i giorni alcuni ragazzi francesi. Erano prigionieri di guerra diventati contadini nelle fattorie tedesche, giovanotti in carne, non scheletriti come noi. Ci vedevano e gridavano da fuori dal campo: “Qui êtes-vous?”, “Chi siete?”. E noi, con la fatica che facevamo a parlare rispondevamo in coro: “Siamo ragazze ebree”. Ebbero pietà. fu un nettare sentirci dire “poverine”, mentre finora ci erano state rivolte solo parole orribili, tremende, rivolte a noi colpevoli d’essere nate. Questi ragazzi francesi invece ci dicevano: “Non morite, non morite proprio adesso. La guerra sta per finire, i tedeschi la stanno perdendo. Arrivano gli americani da ovest, i russi da est”. E noi? Eravamo abituate all’orrore, ai lutti, alle perdite, alle malattie non curate, alla nostra tristezza che non interessava a nessuno “È questione di pochi giorni, non morite”‘

Arrivò l’ordine di andare via anche da Malchow. Ma come potevamo? Eravamo quelle di gennaio, le prigioniere della marcia della morte, erano mesi che non mangiavamo niente’ eravamo annullate, soggetti senza volontà, senza più senso. Ma ci rimettemmo su quella strada, su quella strada tedesca dove nessuno ci aveva mai dato nulla. E toccavamo le foglie. Mi ricordo che ne strappai una da un ramo e me la misi in bocca. I denti già cominciavano a muoversi per la piorrea, era difficile masticare e allora succhiai quella foglia, la clorofilla, che non avevo mai più sentito.

Non era facile trovare ancora la forza di camminare per non morire. Ma fu questione di pochissimo perché di colpo capitò una cosa incredibile, che non avremmo mai immaginato di vedere. Le nostre guardie iniziarono a mettersi in borghese e a mandare via i cani, quei poveri cani, di cui poi avrei avuto paura tutta la vita, quei cani addestrati a uccidere. Ma i cani tornavano perché erano abituati all’obbedienza cieca. Le guardie buttavano via i vestiti, avevano paura di noi. E in quel momento anche i civili uscirono dalle case. Caricavano tutto quello che avevano e che era possibile trasportare su carri e carriole: quella parte della Germania sarebbe stata per anni sotto il dominio comunista forse l’avevano capito e volevano andare dall’altra parte.

Allora successe un’altra cosa incredibile. Era il 1° maggio. Mi camminava vicino il comandante dell’ultimo campo. Era un uomo crudele, aveva un nerbo di bue che portava con sé e con cui distribuiva nerbate a noi che eravamo ormai quasi insensibili. Era un uomo alto, elegante. Buttò via la divisa. Si mise in mutande. Era vicino. Non mi aveva mai considerato, né me né alcuna altra prigioniera, per lui non esistevamo. Ma io sì che avevo osservato lui, con terrore. Buttò per terra anche la pistola. E io, che non ero quella che sono oggi, che mi ero nutrita di odio e di vendetta, che lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno ero diventata un’altra, un essere insensibile, quello che loro volevano che io diventassi, pensai: “Adesso raccolgo la pistola e gli sparo». Fu un attimo. Un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita. Capii che mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino.

Non ho raccolto quella pistola e da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso.

Da “Il Corriere della Sera”