L’eccidio di Kindu avvenne l’11 o il 12 novembre 1961 a Kindu, nell’ex Congo belga, dove furono trucidati tredici aviatori italiani, facenti parte del contingente dell’Operazione delle Nazioni Unite in Congo inviato a ristabilire l’ordine nel paese sconvolto dalla guerra civile. I tredici militari italiani formavano gli equipaggi di due C-119, bimotori da trasporto della 46ª Aerobrigata di stanza a Pisa.
I due equipaggi italiani operavano da un anno e mezzo nel Congo, e il 23 novembre del 1961 dovevano rientrare in Italia. La mattina di sabato 11 novembre 1961 i due aerei decollarono dalla capitale Leopoldville per portare rifornimento alla piccola guarnigione malese dell’ONU che controllava l’aeroporto poco lontano da Kindu, ai margini della foresta equatoriale. La zona era sconvolta da mesi dal passaggio delle truppe di Gizenga provenienti da Stanleyville e dirette nel Katanga, reparti improvvisati i cui componenti erano spesso ubriachi, indisciplinati e dediti alle ruberie ai danni della popolazione locale; il 25 settembre precedente era morto Raffaele Soru, un volontario della Corpo militare della Croce Rossa Italiana rimasto ferito a morte proprio a Kindu nel corso di scontri tra ribelli e soldati. Gli aerei italiani si dovevano fermare a Kindu solo per il tempo di scaricare e, per gli equipaggi, di mangiare qualcosa. I due C-119 comparirono nel cielo della cittadina poco dopo le 14:00, e dopo aver fatto alcuni giri sopra l’abitato atterrarono all’aeroporto controllato dai malesi. Da vari giorni in città vi era un’agitazione maggiore del solito: fra i duemila soldati congolesi di Kindu si era sparsa la voce che fosse imminente un lancio di paracadutisti mercenari al soldo del regime di Ciombe, e da tempo le truppe di Gizenga che operavano nel nord del Katanga, 500 chilometri più a sud di Kindu, erano sottoposte a bombardamenti dagli aerei katanghesi.
La vista dei due aerei italiani, scambiati per velivoli katanghesi carichi di paracadutisti, scatenò la reazione incontrollata dei soldati di stanza a Kindu: diverse centinaia di congolesi si recarono in camion all’aeroporto dove in quel momento i tredici uomini degli equipaggi italiani, comandati dal Maggiore Parmeggiani, si trovavano alla mensa dell’ONU, una villetta distante un chilometro dalla pista, insieme a una decina di ufficiali del presidio malese. Intorno alle 16:15 i congolesi fecero irruzione nell’edificio, dove italiani e malesi, quasi tutti disarmati, si erano riuniti: circa 80 soldati congolesi sopraffecero rapidamente gli occupanti della palazzina e li malmenarono duramente, accanendosi in particolare contro gli italiani scambiati per mercenari belgi al soldo dei katanghesi; il Tenente medico Francesco Paolo Remotti tentò di fuggire lanciandosi da una finestra aperta, ma fu rapidamente raggiunto dai congolesi e subito ucciso. Intorno alle 16:30 arrivarono altri 300 miliziani congolesi guidati dal comandante del presidio di Kindu, un certo Colonnello Pakassa: il comandante malese, Maggiore Maud, tentò inutilmente di convincerlo che gli aviatori erano italiani dell’ONU e alle 16:50 i dodici italiani, costretti a trasportare con loro il corpo di Remotti, furono caricati a forza sui camion e portati in città, per poi essere rinchiusi nella piccola prigione locale. Mentre il Maggiore Maud e il suo vice discutevano se fosse meglio trattare il rilascio pacifico degli italiani o tentare un’azione di forza per liberarli, quella notte giunsero all’aeroporto di Kindu da Leopoldville il Generale Lundula e alcuni funzionari della ONUC: il gruppo cercò di contattare il comando del presidio per avviare un canale di trattative, ma il tentativo fallì e il Generale ebbe l’impressione che gli Ufficiali congolesi avessero ormai perso del tutto il controllo sui loro uomini.
Quella notte, soldati congolesi fecero irruzione nella cella dove erano detenuti i dodici aviatori italiani e li uccisero tutti a colpi di mitra; abbandonati i corpi sul posto, questi furono spostati poche ore dopo dal custode del carcere che, temendone lo scempio, li trasportò con un camion nella foresta fuori città e li seppellì in una fossa comune. Per giorni non si seppe nulla della sorte degli aviatori, e lo stesso comando delle truppe ONU temporeggiò per evitare di scatenare una rappresaglia contro gli italiani senza sapere che questi erano già stati uccisi. Solo alcune settimane dopo l’eccidio il custode del carcere si mise in contatto con i fratelli Arcidiacono, due italiani residenti da tempo a Kindu: questi riuscirono a ricostruire le circostanze dell’eccidio e a contattare le autorità ONU per predisporre il recupero delle salme. Nel febbraio del 1962 quindi un convoglio della Croce Rossa austriaca, scortato da un contingente di caschi blu etiopi e accompagnato da due ufficiali della 46ª Aerobrigata (il Tenente Colonnello Picone e il Maggiore Poggi), rinvenne la fossa comune dove erano stati seppelliti gli italiani nel cimitero di Tokolote, un piccolo villaggio sulle rive del Lualaba ai margini della foresta: i corpi, protetti da una grossa crosta di argilla, erano ancora in buono stato di conservazione e furono facilmente identificati. Trasportati all’aeroporto di Kindu, furono imbarcati su un C-119 italiano e inviati a Leopoldville, da dove rientrarono in Italia a bordo di un C-130 statunitense. Le circostanze esatte dell’uccisione rimasero a lungo confuse, con varie voci che sostennero che l’eccidio fosse avvenuto con la partecipazione o comunque davanti alla popolazione civile locale, o che i corpi degli italiani fossero stati mutilati in vario modo; la ricostruzione dei fatti in seguito al ritrovamento delle salme smentì gran parte di questi dettagli.
I tredici aviatori trucidati a Kindu furono:
• Onorio De Luca, 25 anni, di Treppo Grande (UD) – Sottotenente pilota;
• Filippo Di Giovanni, 42 anni, di Palermo – Maresciallo motorista;
• Armando Fausto Fabi, 30 anni, di Giuliano di Roma (FR) – Sergente Maggiore elettromeccanico di bordo;
• Giulio Garbati, 22 anni, di Roma – Sottotenente pilota;
• Giorgio Gonelli, 31 anni, di Ferrara – Capitano pilota e vicecomandante;
• Antonio Mamone, 28 anni, di Isola di Capo Rizzuto (KR) – Sergente Maggiore marconista;
• Martano Marcacci, 27 anni, di Collesalvetti (LI) – Sergente elettromeccanico di bordo;
• Nazzareno Quadrumani, 42 anni, di Montefalco (PG) – motorista;
• Francesco Paga, 31 anni, di Pietralcina (BN) – Sergente marconista;
• Amedeo Parmeggiani, 43 anni, di Bologna – Maggiore pilota e comandante dei due equipaggi;
• Silvestro Possenti, 40 anni, di Fabriano (AN) – Sergente Maggiore montatore;
• Francesco Paolo Remotti, 29 anni, di Roma – Tenente medico;
• Nicola Stigliani, 30 anni, di Potenza – Sergente Maggiore montatore.
Nel 1994 fu riconosciuta alla loro memoria la Medaglia d’Oro al Valore Militare; solo nel 2007 i parenti delle vittime ottennero una legge sul risarcimento. Un monumento ai caduti di Kindu si trova all’ingresso dell’aeroporto internazionale Leonardo da Vinci, a Fiumicino; un altro è stato eretto a Pisa. A Milano, alla memoria delle vittime di Kindu è dedicato il giardino di piazza Francesco Guardi, in zona Città Studi. Dopo l’eccidio, i piloti e gli assistenti di volo uomini dell’Alitalia, pretesero che la loro divisa fosse dotata della cravatta nera in luogo della precedente blu, in segno di lutto per i 13 aviatori uccisi. Tuttavia, nel giugno del 2015 la dirigenza Alitalia, in un quadro di rinnovamento d’immagine dell’azienda, ha deciso di sostituire la cravatta degli assistenti di volo con una più vivace fantasia regimental, mentre i piloti continuano a indossare la classica cravatta nera d’ordinanza.