
Progetto 2022/1 Contributo di Ricerca
Tra il settembre del 1982 ed il febbraio del 1984, nell’ambito della Prima Guerra Libanese e successivamente al massacro di Sabra e Shatila a Beirut, l’Italia mandò in Libano un contingente italiano che, insieme ai contingenti americano e francese nell’ambito della “Forza Multinazionale in Libano”, si ponevano l’obiettivo di creare una forza di interposizione per evitare nuove stragi di civili.
Infatti questa forza appariva la sola in grado di impedire altri bagni di sangue e così a Beirut venne messo a punto l’accordo tra il governo libanese e quelli italiano, francese e americano per l’invio dei soldati.
Da sottolineare che fu formalmente il Libano a richiederlo per restaurare la propria sovranità e autorità nella zona di Beirut assicurando così la sicurezza degli abitanti e mettendo fine alla violenza. Ogni contingente avrebbe operato quindi sotto la propria bandiera nazionale, non ci sarebbe stato un comando unificato ma i contingenti sarebbero stati autonomi, dal tipo di impiego delle truppe al coordinamento tra essi e l’esercito regolare libanese. Inoltre non era previsto l’impiego in combattimento salvo che non fosse necessario per l’assolvimento della missione in appoggio alle forze armate del governo libanese ed in caso di legittima difesa.
Riguardo i settori di competenza i francesi, senza considerare la linea verde che divideva in due la città con la parte cristiana ad est e quella mussulmana ad ovest, chiesero l’intera zona urbana. Gli americani chiesero di schierarsi nei pressi dell’aeroporto internazionale occupando anche una testa di ponte sul litorale.
Gli italiani accettarono il settore centrale posto tra quello francese e quello americano quindi nella stessa zona dove il “Governolo” aveva operato nella “Libano 1”, ancorché in una più ampia area di responsabilità. Nel suo complesso il settore italiano aveva un perimetro di circa 30 Km che comprendeva i due campi palestinesi di Chatila e Borj El Brajnè, abitati da circa 24.000 persone delle quali il 95% erano sciiti.
Il giorno 26 settembre sbarcò la prima aliquota del contingente italiano, i paracadutisti presero posizione sul molo per mettere in sicurezza lo sbarco del btg. San Marco che subentrerà ai paracadutisti per la protezione degli arrivi successivi.
Il giorno successivo 27 settembre sbarcò il resto del contingente. Inizialmente il 2° btg. bersaglieri “Governolo” fu schierato a Borj El Brajne a protezione dei suoi 15.000 abitanti, allo scopo di evitare altri massacri. Il 26 ottobre, la responsabilità del campo venne assunta dai reparti della “Folgore”, mentre i Bersaglieri ebbero il compito della protezione del campo di Chatila dove rimasero fino al termine della missione.
Venne predisposta l’attività’ operativa da svolgere mediante presidi fissi di ceck points, posti di osservazione, pattugliamenti e rastrellamenti.
Per quanto riguarda lo schieramento logistico del contingente, per il btg. Bers, ed il btg. Logistico fu scelto un vasto piazzale che aveva alla spalle un villaggio sciita, su un fianco un edificio moderno e sull’altro un bosco di pini. Il posto era relativamente facile da difendere ed aveva anche lo spazio per l’ospedale militare che sarebbe arrivato a breve.
I paracadutisti trovarono sistemazione in una scuola tenuta da suore sulle pendici delle colline che portavano al palazzo presidenziale di Baabda. Erano così schierati in posizione tale che, quale riserva del raggruppamento, in caso di bisogno sarebbero potuti intervenire dall’esterno.
Il comando del contingente trovò sistemazione in una palazzina che si trovava a trecento metri dal piazzale del contingente.
Il btg. San Marco trovò una sistemazione “definitiva” solo dopo un mese in una palazzina posta vicino alla Città sportiva, dietro a Chatila e verso il mare.
Con l’arrivo il giorno 13 ottobre dell’ospedale da campo con i medici, le infermiere volontarie della Croce Rossa e le attrezzature fu completato lo schieramento del contingente (appendice I). Due ambulanze sarebbero state impiegate nei campi palestinesi, posizionate durante il giorno una a Chatila ed una a Borj el Baraineh per interventi sul posto. L’ospedale sarebbe dovuto servire per i militari ma vi fu una continua richiesta all’ingresso dove si accalcavano palestinesi e libanesi che chiedevano di essere visitati e curati ed allora l’ospedale fu aperto a tutti. Sarà questa la prima attività di cooperazione tra civili palestinesi e militari italiani attraverso il soccorso sanitario.
Come detto l’attività’ operativa nei campi, subito messa in atto, era organizzata con posti fissi posizionati in punti strategici sui tetti di case con una protezione fornita da sacchi di sabbia. Vi erano poi posti mobili con VCC e squadra a bordo mentre gli ufficiali giravano per il campo con le campagnole tra posti fissi e mobili. I turni di servizio prevedevano 12 ore di guardia e 24 di riposo e addestramento.
Il primo periodo di ambientamento fu abbastanza duro, ricordiamo che i nostri militari erano di leva e l’impatto iniziale con la realtà di una Beirut devastata dalla guerra civile, soprattutto nei campi palestinesi, fu sconcertante. La prima cosa che i paracadutisti che per primi entrarono a Chatila videro fu la fossa comune dove ancora venivano portati i cadaveri del massacro avvenuto nel campo palestinese e poi l’odore dolciastro dei morti.
Nei primi giorni di ottobre il governo libanese aveva dato il via ad una vasta operazione di polizia e in pochi giorni erano state arrestate circa 1500 persone di ogni cittadinanza e colore politico, compresa gente profuga
dalla Palestina.
Il Governo italiano prese una posizione ferma contro gli arresti e fu notificato ufficialmente al presidente Gemayel e al suo primo ministro Wazzan che non sarebbe stata accettato il protrarsi di una situazione contraria allo stato di diritto. Nonostante gli accordi presi con le autorità, le forze libanesi chiesero al contingente di partecipare ai loro rastrellamenti e di essere affiancati in operazioni di polizia, cosa che mai avvenne.
Come ribadito loro, la missione della forza multinazionale era quella di assistere il governo e le sue truppe per ristabilirne la sovranità, garantire l’incolumità’ della gente dei campi e mettere fine alla violenza. Così nei quartieri di Beirut ovest sotto controllo italiano non solo non si prese parte ai rastrellamenti ma si evitò che le persone coinvolte fossero bendate e maltrattate. Dopo un certo periodo i libanesi non insistettero più nella richiesta.
Gli stessi problemi si ebbero con gli israeliani che inizialmente non avevano abbandonato completamente Beirut e sovente cercavano di entrare nei settori destinati alla forza multinazionale.
Gli israeliani inoltre pattugliavano la strada che da Beirut portava a Damasco e passava vicino alle postazioni italiane e periodicamente vi era qualcuno che lanciava granate sui loro mezzi. La risposta degli israeliani era immediata e sbrigativa ovvero sparare a 360 gradi con tutte le armi di bordo. I nostri militari dovevano allora stare al coperto per non essere colpiti.
La missione della forza Multinazionale e’ stata nella realtà più difficile di quanto immaginato. Pur essendo abituati a operare in ambienti addestrativi/operativi in Patria, durante i campi, le esercitazioni e le attività addestrative svolte per acquisire e mantenere la necessaria capacità operativa per l’impiego, l’impatto con la realtà di Beirut fu notevole ed anomalo. Notevole per via delle condizioni di degrado che lo differenziavano in maniera netta da quello abituale e familiare in patria, ed anomalo per via della coesistenza di due diverse realtà che si alternavano senza soluzione di continuità, rappresentate da quella vissuta all’interno del campo e da quella esterna, a contatto con la realtà di una città distrutta. La prima realtà sufficientemente sicura in quanto vissuta all’interno di una struttura protetta da una serie di misure atte a garantire (per quanto possibile) l’incolumità del proprio personale cadenzata da attività necessarie e propedeutiche per “affrontare” la seconda; quest’ultima, ovviamente ad alto rischio,condotta in ambiente potenzialmente ostile, si prefiggeva l’obiettivo di proteggere o comunque di intervenire a favore della popolazione locale, laddove necessario, in aderenza a precise regole di ingaggio, ovvero a specifiche linee guida estrapolate dalla generale missione attribuita al Contingente Italiano. È ovvio ma comunque necessario ricordare, a tal proposito, che le regole d’ingaggio, per quanto dettagliate, non possono prendere in esame tutto ciò che può accadere nella realtà; infatti seppur esse rappresentano un valido aiuto, in situazioni che possiamo definire “impreviste” è l’esperienza e la capacità dei Comandanti, unitamente all’intesa con i propri uomini, che fanno la differenza.
I primi tre o quattro mesi furono un periodo relativamente tranquillo pur essendoci una violenza sempre crescente tra le diverse comunità religiose, che non coinvolgeva ancora il settore italiano. Per i militari in turno di riposo era prevista una libera uscita in gruppi di 20 per battaglione e la possibilità sempre a turno ed in gruppi ridotti di potere passare due giorni a Larnaka. A dicembre del 1982 da Roma venne inviato un tendone da utilizzare per proiezioni cinematografiche e spettacoli.
La situazione andò peggiorando e il 15 marzo, mentre nel tendone si teneva uno spettacolo con Walter Chiari, un agguato colpì i militari italiani. Due campagnole del San Marco, con 12 militari a bordo, che pattugliavano la strada dell’aeroporto furono attaccate da terroristi che lanciarono due razzi rpg e contemporaneamente aprirono il fuoco con armi leggere. Uno dei razzi colpì la seconda campagnola forando portiera e serbatoio e causando 3 feriti, di cui due gravi, che vennero portati all’ospedale militare.
Sul posto, oltre i soccorsi, arrivò una pattuglia degli incursori per un rastrellamento dell’area ma subirono anche loro un agguato e tre rimasero feriti, uno con un piede staccato di netto. Tutti i feriti vennero trasportati all’ospedale da campo.
Il Marò Filippo Montesi, colpito alla spina dorsale, dopo essere stato trasportato a Roma per essere sottoposto ad intervento chirurgico ,a causa dell’aggravamento delle sue condizioni, il giorno 22 muore.
Con l’agguato del 15 marzo fu chiaro che la situazione nei confronti della forza multinazionale stava cambiando.
Due giorni dopo, nel campo di Chatila, vicino ad una postazione fissa, alle 3 di notte vengono sparate raffiche di mitra e lanciata una bomba a mano verso una campagnola in attività di pattuglia, i militari italiani risposero al fuoco ma uno di essi rimase ferito. Contemporaneamente vi furono altre raffiche contro due postazioni, una posizionata all’ingresso del campo di fronte alla fossa comune ed una che si trovava di fronte all’ambasciata del Kuwait dove rimase ferito, in modo non grave, un bersagliere.
La stessa notte, da un edificio in costruzione di fronte all’ospedale militare, miliziani spararono verso la polveriera e contro la palazzina dove alloggiavano gli ufficiali medici. I bersaglieri di guardia aprirono il fuoco, la sparatoria durò mezz’ora.
Nei giorni seguenti anche soldati francesi e americani subirono attacchi che provocarono alcuni feriti.
A questi attacchi alla forza multinazionale seguì una escalation della violenza tra le diverse fazioni religiose.
La situazione politica libanese era sempre più tesa e con la mancata riconciliazione nazionale la guerriglia tornava ad essere protagonista.
Il 18 aprile un attentato suicida colpì l’ambasciata degli Stati Uniti di Beirut uccidendo 32 libanesi, 17 statunitensi e 14 visitatori e passanti e ferendone 120. Le vittime erano quasi tutte membri dello staff dell’ambasciata e della CIA, ma includevano anche diversi soldati statunitensi e una guardia di sicurezza della marina degli Stati Uniti.
L’autobomba fu fatta esplodere da un attentatore suicida alla guida di un furgone pieno di circa 910 kg di esplosivo.
Il contingente italiano venne messo in allarme e vennero aumentate le misure di sicurezza e protezione, ma le attività operative continuarono.
Sulle montagne dello Chouf le artiglierie druse iniziarono a sparare sulle basi dei falangisti e dell’esercito regolare.
Il 5 maggio , colpi di artiglieria colpiscono il corteo del Presidente Gemayel che si salvò. I siriani sparavano con le artiglierie contro le postazioni dell’esercito regolare che risposero al fuoco. Colpi caddero ai margini del campo di Chatila provocando tra i palestinesi una decina di morti ed un certo numero di feriti. Per una settimana continuò il fuoco delle artiglierie delle diverse fazioni.
I bombardamenti continuarono poi per tutto il mese di luglio e alla fine di agosto riprese con violenza la guerra civile. I militari italiani nei giorni in cui i colpi di artiglieria cadevano vicino alle postazioni e alle caserme continuarono le loro attività di pattugliamento e controllo dei campi dimostrando sangue freddo e disciplina. Per quattro giorni consecutivi fu battaglia nella zona ai limiti del settore italiano che fortunatamente provocò solo qualche ferito non grave. Sul settore italiano caddero granate da 155 mm. , colpi di mortaio e razzi che danneggiarono due container, alcune tende furono distrutte, fortunatamente i militari non in servizio si trovavano nei rifugi.
I combattimenti si intensificarono in tutta Beirut e gli sciiti attaccarono il palazzo della televisione libanese difesa da reparti dell’esercito libanese che furono costretti a ripiegare. Le milizie sciite di Amal, uscite dai loro quartieri, occuparono buona parte di Beirut ovest con una guerriglia urbana portata casa per casa. Intervennero reparti dell’esercito libanese, richiamati da Beirut est, che ben presto riuscirono ad occupare i principali assi stradali e quindi controllare la parte ovest. Gli sciiti di Amal arroccati nei quartieri di Chirah, Ghobeire e Haret Hreik li fortificano con barricate, trincee e bunker e da lì non andarono più via.
Il 22 settembre un bombardamento delle artiglierie druse diretto ai quartieri cristiani colpisce il deposito munizioni della Folgore distruggendolo. Il deposito era stato posto in un avvallamento circondato da terrapieni, per fare in modo che una eventuale esplosione si sarebbe diretta verso l’alto evitando di investire l’edifico della Folgore e questo fece si che non ci furono vittime.
Dalla metà di ottobre aumentarono gli attentati contro le truppe francesi ed americane e la tensione crebbe fino agli attacchi terroristici del 23 ottobre.
Alle sei del mattino nella parte sud di Beirut si sentì una forte esplosione ed una colonna di fumo si alzò dalle parti della caserma dei marines. Un camion pieno di esplosivo dopo avere oltrepassato il filo spinato che si estendeva intorno al parcheggio puntò all’edificio principale, passando attraverso due posti di guardia irruppe nell’ingresso e una volta dentro venne fatto esplodere. La palazzina di 4 piani si accartocciò su sé stessa con un bilancio finale di 241 marines morti.
Pochi minuti dopo, a Beirut Ovest, un identico attentato venne compiuto contro la caserma dove risiedevano i paracadutisti francesi. Anche qui un camion carico di esplosivo, dopo aver superato il posto di guardia ed essere arrivato al garage sotterraneo del palazzo era esploso, provocando la morte di 58 paracadutisti francesi.
Il comando del contingente italiano mandò subito il plotone del genio in aiuto per i primi soccorsi, con un leopard attrezzato per la rimozione delle macerie. Attorno quello che restava della palazzina era il caos ed era necessario cercare di salvare chi era ancora vivo ed i nostri genieri avevano l’esperienza dei soccorsi dopo il terremoto in Irpinia. Per tre giorni lavorarono ininterrottamente fino a quando non rimasero più vivi da salvare ma solo corpi da estrarre.
Anche un plotone di bersaglieri del Cernaia venne mandato sul luogo dell’attentato alla caserma francese per aiutare a cercare tra le macerie chi era ancora vivo.
I bersaglieri inviati nel luogo dell’attentato, tratto dalla compagnia in turno di riposo, erano arrivati a Beirut solo pochi giorni prima e si trovarono davanti una scena straziante. Senza tentennamenti aiutarono a tirare fuori i morti o quello che era rimasto di loro, li ho visti personalmente con gli occhi lucidi e lo stomaco sottosopra ma non si tirarono mai indietro, un esempio di forza e carattere.
Dopo i due attentati alle caserme degli americani e dei francesi fu elevato il livello di sicurezza, attorno alle basi si alzarono barriere di terriccio scavati nuovi rifugi e ad ogni ingresso delle basi furono realizzate delle chicanes con percorso obbligato.
Nonostante le nuove e più rigide misure di sicurezza il contingente continuò ad espletare i propri compiti nei campi palestinesi con i circa duecento militari che montavano di guardia con continuità.
Il 4 novembre arrivò in visita al contingente il Presidente della Repubblica Sandro Pertini che dall’aeroporto venne portato nel tendone dove era radunato il personale non in servizio in rappresentanza di tutti i reparti, compresi marinai delle navi che incrociavano al largo della costa. Ai militari ed alle infermiere volontarie si aggiunsero gli italiani che si trovano a Beirut.
Dopo avere visitato l’ospedale militare e pranzato in mensa con un centinaio di militari, nonostante il suo seguito gli suggerisse di rientrare subito a Roma, chiese di visitare tutti i reparti e la città di Beirut. Con le campagnole e la scorta degli incursori andò a Chatila, alla città morta e vicino la linea verde. Nel pomeriggio dopo avere salutato il contingente riprese l’aereo che lo riportò a Roma.
Intanto la situazione a Beirut diventava sempre più tesa con un moltiplicarsi degli scontri, il 4 dicembre aerei americani partiti dalla nave Indipendence bombardarono le caserme dei siriani e dei drusi sulle montagne dello chouf. A Beirut gli sciiti, appoggiati dai drusi che si trovavano sulle colline, attaccarono la base degli americani che risposero con il fuoco delle artiglierie e delle batterie navali della flotta USA.
Nella parte meridionale della città dilaga la battaglia, il giorno 6 dicembre i settori americani ed italiano finirono sotto il tiro delle artiglierie e del fuoco di armi portatili, due paracadutisti furono feriti da proiettili vaganti e nel piazzale del logistico furono colpiti due sottufficiali che andavano verso il rifugio.
Il 14 dicembre la corazzata New Jersei fece fuoco con le sue batterie da 406 mm contro postazioni antiaeree siriane nell’entroterra di Beirut, che alcuni giorni prima avevano abbattuto due A-6 Intruder della Marina USA.
Nel settore italiano giorno e notte si sentivano spari e si vedevano i lampi delle esplosioni, i militari dovevano stare attenti non solo ai colpi vaganti ma anche al tiro dei cecchini.
Il quartiere di Ghobeire, che si trovava di fronte le postazioni dei bersaglieri era ormai fortificato, con gli sciiti di Amal che lo presidiavano.
Il 24 dicembre senza preavviso i francesi abbandonano Sabra, la notizia arrivò al comando del contingente dai militari della postazione 22 posizionata a nord-est del settore sulla linea che separava i due campi. Nella zona abbandonata dai francesi vi era una posizione sopraelevata, una scuola, dalla quale era possibile controllare sia le stradine interne ai campi sia l’Avenue Nasser, da lì e’ possibile arrivare al mare e spezzare la città in due. L’esercito libanese prese possesso della zona lasciata libera e gli sciiti aprirono il fuoco per cercare di riconquistare la scuola, con il pericolo che gli scontri coinvolgessero i bersaglieri di guardia a Chatila. La battaglia si faceva sempre più accesa ed alla postazione 22 arrivarono in rinforzo due campagnole con fanti di marina del San Marco ma ormai quasi tutte le postazioni erano sotto il fuoco incrociato rendendo impossibile dar loro il cambio. Caddero colpi di mortaio, rpg ma non sparavano solo in città, sparavano anche le artiglierie dalle montagne da postazioni druse e siriane.
L’esercito libanese cercò di approfittare della situazione mettendosi al riparo delle postazioni italiane per fare fuoco sugli sciiti che rispondevano incuranti dei nostri militari che si trovavano in mezzo. I bersaglieri con fermezza fecero allontanare i libanesi che in parecchie occasioni cercarono anche di prendere le loro posizioni.
Dopo la mezzanotte del 25 dicembre una colonna di 4 M113 del Cernaia riuscì ad entrare a Chatila per dare il cambio alle postazioni 23 e 24, poi arrivata alla 25 dovette fermarsi, proiettili di artiglieria cadevano attorno ai mezzi ed alla postazione, non era possibile andare avanti.
La battaglia durò tre giorni e solo il 27 dicembre si riuscì ad effettuare tutti i cambi, i bersaglieri e i fanti di marina che si trovavano nella postazione 22 rimasero sotto il fuoco per 36 ore. Furono giorni terribili ma il contingente aveva impedito che i campi fossero coinvolti nel conflitti libanese.
A capodanno la battaglia era scemata di intensità ma non completamente esaurita. A Beirut continuava lo stillicidio di attentati contro i francesi e gli americani ed era ormai chiaro che la presenza e la missione della Forza multinazionale aveva terminato il proprio scopo.
La situazione politica degenerò ulteriormente e sul terreno gli scontri tra le milizie cristiane e sciite diventarono frequenti. In dicembre il contingente americano abbandonò le proprie posizioni ritirandosi sulle navi. Ai primi di febbraio si ritirò il contingente francese.
A capodanno il Ministro della Difesa Spadolini visitò il contingente e poi gli elicotteristi italiani di UNIFIL.
Era stato intanto deciso il ritiro del contingente i primi a rientrare fu il Cernaia che entro il 25 gennaio era in Italia.
Il 19 febbraio il resto del contingente italiano si imbarca, lasciando, su richiesta del Governo libanese, una compagnia composta da Carabinieri paracadutisti, paracadutisti e incursori, quale testimonianza che l’Italia non avrebbe abbandonato il Libano. La compagnia rientrò in Italia a fine marzo.
4.3. Considerazioni sulla Libano 2.
La prima considerazione da fare riguarda la composizione del contingente italiano composto da militari di leva, la cui preparazione alla parte operativa si limitava a pochi mesi di addestramento intensivo. Non si può poi sottacere che 40 anni fa, quando i nostri militari di leva furono chiamati ad operare in Libano, la realtà dell’Esercito italiano proveniva da decenni di denigrazione totale e di totale distacco dell’opinione pubblica da quella che era la realtà del mondo militare, considerato inutile e la leva un anno di vita sprecato. In pratica era un mondo isolato da quella che era la vita civile. Ma i nostri militari di leva si sono validamente confrontati con i paracadutisti della Legione Straniera e con i marines statunitensi , dimostrando coraggio, spirito di sacrificio, altruismo e grande umanità.
Durante i 18 mesi di permanenza del contingente si avvicendarono 8500 militari di cui 7000 di leva e 350 infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana. La Marina Militare partecipò, oltre che con i fanti di marina, con una nave da sbarco e una fregata mentre l’Aeronautica Militare assicurava il trasporto dei materiali e del personale che si avvicendava con i C-130 ed i G 222.
La seconda considerazione riguarda il modo di affrontare il compito che si differenziò da quello franco-americano. Il contingente italiano non mostrava una predisposizione tipica delle truppe di occupazione mantenendo una linea di discrezione che puntava al dialogo. Tale linea, che poteva apparire vulnerabile in caso di attacchi militari di forze organizzate, si rivelò vincente. Nessun attentato grave fu infatti compiuto contro gli italiani.
Mentre gi americani rimanevano immobilizzati in posizioni fortificate e difese attorno all’aeroporto di Beirut, i militari italiani mantenevano una visibile sorveglianza sui campi palestinesi di Chatila e Borj el Barajneh e soprattutto si mantenevano equidistanti da tutte le fazioni.
Ci furono scontri sporadici, che costarono la vita ad un fante di marina, Filippo Montesi e un’ottantina di feriti fra cui 6 ufficiali, ma nessun attacco terroristico.
La missione fu svolta e portata a termine in modo impeccabile e ottenne il rispetto degli altri contingenti e soprattutto della popolazione civile, palestinese e libanese, per le cui esigenze era stato messo a disposizione l’ospedale da campo militare italiano.
Si può dire, senza essere tacciati di presunzione, che le missioni Libano 1 e Libano 2 hanno fatto storia e hanno rappresentato un modello per le successive missioni.