LUIGI BARZINI. CORRIERE DELLA SERA/CSIR. GLI ITALIANI NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA. LA CONQUISTA DI STALIN0 FRONTE DEL DON

  

Luigi Barzini. Corriere della Sera/CSIR.

Gli Italiani nella Campagna di Russia. La conquista di Stalino. V Fronte del Don Novembre

 

 

GL’ITALIANI NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA

LA CONQUISTA DI STALINO

 

V

Fronte del Don novembre

 

 

Innumerevoli cumuli di scorte, aguzzi, altissimi, regolari, dominanti, sollevano sulle immense pianure nude e tormentate del Bacino del Donez il loro profilo triangolare e simmetrico, stranamente simili a piramidi egizie viste all’orizzonte del deserto. Costituiscono il segno più caratteristico della fisionomia del paesaggio.

Nella steppa piatta e monotona, le truppe italiane che un anno fa marciavano alla conquista di quelle regioni industriali vedevano moltiplicarsi le enormi cuspidi nere, disperse nella vastità come velature sul mare, fatte di detriti e di sterri estratti dalle gallerie delle miniere. Tanto alta è la montagna di scorie e tanto profondo è il vuoto sotterraneo.

Miriadi di miniere sono rivelate allo sguardo delle sagome regolari e solenni di quelle alture, che ricordano le colline tombali erette sulle sepolture di antichi sovrani sciti o sarmati e che si incontrano più al nord. La ricchezza di una fertilità inaudita è nella terra nera dell’Ucraina, ma è sottosuolo che, fra il Dnieper e il Donez, si trovano i più grandi tesori di questa fortunata regione.

Il carbone, il ferro, il rame, il manganese, quasi tutti i minerali indispensabili alla grande industria siderurgica si trovano qui, quasi per tutto, vicini l’uno all’altro, in favolosi giacimenti che spesso affiorano. Sono le materie degli armamenti. Nei tenebrosi meandri delle miniere del Donez la guerra, che il Governo sovietico preparava da quindici anni, ha affondato alcune delle sue robuste radici per trarne nutrimenti.

Milioni di uomini sono stati trasportati in questo Bacino e mezzi di lavoro per il suo sfruttamento integrale. Presso le bocche delle miniere si ergono intrecci metallici di armature, e alte ciminiere, baraccamenti, macchinari estrattori, aspiratori, compressori, trasportatori, in mezzo a fasci di binari. I minerali affluivano a centri di lavorazione, alle città-opifici irte di ciminiere: edifici mastodontici, alti forni, acciaierie, fabbriche di carri armati, di locomotive, di trattori, colossali sedi di comando, scuole, casamenti per la dimora dei funzionari sovietici e delle loro famiglie.

Intorno a questi nuclei di costruzioni massicce si estende a perdita d’occhio, per decine di chilometri quadrati, un disseminamento di casupole primitive, di capanne, di catapecchie, di tuguri, fatti di fango misto a paglia e imbiancati a calce. Sono le abitazioni degli operai.

Non vi si accede per delle strade, ma per sentieri campestri.

A decine di migliaia le umili dimore sembrano sparpagliate a caso sulla campagna, come un gregge che pascoli. Coprono del loro granulamento bianco avvallamenti e rilievi. Da lontano fanno l’effetto di nevicate di case. Ricordano i cimiteri arabi, la infinita distesa di tombe candide che circonda le città maomettane.

Le vere città industriali del Donez sono queste moltitudini di povere casette: il resto è laboratorio. Nessuna chiesa vi si vede, naturalmente, nessun cimitero perché i morti sono sepolti come carogne, ed è proibito porre sulla terra che li ricopre un segno che li ricordi. Queste mostruose metropoli della metallurgia bolscevica sono veramente un simbolo del regime intorno un oceano di miserie.

Era precisamente la roccaforte che i bolscevichi sgombravano e devastavano all’avvicinarsi dell’offensiva. La miseria imbiancata dei tuguri è rimasta intatta, con le sue donne, i suoi bambini, la sua fame. Stalino, obiettivo dell’attacco italiano, era la capitale della siderurgia nel Bacino del Donez. Centoventicinque aggruppamenti industriali vi avevano la loro direzione. Le fonderie, le acciaierie, le fabbriche, vi sono state direzione. Le fonderie, le acciaierie, le fabbriche, vi sono state distrutte e inutilizzate, ma i grandi edifici dove le amministrazioni avevano sede e quelli in cui i funzionari abitavano sono rimasti quasi intatti.

Essi allineano le loro oscure moli ai lati dell’unica strada asfaltata. Un passo più in là comincia la poveraglia delle casupole fra dedali di viuzze fangose e staccionate cadenti. Più lontano, rovine di opifici, ciminiere spente, e all’orizzonte le piramidi di scorie.

I grossi fabbricati centrali di queste fungaie edilizie hanno una imponenza severa e massiccia, ma la loro solidità è simulata come quella dei padiglioni delle esposizioni che sembrano di pietra e sono di cartapesta. I muri si scrostano, si sgretolano, tutto vi ha l’aria stanca, vecchia, trasandata, provvisoria. Al loro paragone i resti delle antiche città, divenute sobborghi dei nuovi centri industriali – e che avevano altri nomi ora scomparsi dalla carta geografica -, acquistano un carattere di rispettabilità, di decenza e di grazia.

Con queste sommarie descrizioni abbiamo cercato di care un’idea degli aspetti del paese sul quale il Corpo italiano, verso la metà di ottobre dell’anno passato, avanzato combattendo.

Il tempo era orrendo: pioggia, poi neve, poi ancora pioggia, le piste ridotte a pantani, tutti gli automezzi fermi, l’aviazione paralizzata. E bisognava far presto, andare avanti, anche senza rifornimenti, se questi non potevano passare, affrontare le privazioni e i rischi di un isolamento temporaneo dalle basi.

La marcia nella melma vischiosa era faticosissima, ma la situazione era così paradossale, che la truppa più rapida era quella che andava a piedi, per quanto adagio andasse. La divisione “Pasubio” che il 15 ottobre doveva passare il Woltscja e spingersi al nord in un movimento aggirante, era ferma davanti al fiume perché gli autocarri che portavano le barche per fare il ponte erano impantanati.

Allora si vide uno spettacolo straordinario. Pontieri, CC.NN., bersaglieri, artiglieri, in massa andarono a ripescare gli autocarri incagliati, li spinsero, li tirarono, li sollevarono, e li portarono avanti, sul terreno solido, a forza di braccia. Lavorando giorno e notte, alla mattina dopo i pontieri avevano costruito il ponte.

Ma in tanti, nel dubbio che la truppa autotrasportata non potesse muoversi nel fango, quattro battaglioni a piedi avevano passato il fiume a guado e avanzavano in esplorazione. Mentre questo avveniva, più al sud la divisione “Celere” puntava direttamente su Stalino, in appoggio a un corpo tedesco che operava alla sua destra. La situazione generale imponeva l’urgenza.

Il maltempo aveva ostacolato i rifornimenti di benzina della Armata corazzata germanica che marciava contro Tagancog, sul mare d’Azow. L’Armata aveva dovuto sostare per qualche giorno, mentre la resistenza nemica andava rafforzandosi. La manovra su Rostow subiva un rallentamento. Una penetrazione profonda nel Bacino del Donez poteva agevolare l’attacco alla foce del Don.

Bisognava dunque affrettare l’avanzata ad onta delle piste intransitabili, dei ponti saltati, dei campi di mine, e della resistenza dei russi, i quali, formidabilmente armati di artiglieria, di obici e di armi automatiche, si opponevano a ogni passaggio con combattimenti di retroguardia, brevi talvolta ma sempre aspri e sanguinosi.

Il giorno 17 la cavalleria in esplorazione che precedeva la “Celere” urtò contro una rilevante forza nemica trincerata lungo un piccolo fiume (il Ssucje Jali a occidente di Stalino) la quale iniziò la difesa con una tempesta cannonate. La “Celere” attaccò.

Mentre la fanteria italiana, appoggiata da un bombardamento intensa premeva frontalmente, la cavalleria alle ali si lanciava in un largo movimento avvolgente: il reggimento Lancieri Novara a destra, il Savoai Cavalleria a sinistra. Una manovra classica. Gli squadroni al galoppo svanirono nella distanza, quasi proiettati fuori dalla battaglia, guardarono il fiume lontano, alle due estremità del fronte, e quando appiedati entrarono nel combattimento, il loro fuoco spaventò i russi. Perché l’investiva ai fianchi e cominciava a minacciarli alle spalle.

Il nemico allora si ritirò abbandonando sul terreno, molti morti e lasciando parecchi prigionieri nelle nostre mani. Lo stesso giorni la “Celere” prendeva contatto alla sua destra con il corpo tedesco, insieme al quale doveva procedere all’attacco di Stalino.

Ma il tempo fermò tutto.

Piogge torrenziali, oceani di fango, artiglierie e automezzi fermi, marcie a piedi difficili: per tre giorni è bisognato attendere che il tempo si placasse. Pioveva ancora quando, al mattino del 20, sotto a un cielo oscuro e tempestoso, la battaglia per Stalino cominciò.

Non era possibile aspettare più a lungo. Taganrog era stata occupata, l’offensiva germanica su Rostow aveva ripreso impeto. L’avanzata sul Donez era necessaria per appoggiare il fronte meridionale a solidi capisaldi e sostenere l’azione della destra sul Don.

Fiancheggiata dalla cavalleria, la “Celere” attaccò in direzione della grande stazione ferroviaria di Stalino, a nord-ovest della città, ove vanno ad annotarsi le strade ferrate provenienti da tutti i centri industriali del Bacino. La divisione “Pasubio”, che avanzava più al nord, proteggeva il fianco sinistro. Alla destra della “Celere”, i tedeschi puntavano sull’abitato di Stalino.

Pioveva. Uomini che parevano di fango combattevano nel fango. I bersaglieri hanno assalito con impeto, alla baionetta, i primi trinceramenti, catturando o distruggendo le retroguardie russe che li difendevano. Nella mattinata l’attacco aveva raggiunto i primi obiettivi. Il successo è stato subito sfruttato. L’attacco incalzante penetrava a cuneo nelle successive linee di resistenza prima che il nemico potesse consolidarvisi.

Si è combattuto tutta la giornata e la notte quando, verso le ore 20, il grande centro ferroviario di Stalino veniva occupato di slancio. Gli incendi illuminavano la scena. Giganteschi edifici, fabbriche, depositi, magazzini, uffici, ardevano tra rimbombi di esplosioni e fragori di crolli, mentre tra ombre e baglio le nostre pattuglie irrompevano da angolo a angolo ricacciando a fucilate e a colpi di bombe a mano gli ultimi difensori.

Nello stesso momento, i tedeschi occupavano la città. Il possesso di Stalino, nodo vitale di comunicazioni, ha avuto una grande importanza nello sviluppo della guerra, quando la zona di Stalino ha costituito uno dei massimi pilastri della difesa durante la controffensiva invernale russa, permettendo di mantenere le posizioni cardini di Charkow e di Taganrog da cui la grande offensiva di quest’anno doveva riprendere slancio. La rapidità dell’occupazione è dovuta in gran parte alla tenacia e alla audacia degli italiani che, avanzando sotto la pioggia e nella mota per sette giorni a marcie forzate, privi spesso di rifornimenti, che il maltempo formava, sorpassando ostacoli di ogni genere, campi minati, ponti saltati, hanno tallonato il nemico non dandogli il tempo di organizzare una solida difesa.

Intanto, quella colonna appiedata formata da quattro battaglioni, che aveva passato il Woltschja a guado, marciando isolata col fango fino ai polpacci avanzava alla estrema sinistra, seguita da poche teleghe russe che aveva requisito strada facendo, senza viveri, nutrendosi di quello che poteva trovare nel misero paese, mangiando spesso cavoli crudi e galletta. Ma un indomito coraggio la animava. A marcie forzate piombava sulla stazione di Grmscino, a nord-ovest di stalino, ne attaccava la difesa, sbaragliava i russi, proseguiva.

Alla sua destra, il raggruppamento motorizzato della CC.NN. e dei bersaglieri motociclisti che aveva determinato la caduta di Pawlograd, isolato anche lui, ricacciava e inseguiva le retroguardie russe che avevano fatto saltare il ponte sul Woltscja.

Presa Stalino, le forze tedesche si orientarono a sud-est per l’attacco di Rostow. Al corpo italiano spettò il compito di fronteggiare le masse russe che si adunavano per sbarrare l’avanzata verso il Donez e per minacciare il fianco dell’armata corazzata germanica proiettata sulla foce del Don.

 

LUIGI BARZINI