
Il Friuli-Venezia Giulia occupa una posizione geografica e strategica di straordinaria importanza nel contesto dell’Europa centro-meridionale ed è un fondamentale punto di accesso alla penisola italiana. La catena alpina, che lo separa a Nord dai paesi del centro Europa, pone in realtà una barriera tutt’altro che insormontabile grazie a delle cime non particolarmente elevate e ai numerosi valichi, primo fra tutti quello di Sella di Camporosso. Da est invece la pianura friulana è facilmente raggiungibile grazie alla ampia valle del Vipacco, da sempre varco percorribile da e verso l’aerea danubiana e balcanica. Attraverso questa straordinaria posizione, che apre all’acceso al Mare Adriatico e alla pianura Padana, centro nevralgico di tutta la penisola, si sono sviluppati interscambi commerciali, culturali, politici, etnico-linguistici ma anche movimenti di eserciti in uscita ed in entrata, come le frequenti invasioni subite hanno dimostrato.
Un breve accenno agli eventi storici, specificamente quelli militari connessi al territorio della regione, è doveroso. Partendo dalla dominazione romana, il Friuli fu un’aerea fondamentale per difendere la penisola dalle incursioni di popolazioni barbariche. Sin dal II secolo a.C. Roma, ormai padrona del nord-est peninsulare, respinse vari assalti, come quello dei Gallo-Carni del 186 a.C. Allo stesso tempo il Friuli fu trampolino di lancio per le campagne delle legioni contro popolazioni balcaniche come i Giapidi e gli Istri. Cesare poi svernò con le sue legioni presso Aquileia, città divenuta centro strategico e snodo fondamentale della rete viaria romana verso nord-est. Nacquero altri centri difensivi e commerciali come Cividale e Zuglio mentre una linea fortificata lungo le Alpi Carniche e Giulie fu istituita sotto Marco Aurelio.
Dal III secolo d.C. il territorio regionale fu la vera porta d’ingresso delle varie ondate barbariche che si succedettero, culminando con le invasioni dei Visigoti di Alarico nel 410 e poi con gli Unni di Attila nel 452, che portarono alla definitiva distruzione di Aquileia. A Goti e Longobardi seguirono Franchi e Ungari fino al periodo patriarcale, durante il quale furono rafforzate le difese ed i castelli del territorio friulano. Dal 1420 la Repubblica di Venezia pose fine alle guerre fra feudatari e rafforzò la difesa dei propri territori edificando la fortezza di Palmanova. Con il tramonto di Venezia, le campagne Napoleoniche, che attraversarono il Friuli durante la lotta con l’Austria, portarono alla annessione del Friuli stesso nel Lombardo-Veneto asburgico.
Le Guerre di Indipendenza prima nel 1848 poi nel 1866 stabilizzarono la situazione del confine orientale, lasciando in mano all’Austria Ungheria fino al 1915 le aree di Gorizia e Trieste.
La Prima Guerra Mondiale, che si svolse esclusivamente nel nord est della penisola, vide il territorio friulano teatro principale delle operazioni belliche. Il fronte dell’Isonzo e le appendici carsiche furono scenario delle reiterate offensive italiane che tentarono di sfondare il fronte austro ungarico. In questa situazione il Friuli fu anche retrovia e base logistica di uno sforzo bellico mai visto fino ad allora, che coinvolse centinaia di migliaia di uomini e grandissime quantità di materiali. Tuttavia, la pianura friulana patì le maggiori sofferenze dopo lo sfondamento avvenuto a Caporetto nell’ottobre del 1917. Molto è stato scritto sul disastro di Caporetto, dagli errori di sottovalutazione da parte italiana, alle nuove tattiche usate dai reparti tedeschi giunti sul fronte italiano per cercare di risolvere una situazione che per l’Austria-Ungheria si stava ormai deteriorando. Dopo il ritiro ordinato il 27 ottobre del 1917 alla 2a e alla 3a armata italiana, il Friuli rimase alla mercé dell’invasore e questo causò danni e sofferenze indicibili alla popolazione civile rimasta. Il trauma di questa invasione rimase impresso per decenni nel popolo friulano.
Durante la II G.M. il Friuli fu teatro, a partire dal settembre 1943, dell’occupazione tedesca e della conseguente cruenta lotta partigiana che vide protagoniste anche formazioni iugoslave.
Finita la guerra, si sviluppò lungo il confine un periodo di forte attrito con la Iugoslavia di Tito per le pretese territoriali di quest’ultimo su Trieste e parte del Friuli. Vi fu, in seguito alla minaccia di una prova di forza iugoslava, la prima grande mobilitazione postbellica del nuovo esercito italiano.
I confini settentrionali italiani furono già al centro della attenzione dei nostri vertici, politici e militari, durante gli anni più critici della storia europea del ‘900. Si trattò infatti di aumentare le possibilità di difesa già in parte facilitate dalla catena alpina. Le minacce non riguardarono solo il settore orientale, ma visto il fermento che agitò le cancellerie europee principalmente durante la prima parte del secolo, in maniera estensiva, anche tutto l’arco montano settentrionale.
Per questa ragione nacque la prima vera linea difensiva statica italiana, chiamata linea Cadorna ed edificata a ridosso del confine svizzero nel 1915. Lunga 72 Km. fu eretta per timore di un attacco tedesco attraverso la Svizzera. Costata l’equivalente di 150 milioni di euro, fu dotata di 88 postazioni per cannoni, di cui 11 in caverna, decine di chilometri di trinceramenti e centinaia di chilometri di strade1. Venne dismessa nel 1919 ma alcune sue fortificazioni furono inglobate nella nuova imponente serie di sbarramenti che presero il nome, nella loro totalità, di Vallo Alpino del Littorio.
Iniziato nel 1931, questo nuovo ridotto difensivo fu edificato per volontà di Mussolini al fine di difendere il confine con la Francia, ma fu poi esteso a tutta la chiostra alpina fino al confine iugoslavo. Fu un’opera enorme e costosa. Sviluppata su una linea di resistenza principale con una profondità di 3/400mt. con centri di resistenza in cemento o in caverna, prevedeva anche una linea antistante per l’osservazione e una serie di postazioni di artiglieria a tergo della linea principale.
Vi furono tutta una serie di direttive per la realizzazione di quest’opera titanica comprese quelle per un efficace mascheramento, mentre il Vallo fu diviso un 28 settori numerati a partire dal più occidentale. Per dare un’idea della grandiosità dell’opera basti ricordare che a supporto di essa furono aperti 1978 Km. di strade e furono utilizzati 40.000 operai. I cantieri furono chiusi nell’ottobre 1942. L’opera fu edificata tra alti e bassi, problemi tecnici di costruzione e dubbi di natura strategica. Effettivamente non ebbe modo di dimostrare la sua validità, visto che dopo il settembre 1943 iniziò un’opera di saccheggio da parte dei civili e poi sporadicamente partigiani e tedeschi la utilizzarono come rifugio o deposito. Fu parzialmente smantellata dopo la guerra, in ossequio al Trattato di Parigi del 1947, ma solamente ad ovest e unicamente per le opere di difesa attiva, non quelle riguardanti un uso logistico. Alcune opere, vista la mutata linea di confine postbellica, passarono sotto la Francia. Ad est invece le opere del Vallo disposte in montagna ripresero vita, venendo adeguate ed integrate nelle difese Nato. È interessante ricordare che per il presidio di quest’opera fu creato nel 1934 un apposito Corpo chiamato Guardia di Frontiera (GaF). Suddivisa in 28 settori di copertura era composta da 8 comandi con 63.000 uomini, poteva contare su 1000 fortificazioni, 7000 mitragliatrici, 1000 mortai, 2000 pezzi di artiglieria (2). Sciolta dopo la guerra i compiti della GaF passarono prima ai battaglioni di posizione e poi alla fanteria d’arresto.
Dopo la guerra, con l’entrata dell’Italia nella Nato, il confine nordorientale italiano assunse nuova importanza e le opere del vallo furono riadattate e modernizzate adeguandole con protezioni NBC3 e armamenti più recenti. Le opere furono divise in 2 gruppi, quelle di Tipo A presidiate e pronte e quelle di tipo B non presidiate ma mantenute efficienti.
Tavola 1. Il Vallo Alpino.
https://www.associazionenazionalefantiarresto.itopere-e-armiarmindividualiopere.jpg 15.03.2021
Può essere utile a questo punto citare come il problema della difesa statica di una regione o addirittura di una nazione, fu affrontato nel corso del ‘900.Citeremo per questo tre esempi molto noti. Il primo, forse il più famoso, fu quello della linea Maginot. Fortemente voluta dal ministro della guerra francese André Maginot, che appoggiò le idee del generale Petàin a seguito delle esperienze avute da quest’ultimo durante la I G.M., la cui teoria per una linea difensiva pesantemente fortificata prevalse su quella più aggressiva e meno statica del generale Joffre. Come sappiamo l’opera fu gigantesca, con forti e casematte di cemento e acciaio ospitanti nelle viscere del terreno migliaia di uomini di guarnigione e dotata di cupole corazzate e armate con pezzi di calibro variabile dai 37 ai 135mm4. Dotata di nidi di mitragliatrici corazzati, ostacoli anticarro e barriere di filo spinato, realizzata tra il 1928 e il 1935, fu paragonata dal Daily News alla Grande Muraglia cinese. Tuttavia, come sappiamo, la convinzione degli alti comandi francesi che un’offensiva tedesca attraverso le Ardenne fosse di difficile attuazione o se non altro di lento svolgimento a causa del terreno impervio, consigliò di non prolungare la linea al confine belga. Il vulnus della Maginot fu quindi più un errore di valutazione strategica, che non tenne conto della evoluzione dei nuovi mezzi a disposizione e delle nuove tattiche applicate dagli aggressori, che un difetto concettuale di costruzione.
Un’ altro interessante sistema difensivo fu quello adottato dai tedeschi nella campagna d’Italia tra il 1943 e il 1945. Si trattò in effetti della applicazione di una strategia difensiva basata su una serie di linee (circa 50) che si susseguirono via via che le precedenti venivano superate dal nemico e che Kesselring5 mise in atto ben conscio di potersi permettere di cedere terreno lentamente. Queste linee vennero approntate basandosi sul principio Regelbau studiato dall’organizzazione Todt per la costruzione di sistemi fortificati campali e sulla dottrina adottata dalla Wehrmacht con il manuale Feldbefestigung des deutschen Heeres6. Le più famose di queste furono la Gustav e la Gotica. Fu però la linea Gustav a tenere in scacco le forze alleate tra l’inverno 1943 e la primavera 1944, negando loro possibilità di occupare rapidamente Roma. Questa linea si estese dalla foce del Garigliano sul Tirreno ad Ortona sull’Adriatico ed ebbe come fulcro strategico Cassino. Una sapiente combinazione di sfruttamento del terreno, coordinamento con l’artiglieria, dotata dei polivalenti pezzi da 88mm e dei lanciarazzi Nebelwerfer, oltre che dai nidi di mitragliatrici ben occultati e protetti, consentì ai difensori di mantenere le posizioni fino alla primavera del 1944. Si trattò in questo caso di una linea difensiva costruita in breve tempo con uno scopo strategico ben preciso, rallentare il più possibile l’avanzata alleata nella penisola nella visione di Kesselring, le basi dei bombardieri alleati lontane dalla Germania, ben sapendo che qualsiasi linea difensiva eretta lungo la penisola italiana sarebbe stata facilmente aggirabile con uno sbarco dal mare. Cosa che puntualmente avvenne con lo sbarco ad Anzio che però non fu la causa del collasso della Gustav che invece resse a tre massicce offensive alleate.
Ultima e altrettanto interessante fu la Linea Bar Lev, eretta da Israele dopo la conquista della penisola del Sinai con la Guerra dei 6 giorni del 1967. Il canale di Suez diventò così la nuova linea di confine tra Egitto e Israele. I generali Adan e Bar Lev proposero di erigere una linea difensiva statica lungo la riva del canale che fungesse anche da posto di osservazione ed Early Warning in caso di azioni offensive egiziane. A questa idea si opposero i generali Tal e Sharon che temevano che una linea statica privasse lo Tsahal7 del vantaggio della sua grande capacità di manovra. Alla fine, la spuntò Bar Lev, pertanto furono erette dal gennaio 1969 una serie di fortificazioni incentrate su 16 nuclei e collegati tra loro da forze mobili. Un alto muro di sabbia fu innalzato lungo la sponda orientale e speciali tubature furono allestite per versare combustibile nel canale e creare così una barriera di fuoco in caso di attacco. Il presupposto tattico di Tsahal fu comunque sempre basato sull’intervento risolutivo delle proprie forze corazzate da tergo della linea per ricacciare un eventuale attacco egiziano.
La Bar Lev fallì nel suo scopo. L’Early Warning venne del tutto a mancare e i capisaldi furono ben presto circondati e sopraffatti, mentre la reazione di Israele con le sue truppe corazzate e la sua aviazione fu messa a dura prova dai nuovi missili CC e CA forniti dall’Urss e magistralmente usati dagli egiziani.
Tornando alla situazione europea, che portò alla necessità di salvaguardare anche i confini nordorientali italiani, essa vide la formazione di due blocchi contrapposti, cosa evidente già nei mesi immediatamente successivi alla conclusione della II G.M. La definizione di Churchill di “cortina di ferro” ebbe immediata convalida con la creazione della NATO nel 1949, nata come organizzazione per una mutua difesa in caso uno dei paesi membri fosse stato attaccato. Questa iniziativa che coinvolse gli Usa e gran parte dei paesi dell’Europa Occidentale, Italia compresa, fu la risposta alla formazione del blocco comunista imposto dall’Urss ai paesi dell’Europa orientale liberati dall’Armata Rossa alla fine del conflitto.
Alla creazione del Comecon seguì quella del Patto di Varsavia nel 1955, quest’ultimo voluto dall’Urss come risposta all’entrata nella Nato di una riarmata Germania Occidentale. Ormai dalla contrapposizione politica si giunse a quella militare lungo una linea di frattura che correva dal circolo polare artico, passando per le pianure tedesche, per giungere fino all’Adriatico e alla Turchia.
La contrapposizione divenne presto equilibrio del terrore non appena anche l’Urss si dotò di armi nucleari. Non ci soffermeremo sulle varie fasi di questo confronto ma è importante sottolineare, al fine di comprendere meglio come si giunse allo sviluppo della linea difensiva edificata in Friuli, quale fosse il divario numerico delle forze contrapposte sul terreno.
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Tavola 2. Comparazione delle forze terrestri Nato/Patto di Varsavia.
https://www.nato.int/cps/fr/natohq/declassified_138256.htm 10.3.21
Infatti, la strategia americana, basata inizialmente sulla teoria di Eisenhower sulla risposta nucleare massiccia anche in caso di attacco convenzionale sovietico, si evolvette con la risposta flessibile di Kennedy ma non esonerò la Nato dal cercare di mantenere un deterrente convenzionale credibile alla dilagante superiorità numerica in fatto di truppe corazzate/meccanizzate ed artiglieria da parte sovietica e dei suoi alleati. Pur essendo considerato dai comandi Nato un teatro secondario, anche il confine nordorientale italiano era stato messo a dura prova, come già ricordato, dalle pretese territoriali della Iugoslavia post-bellic di Tito, cosa che aveva provocato una mobilitazione imponente dell’esercito italiano in vista di un possibile atto di forza della repubblica titina. Passato questo pericolo rimase la possibilità di una aggressione del Patto di Varsavia verso il nostro paese che probabilmente sarebbe partita dal territorio ungherese. Che il Patto di Varsavia avesse in organico una imponente massa di forze corazzate/meccanizzate con spiccata vocazione offensiva è fuor di dubbio. Dalla Tavola 2 si può notare come la superiorità numerica nei confronti della Nato nei vari settori di armamento fosse evidente. Certamente la qualità dei mezzi di produzione sovietica non sempre fu alla altezza dei mezzi occidentali più recenti; tuttavia, anche questi non erano in dotazione che a pochi eserciti occidentali, Usa e Repubblica Federale Tedesca in primis. É comunque interessante notare che, in caso di un attacco al fianco sud del fronte europeo, dove anche aliquote dell’Armata Rossa fossero state coinvolte, l’impatto sulla linea difensiva in Friuli sarebbe stato molto gravoso per il nostro esercito.
Con l’entrata dell’Italia nella Nato nel 1949 e nel timore di una penetrazione sovietica dall’Austria, si decise di riutilizzare le fortificazioni del Vallo del Littorio nella parte confinante con questa nazione. Non solo ma si pensò di costruire ex novo, vista la perdita di territori ad est, una serie di fortificazioni che per prima cosa difendessero i ponti sul fiume Tagliamento, principale corso d’acqua del Friuli. Nacque così la Linea Gialla con l’edificazione di una serie di nuove fortificazioni a cavallo del fiume, del resto consentite dal trattato di Parigi del 1947, in quanto lontane dal confine. Si pensò poi, non solo di erigere un sistema fortificato che comprendesse la pianura friulana, la fascia alpina e prealpina, ma anche all’eventualità di poter entrare in caso di necessità in territorio austriaco e iugoslavo per predisporre una difesa avanzata. Accantonato quest’ultimo piano per evidenti motivi di inopportunità politica, lo Stato Maggiore Italiano emise uno studio denominato “Organizzazione difensiva della fascia di frontiera” che definì lo schema della difesa del confine orientale. Nacque così la Linea Azzurra, edificata a ridosso del confine segnato dal fiume Isonzo, formata da tutta una serie di capisaldi protetti dotati di armi anticarro e mitragliatrici.
Gli armamenti inizialmente in dotazione furono le mitragliatrici Breda 37 e i cannoni Firefly da 75mm. che equipaggiavano i carri Sherman, anche se dal 1953 in poi si iniziò a modernizzare le postazioni con pezzi da 90/50 e le mitragliatrici Mg 42/59.In definitiva le linee difensive approntate furono tre. La prima che dalla Carnia costeggiando il confine iugoslavo raggiungeva l’Adriatico. La seconda, arretrata di poco, seguiva il corso dei fiumi Isonzo-Natisone- Torre e la terza arroccata lungo tutto l’alveo del Tagliamento. Nel 1955, oltre alla attivazione da parte della Nato delle armi nucleari tattiche, vi fu la costituzione della Setaf (Forza Tattica Americana per il Sud Europa) con sede a Vicenza. L’ingresso delle armi nucleari tattiche, probabilmente usate anche dagli attaccanti, costrinse lo Stato Maggiore a introdurre nuove linee guida che permettessero alle linee difensive di resistere in ambiente contaminato, ribadendo l’importanza strategica di queste e ipotizzando uno scontro con grandi forze corazzate nemiche. La grande riforma dell’esercito del 1975 coinvolse anche il sistema fortificato friulano, infatti con la circolare nr. 900 il ruolo delle opere difensive statiche mutò, da elemento fondamentale a parte di un sistema integrato e flessibile composto anche da forze mobili con capacità controcarro, in un binomio che superasse le intrinseche debolezze di una linea difensiva puramente statica. La parabola discendente delle opere fortificate si concluse dal 1984 al 1991 con i nuovi studi dello Stato Maggiore, che prima misero in discussione il sistema iniziando a ridurre i fondi e infine ne decretarono la dismissione subito dopo la caduta dell’Urss.
Per quanto riguarda la parte tecnica delle opere, nel settore montano furono usate in gran parte quelle del Vallo Alpino, rese idonee con sistemi di filtraggio e porte stagne alla minaccia NBC. Un totale di 200 siti formarono 30 sbarramenti, generalmente costituiti da postazioni in caverna o in casamatta e articolate su più livelli con posti di osservazione, artiglieria e mitragliatrici.
In pianura il sistema fu costruito con uno schema che prevedeva una gran numero di opere disseminate nei punti strategicamente più importanti mentre ognuna di esse era composta da un numero variabile di postazioni. Vi era generalmente un posto di comando/osservazione (PCO) costituito da un bunker in calcestruzzo e torretta corazzata, con porte stagne gruppo elettrogeno e servizi igienici. Intorno a questo erano posizionate due tipi di postazioni, il tipo M e il tipo P. Il primo era in cemento ma con cupola corazzata con feritoie e armata di mitragliatrice. Il tipo P era a sua volta composto da tre sistemi differenti. L’SF, con pezzo di artiglieria, installato all’interno di un bunker. Il tipo Enucleato, composto da una torretta di carro Sherman, poi Pershing, posizionata su un bunker sotterraneo di cemento (tipo Pantherturm), dove la rotazione della torretta era assicurata da un gruppo elettrogeno. Il terzo tipo era composto da un carro dei tipi citati affogato in vasca di cemento.
Tutte le opere erano dotate di porte stagne e di un sistema di filtraggio dell’aria, manuale o elettrico collegato a delle maschere individuali.
Erano previste postazioni campali per l’uso di mortai leggeri e armi anticarro spalleggiabili, l’attivazione di campi minati intorno alle postazioni oltre a un posto di comando esterno (PCE) formato da 4 tende con posto di medicazione, commissariato, cucina da campo, e munizioni, con relativo personale addetto8. Le opere erano generalmente mascherate con finti covoni di fieno, finte baracche Anas, finte pareti di roccia o cumuli di pietrisco. Le varie postazioni non erano collegate tra loro tranne in rari casi.
Tavola 3. Le forze contrapposte nel Sud Europa
https://www.nato.int/cps/fr/natohq/declassified_138256.htm 18.3.21
Dopo la soppressione della Guardia di Frontiera alla fine della guerra, per il presidio delle opere dal 31 luglio 1950 furono attivati i battaglioni da posizione, dal 1962 i battaglioni da posizione divennero reparti di fanteria d’arresto.
Furono formati il 73o Lombardia, il 53o Umbria, il 52o Alpi come reggimenti di fanteria d’arresto, 54o e 74o rimasero in posizione quadro mentre il 225o rimase sulla carta. Lo stesso avvenne per gli alpini che ebbero due reggimenti di alpini d’arresto. Con la riforma dell’esercito del 1975 le brigate e i battaglioni divennero le principali formazioni operative. Di conseguenza i reggimenti d’arresto passarono il testimone ai battaglioni d’arresto che vennero distribuiti in organico alle principali unità schierate nel territorio friulano. Come per le opere che avrebbero dovuto presidiare, anche i reparti d’arresto furono sciolti nel 1992.
Il sistema difensivo che abbiamo esaminato sarebbe stato realmente efficace? Una risposta non l’avremo mai, tuttavia possiamo trarre alcune conclusioni.
La soglia di Gorizia fu la principale rotta d’accesso che con tutta probabilità sarebbe stata la direttrice di un attacco all’Italia da est. Molto probabile che sarebbero state le forze ungheresi quelle principalmente impiegate per l’attacco vista la posizione geografica dell’Ungheria. Le sue truppe però erano composte da una divisione corazzata e 5 di fanteria meccanizzata per un totale di 1200 carri dei quali solo un centinaio dei moderni T72. Anche se tutti gli analisti occidentali diedero per scontato che una eventuale offensiva del Patto di Varsavia si sarebbe concentrata verso le pianure tedesche, non è escluso che anche reparti sovietici avrebbero potuto essere usati per un attacco al fianco sud della Nato e quindi verso l’Italia.
La fiducia in una difesa statica, tipo Maginot, fu subito messa in discussione dallo Stato Maggiore Italiano che aggiornò a più riprese la tattica da seguire in caso di attacco. Svanita la possibilità di una difesa avanzata oltre confine, si optò per una difesa su più linee scaglionate dietro i maggiori corsi d’acqua della regione. Una difesa in profondità su più linee, seguendo in parte l’esempio attuato da Kesselring nella campagna d’Italia. Questi però ebbe la possibilità di cedere terreno in misura notevolmente maggiore.
Tavola 4. Dislocazione delle principali opere difensive in Friuli-V.G.
https://www.associazionenazionalefantiarresto.itopere-e-armiarmi- individualioper.jpg 20.03.21
L’avvento delle armi nucleari tattiche però impose un mutamento di strategia già durante gli anni ‘50; infatti, l’uso di queste avrebbe comunque infranto qualsiasi linea di difesa statica. Si giunse così a considerare le fortificazioni come parte integrante di un sistema difensivo basato sulla manovra. Le unità mobili e corazzate si sarebbero giovate dell’appoggio dei punti di resistenza offerti dalla linea fortificata. Questa avrebbe svolto una funzione ritardatrice e avrebbe incanalato gli assalitori verso i punti favorevoli ai difensori, fornendo anche supporto per i contrattacchi. Il tutto sarebbe servito per guadagnare il tempo necessario alla Nato per inviare rinforzi e raggiungere la supremazia aerea, seguendo poi la nuova dottrina americana dell’AIR LAND BATTLE sarebbero stati colpiti i reparti avversari di seconda schiera evitando l’uso di armi nucleari.
Con l’avvento delle nuove strategie e le lezioni apprese dopo la guerra del Kippur, la linea difensiva perse via via importanza, mentre gli stanziamenti per il suo ammodernamento vennero ridotti per poi essere sospesi del tutto.
Crollata l’Unione Sovietica la linea di fortificazioni, comprese caserme e depositi, venne rapidamente abbandonata, i reparti d’arresto sciolti mentre l’intero sistema delle FFAA fu ridimensionato. Un articolo apparso su Panorama Difesa nel 1992 sostenne che un equilibrato mantenimento del sistema avrebbe costituito un valido elemento di deterrenza per la difesa dei confini nazionali a un costo contenuto9. Certamente oggi il concetto di difesa è stato profondamente rivisto, le missioni non solo nell’area più prospiciente ai confini europei, quali il bacino del Mediterraneo, il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Atlantico settentrionale ma più in generale in tutte quelle aree del mondo dove è necessario prevenire o fermare qualsiasi tipo di crisi che possa diventare una minaccia alla stabilità, hanno assunto un ruolo determinante nell’ottica del Comprehensive Approach adottata dalla Nato.
Tuttavia, le nuove tensioni con la Federazione Russa e la frammentazione della ex Iugoslavia con al suo interno forti enclave pervase da un islamismo radicale mantengono sempre viva l’attenzione a est. Come il Vallo Alpino tornò utile nel secondo dopoguerra, così un upgrading oculato e selettivo delle opere difensive e delle strutture, lascito della Guerra fredda, avrebbe potuto avere ancora una sua validità, non solo per un effetto di deterrenza ma anche come contributo alla difesa di un confine da sempre situato in una posizione storicamente esposta.
NOTE:
1 Marco Boglione, L’Italia Murata, Blu Edizioni, 2012, pagg.16-26.
2 Maccagno, Borean, Canavese, Maltesta, Cogni, Ultimo Bunker a Nord-est, Treviso, Editrice Storica, 2020, pag.113.
3 Nucleare Batteriologico Chimico N.d.R..
4 Vivian Rowe, The Great Wall of France, New York, Putnams’s Sons, 1961, pagg.65-69.
5 Feldmaresciallo, comandante delle forze tedesche in Italia. N.d.R..
6 Marco Boglione, L’Italia Murata, Torino, Blu Edizioni, 2012.
7 Le Forze Armate di Israele N.d.R..
8 Maccagno, Borean, Canavese, Maltesta, Cogni, Ultimo Bunker a Nord-est, Treviso, Editrice Storica, 2020, pagg. 96,110, 121-131.
9 M.Milanese, E.Celotti, La fortezza va in pensione, Panorama Difesa, n.94, Firenze, Edai, 1992, pag.60.