LA DIVISIONE DI FANTERIA “RAVENNA” – 2^ Parte

  

I COMBATTIMENTI SUL DONEZ

Mentre la «Ravenna» assumeva il suo schieramento e cercava, per quanto possibile, di rafforzarlo, già le prime forti avanguardie russe si affacciavano in più punti alla sponda sinistra del Donez, spingevano pattuglioni oltre il fiume per sondare le difese italiane ed iniziavano la costruzione di passaggi per mezzi pesanti in sostituzione dei ponti che erano stati distrutti dal X battaglione ferrovieri di Armata.

Gli italiani non si limitavano però a predisporre le difese statiche, ma svolgevano anche intensa attività di pattuglie lungo la loro riva del fiume e nelle cortine indifese e spingevano qualche ricognizione armata sulla opposta sponda. Notevole, per ampiezza e scopo, fu la ricognizione a largo raggio (oltre 20 km di percorso totale) effettuata il 13 gennaio dalla 3^ compagnia del 37°. Partito da Belenki, il reparto attraversò il Donez a Gundorovka, toccò Mlikailovka e si spinse fino a Nishnaia Staraia Staniza, controllando anche una vasta zona boscosa rivierasca. Dalla ricognizione risultò che la zona non era ancora occupata stabilmente dal nemico, al contrario di quanto avveniva più a settentrione, dove si intensificavano l’afflusso di unità russe e le azioni di sondaggio. Si ebbe così, per esclusione, una prima indicazione circa la probabile gravitazione dell’atteso attacco nemico che sembrava ormai delinearsi contro il sottosettore di Krushilowka. Dopo la metà di gennaio, infatti, la minaccia nemica contro tale settore diventò sempre più preoccupante, tanto da indurre il Comando tedesco ad impartire, la sera del 18 gennaio, nuove direttive per la difesa dell’ansa. La «Ravenna» doveva conservare la responsabilità del sottosettore di Krushilowka e cedere il sottosettore meridionale (da nord di Bolschoi Ssuchodol a Belenki) alla 304^ Divisione tedesca che, più a sud, stava ripiegando da est sul Donez (per il nuovo settore della «Ravenna» e le sue operazioni successive (vds. tavola 5). Poiché però il settore della Divisione, anche così ristretto, rimaneva con una fronte di circa 25 km, sempre troppo ampia per le sue scarse forze, il Comando tedesco ordinò di rinforzarlo con piccole unità tedesche in afflusso. Ma il cambio di schieramento e l’arrivo dei rinforzi furono ostacolati e resi intempestivi dall’attacco russo iniziato in forze il giorno 19 e da una violenta bufera di neve che, tra l’altro, rese quasi impossibile reperire le piste. Cosicché, come vedremo, i pochi reparti italiani e tedeschi in afflusso da sud dovettero essere impiegati alla spicciolata via via che si rendevano disponibili, per far fronte alle sempre rinnovantesi situazioni critiche.

Il giorno 19 le fanterie russe, rinforzate da unità partigiane locali e precedute da una violenta preparazione di fuoco, scatenarono il primo attacco in forze contro le posizioni italiane di Makaroff, Krushilowka e Dawido Nikolskii. Le nostre difese sostennero l’urto per tutta fa giornata a prezzo di gravi perdite. Ma, a notte fatta, i russi ripresero l’attacco contro Krushilowka che cadde all’alba del 20. Il nostro presidio fu quasi completamente annientato e solo pochi superstiti riuscirono a mettersi in salvo su Ilievka aprendosi un varco con le bombe a mano.

Per tutta la giornata del 20 i russi proseguirono l’attacco contro Makaroff e Dawido Nikolskii, dove verso sera cominciò ad affluire un primo rinforzo tedesco; contemporaneamente il nemico scatenò, con l’appoggio di carri armati, un primo violento attacco contro Ilievka. Nel tardo pomeriggio i primi reparti italiani ritirati da sud e giunti ad Ivanowka furono avviati, via via che affluivano, ad occupare le alture che fiancheggiavano Ilievka e coprivano Ivanowka; ciò per sbarrare la direttrice che avrebbe permesso al nemico non solo di aggirare Ilievka, ma anche di penetrare in profondità scardinando l’intera difesa del settore. Così quei reparti, proiettati nel precoce imbrunire in una zona che non conoscevano e su alture che ebbero persino difficoltà ad individuare, furono costretti a schierarsi quasi alla cieca ed a trascorrere la notte all’addiaccio sulla neve, senza disporre neanche della minima protezione contro il gelo e contro il fuoco nemico; talché subirono alte perdite per congelamenti e per l’azione di artiglierie e mortai russi ancor prima di sostenere, il giorno successivo, il combattimento ravvicinato.

 Ma la sera del giorno 20 i provvedimenti adottati per rafforzare la difesa in profondità non sembrarono sufficienti a fronteggiare l’incombente minaccia di un nemico che si era installato al di qua del fiume attorno a Krushilowka, Pertanto la sera stessa si fecero piani per organizzare un contrattacco inteso a riconquistare tale località. L’azione avrebbe dovuto essere effettuata il giorno successivo con le poche forze italiane ancora recuperabili e con le prime unità tedesche in afflusso. Senonché nella tarda serata i russi ripresero, con due battaglioni, l’attacco contro Dawido Nikolskii, coinvolgendo nel combattimento anche le forze tedesche destinate al progettato contrattacco. Da Dawido Nikolskii il nemico fu ricacciato al di là del fiume dopo una lotta protrattasi per parte della notte e sostenuta con una temperatura di oltre 40 gradi sotto zero. Ma la possibilità di effettuare il contrattacco contro Krushilowka era ormai svanita. Anzi, poco dopo la mezzanotte, altre unità russe, appoggiate da carri armati, ripresero l’attacco contro Makaroff il cui presidio fu sommerso, dopo aspra lotta, all’alba del 21.

Per tutto il giorno 21 gli attacchi si susseguirono violenti ed incessanti contro le posizioni italiane di Ilievka e delle colline circostanti; particolarmente violenta fu l’azione ripresa anche contro Dawido Nikolskii da dove gli italo – tedeschi furono costretti a ritirarsi cedendo le posizioni palmo a palmo per consolidarsi poi attorno al vicino villaggio di Transjederei.

Ancora una volta, nella giornata del 21, la resistenza delle nostre unità aveva precluso al nemico le vie di accesso ad Ivanowka e lo scardinamento del sistema difensivo. Ma i russi avevano ormai stabilito una larga testa di ponte al di qua del fiume (da Makaroff, attraverso Krushilowka, fino a Dawido Nikolskii, con una punta in profondità verso Ilievka) e su tale testa di ponte facevano affluire altre unità e mezzi per l’attacco finale. E se pure tale successo era loro costato gravi perdite, tuttavia essi non avevano difficoltà a rimpiazzarle con nuove forze in afflusso. Le perdite italiane, invece, avevano inciso troppo sulla già striminzita consistenza numerica delle unità e, a differenza di quelle russe, non erano rimpiazzabili. Diventava perciò aleatoria la possibilità di sostenere validamente l’ulteriore attacco in forze, che il nemico avrebbe certamente scatenato il giorno successivo.

Così, quando la nebbia e le ombre del crepuscolo calarono sulla zona, i fanti dei presìdi rimasti e quelli schierati all’addiaccio sulle colline, esausti, gelati e molti a digiuno, si accinsero a trascorrere un’altra notte con la sensazione di esser votati ad un olocausto senza speranza. Eppure in tutti vi era la ferma volontà di battersi fino all’ultimo perché non si potesse dire, come a torto qualcuno aveva detto dopo la battaglia sul Don, che «gli italiani avevano mollato».

Dopo una gelida notte, durante la quale i congelamenti avevano ulteriormente decimato i ranghi italiani, il combattimento riprese all’alba. Il presidio di Ilievka fu travolto dopo una resistenza durata tutta la mattinata e sviluppata sin nell’interno dell’abitato, strada per strada, isba per isba. Ad Ilievka cadde anche, fante tra i suoi fanti, l’animatore della resistenza, il ten. col. Lupo (del 38°) alla cui memoria fu poi conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Dopo la caduta di Ilievka il Comando italiano si preoccupò di concentrare la difesa sulle ultime alture che sbarravano la via di penetrazione verso Ivanowka. A tal fine fece affluire sulle posizioni attorno a q. 170 una compagnia del 38° e la 3^ del 37°, ritirando quest’ultima dalla tormentata posizione di q. 175 ormai troppo avanzata ed isolata. Ma le due compagnie, ridotte ad una quarantina di uomini ciascuna, avevano appena assunto il nuovo schieramento, quando fu loro ordinato di contrattaccare in direzione di Ilievka. I fanti, pur già tanto provati, avanzarono faticosamente allo scoperto, subendo altre perdite, tra le quali anche quella del comandante la compagnia del 38°, ferito subito all’inizio dell’azione. Quando però i reparti giunsero a breve distanza dall’abitato, vennero improvvisamente attaccati sul fianco sinistro e minacciati di completo accerchiamento da parte di una forte unità russa che si era infiltrata al coperto in una cortina indifesa. A stento i nostri fanti riuscirono a sottrarsi all’annientamento, ripiegando sulle posizioni di partenza, dove si schierarono ad attendere l’ultimo assalto nemico e la fine. Ma i russi, forse disorientati dal contrattacco del quale probabilmente non avevano ben valutato la debolezza e forse anche perché si avvicinava il crepuscolo, si arrestarono, rinunciando per il momento a tentare la conquista delle alture che proteggevano Ivanowka. E proprio da quelle alture, tenute a prezzo di tanti sacrifici, le prime riserve blindate tedesche, sopraggiunte all’imbrunire, poterono, con il concorso degli italiani superstiti, reiterare nella serata stessa il contrattacco e riconquistare Ilievka.

Il giorno successivo, il 23 gennaio, altre riserve tedesche sopraggiunte e le residue forze italiane sferrarono un nuovo contrattacco su tutta la fronte e ricacciarono i russi al di là di quel fiume che essi avevano attraversato con un obiettivo tanto ambizioso. Il 24, finalmente, i superstiti della «Ravenna» vennero ritirati dalla linea. Il durissimo compito era stato assolto; ma il prezzo pagato era stato ancora una volta molto alto: oltre 700 uomini tra caduti, feriti, congelati e dispersi erano stati perduti; di essi la maggior parte erano fanti. Il “Brava Ravenna” del generale Gariboldi comandante dell’ARMIR, l’elogio del comandante tedesco generale Fretter Pico, la citazione sul bollettino di guerra italiano n. 948, furono i riconoscimenti ufficiali del sacrificio e del valore.

Ma l’odissea dei superstiti che scendevano dalle colline, sfiniti dalla lotta, semicongelati, allucinati e affamati, non era ancora finita. Li attendeva una lunga e penosa marcia verso il Dnieper, marcia che doveva durare venti giorni sotto una nuova continua minaccia di annientamento da parte di potenti unità corazzate russe che, a fine gennaio, forzarono il Donez più a nord. Ma questa è un’altra storia tutta da raccontare.

Nel corso della narrazione il rilievo è stato dato alle vicende dei fanti della «Ravenna» perché essi pagarono, come in tutte le battaglie, il più alto tributo di sacrificio e di sangue. Anche artiglieri, genieri, carabinieri e militari dei servizi della Divisione si prodigarono senza sosta e senza risparmio; anch’essi subirono il tormento dell’ambiente, del clima e del fuoco nemico; anch’essi, in varie occasioni, si batterono, a fianco dei fanti, nella disperata difesa di un villaggio, di una isba, di una quota. La «Ravenna» si confermò sul Donez un blocco compatto di volontà, di tenacia e di valore immolando su quelle lontane rive i suoi uomini migliori che portavano nel cuore l’amore e la nostalgia struggente per i loro cari e per la loro terra.

CONSIDERAZIONI

La narrazione delle battaglie del passato non può e non deve avere il solo scopo, limitato se pure encomiabile, di rendere omaggio a coloro che si sacrificarono; essa deve anche tradursi in esame critico costruttivo inteso a rilevare, anche per evitare il loro ripetersi, gli errori commessi e le deficienze riscontrate. Sembra quindi opportuno formulare alcune considerazioni sulla organizzazione e sulla condotta delle operazioni descritte, anche se tali considerazioni saranno di portata modesta quanto modesti erano all’epoca il settore di azione ed il livello di osservazione di chi scrive. Nulla si può osservare sulla organizzazione iniziale del dispositivo di difesa dell’ansa di Krushilowka, La situazione delle forze, l’ambiente e l’ampiezza del settore non consentivano alternative e lo schieramento non poteva non risultare precario e inconsistente.

Per quanto attiene alla condotta della difesa anch’essa fu in gran parte imposta dalle circostanze. Tuttavia sembra che su alcuni particolari si possa discutere: per esempio sull’impiego statico e prolungato all’addiaccio di reparti privi anche dei mezzi più elementari per difendersi dai rigori del clima. Forse sarebbe stato più redditizio tenere quei reparti al riparo, almeno di notte, ed impiegarli poi in reazioni di movimento sulle direzioni lungo le quali si manifestavano, di volta in volta, le minacce di penetrazione del nemico. E’ vero che una simile condotta avrebbe comportato l’accettazione del rischio di qualche intervento non del tutto tempestivo; ma è anche vero che il rischio sarebbe stato ampiamente compensato dall’assai maggiore efficienza fisica e morale dei combattenti. In materia è da notare che neanche i russi sostavano di notte all’addiaccio, benché fossero perfettamente equipaggiati per la guerra invernale ed abituati a quel clima o, come i reparti siberiani, a climi più rigidi. Altro difetto della condotta della difesa fu l’impiego alla spicciolata dei pochi rincalzi recuperati dal sottosettore sud e dei primi rinforzi tedeschi affluiti. Un impiego a massa sarebbe stato molto più efficace. Tuttavia tale difetto non può essere attribuito a colpa dei Comandi perché imposto dalle situazioni critiche che si andavano determinando con ritmo incalzante. Viene comunque confermato l’antico insegnamento che, ove possibile, l’impiego dei rincalzi e delle -riserve deve essere massiccio e rapido per ottenere risultati tangibili.

Il settore, però, nettamente deficitario, almeno per i reparti più avanzati (chi scrive non ha elementi sufficienti per formulare considerazioni in linea più generale), fu quello logistico nei suoi aspetti del rifornimento vestiario ed equipaggiamento, dell’alimentazione, e dei rifornimenti armi, munizioni e materiali di rafforzamento. Sul Donez, non furono mai disponibili né sacchi a pelo né capi di corredo invernale. Sul Don erano stati distribuiti alle fanterie della «Ravenna», come dotazione di reparto, modesti quantitativi di cappotti con pelliccia e di calzari da vedetta, in quantità così esigua da risultare insufficienti anche per le sole vedette. E tutti erano andati perduti con le stesse vedette, prime vittime della offensiva russa del dicembre 1942. Così i fanti della «Ravenna» dovettero combattere sul Donez spesso all’addiaccio con lo stesso vestiario in uso in inverno in Iltalia (uniforme e cappotto di panno, fasce gambiere e Scarpe chiodate); e ciò in stridente ed amaro contrasto con il confortevole vestiario dei tedeschi (paraorecchi – giacca e pantaloni imbottiti a doppia mimetizzazione, bianca da un lato e verde dall’altro; stivaletti di feltro con suola di gomma) e con quello dei russi (berretto con pelliccia che copriva anche le orecchie; giacche e pantaloni imbottiti tipo strapuntino; stivali di feltro detti «valenki», tute bianche mimetiche per i reparti d’assalto). E’ ancora da notare che alcuni capi di corredo invernale, per lo più limitati a indumenti di lana, vennero distribuiti dopo i combattimenti sul Donez. Quanto al rancio, esso era scarso e insufficiente per calorie e più volte non arrivò ai reparti più esposti nel combattimento o arrivò loro completamente freddo; infine pochi generi di conforto vennero distribuiti solo molto saltuariamente. Come già detto non erano disponibili materiali di rafforzamento, nemmeno filo spinato e paletti per reticolati, essenziali per imbastire alla meglio delle posizioni difensive. Non vi erano mine e, a tratti, scarseggiarono anche le munizioni. Si aggiungano inoltre la scarsa potenza e, in taluni casi, l’inefficacia dell’armamento e del munizionamento, deficienze queste di carattere generale per tutti i fronti ed a tutti i livelli, ben note da più complete ed autorevoli trattazioni. In questo campo però, sarà opportuno citare qualche deficienza maggiore riscontrata per le armi della fanteria nel particolare ambiente. Mancavano armi controcarri efficaci (i cannoni da 47/32 non erano in grado di perforare le corazze dei carri pesanti russi); le bombe a mano, disponibili solo nel tipo offensivo, di scarsa potenza, spesso non scoppiavano sulla neve, così come, peraltro, avveniva per le poco potenti bombe del mortaio da 45 mm; il massimo calibro dei mortai italiani era di 81 mm, mentre i russi disponevano abbondantemente di quelli da 120 mm; mancava alla fanteria un’arma individuale automatica (mitra) o semiautomatica mentre i russi e i tedeschi disponevano rispettivamente degli efficientissimi parabellum e machine – pistole. Infine il fucile mitragliatore Breda 30, arma delicatissima, era sensibile al freddo in quanto il suo funzionamento era basato sulla lubrificazione ad olio, olio che gelava rapidamente alle rigide temperature invernali della zona; tanto che in postazione l’arma era avvolta in coperte contenenti all’interno, quando se ne poteva disporre, un mattone caldo. Uniche armi realmente efficienti erano le mitragliatrici Breda 37, ma, purtroppo, ai fanti della «Ravenna» ne era rimasto, sul Donez, un numero esiguo.

Non è questa la sede, né chi scrive è qualificato per indagare sulle cause e sulle responsabilità delle deficienze descritte che obbligarono i nostri fanti a battersi in condizioni di enorme inferiorità non solo numerica ma anche di mezzi. Ma un ammaestramento si può trarre e non è affatto nuovo: prima di intraprendere qualsiasi campagna od operazione bellica è dovere imperativo dei responsabili politici e militari predisporre i mezzi logistici non solo nella misura strettamente necessaria, ma anche in esuberanza, per essere in grado di far fronte alle possibili perdite e ad esigenze impreviste; e quando i mezzi sono stati approntati è necessario che essi siano fatti affluire tempestivamente alle unità, dando la precedenza assoluta a quelle più esposte sulla linea del fuoco; diversamente il prezzo del sacrificio è sempre sproporzionato ai risultati.

Oggi l’Esercito ha meccanizzato i suoi fanti, li ha dotati di armi moderne, potenti ed efficienti e di un corredo confortevole e completo, li nutre con alimenti variati ed a calorie ben dosate, ne cura il benessere ed il morale. Così, quando si vedono sfilare questi giovani di oggi, disinvolti e generosi, sui loro veloci mezzi cingolati, appare sfocata e quasi irreale la figura patetica del vecchio fante che si trascinava sulla neve, malvestito, infagottato e mal nutrito, tanto da giustificare l’appellativo un po’ ironico e un po’ pietoso di «marmittone».

Eppure tale figura è stata una realtà dolorosa ed eroica di molti umili, tenaci e generosi figli del nostro grande popolo.

Gen. Aldo De Carlini  Da “Rivista Militare”

Il Generale di Corpo d’Armala Aldo De Carlini proviene dai corsi regolari dell’Accademia di fanteria e cavalleria di Modena. Ha partecipato alla campagna di Russia 1942-43, quale Comandante di compagnia nel 37° reggimento fanteria «Ravenna» ed è stato poi partigiano combattente in Italia settentrionale. Laureato in giurisprudenza, in seguito ha frequentato la Scuola di Guerra e ricoperto incarichi vari di comando e di Stato Maggiore tra i quali: Comandante del 40° reggimento fanteria, Capo di Stato Maggiore del V Corpo d’Armata, Capo Divisione Operazioni del Comando Forze Alleate Sud – Europa, Comandante della Divisione «Cremona» e Vice Comandante della Regione Militare Tosco – Emiliana. E’ attualmente Presidente del Sottocomitato Regionale Sud – Europa del PBEIST e della Commissione interministeriale per lo studio dei trasporti nazionali. E’ decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare sul campo.