LA DIVISIONE FANTERIA “RAVENNA” – 1^ Parte

  

Una diffusa pubblicistica, storica e narrativa, ha finora fornito ampi resoconti delle battaglie sostenute sul Don dall’8″ Armata italiana in Russia (ARMIR) e della successiva tragica ritirata delle sue unità. E’ naturale che tali eventi abbiano polarizzato l’attenzione degli scrittori e del pubblico per l’entità delle forze in essi coinvolte (più di 230.000 uomini), le spaventose perdite subite e la tragica sorte di oltre 80.000 prigionieri. ln tal modo però è stata lasciata piuttosto in ombra la descrizione di operazioni particolari che, pur essendo state effettuate da forze di minore entità, meritavano di esser meglio conosciute, sia per la loro intrinseca importanza sia perché in esse rifulsero ancora una volta lo spirito di sacrificio ed il valore del soldato italiano. Poco noti sono, tra gli altri, i combattimenti sostenuti sul Donez, nel gennaio 1943, dalla Divisione «Ravenna» nel quadro di una battaglia di contenimento di vitale importanza per tutto il fronte russo meridionale. Eppure la «Ravenna» fu l’unica unità italiana che partecipò a quella battaglia, svolgendovi un ruolo di primaria importanza; e ciò fece, sostenendo, coi pochi superstiti delle precedenti battaglie sul Don, l’urto di preponderanti forze russe e pagando ancora una volta un altissimo tributo di perdite. Non sembra pertanto superfluo rievocare i momenti salienti di quegli eventi. Onde, però, meglio comprendere in quali critiche condizioni dovette battersi la Divisione sul Donez, occorre ricordare brevemente le prove che essa aveva sostenuto in precedenza sul Don.

LA BATTAGLIA SUL DON E LO SCHIERAMENTO SUL DONEZ

La «Ravenna» aveva lasciato la zona di Alessandria – Tortona, in Piemonte, tra il 10 e l’11 giugno 1942 e, dopo dieci giorni di viaggio in tradotta, aveva raggiunto la zona ad ovest di Kakov in Ucraina. Là era stata sbarcata in vista di una sua possibile partecipazione alla battaglia di Isjum, battaglia che però si concluse sanguinosamente mentre i reparti della «Ravenna» scendevano dai treni. La Divisione dovette allora raggiungere per via ordinaria – i fanti a piedi – la zona di Stalino, dove I’ARMIR doveva radunarsi, che distava oltre 430 km dalla zona di sbarco. Dalla zona di radunata, la «Ravenna» iniziò poi, senza sosta, la lunga marcia di avvicinamento al Don, che fu raggiunto tra l’8 e il 9 di agosto. ln cinquantuno giorni, i fanti della Divisione avevano marciato per circa 870 km nel soffocante, nero polverone delle piste ucraine, sopportando nell’arco diurno temperature torride, in condizioni di alimentazione piuttosto precarie e portando a spalla e sui muli tutto l’armamento ed il munizionamento individuale e di reparto.

Il 10 agosto, senza poter riposare dopo le marce sfibranti, i combattenti della «Ravenna» diedero il cambio a reparti tedeschi che si erano da poco attestati al Don; era questo fiume il mitico «Tanai» degli antichi che un «best seller» del primo dopoguerra aveva definito «placido», ma che tutt’altro doveva rivelarsi per gli italiani nei mesi seguenti. Alla Divisione venne assegnato il settore dell’ansa di Werch Mamon, sulla quale i russi avevano conservato, con testarda tenacia, una testa di ponte. L’ansa, a forma di grosso pollice rivolto verso nord, è sita grosso modo al centro del medio corso del fiume, che in tale tratto ha andamento generale da nord – ovest a sud – est. La testa di ponte russa risultava facilmente difendibile col fuoco da tre lati della sponda opposta; essa rappresentava inoltre una base di partenza ideale per una controffensiva che mirasse a scardinare al centro lo schieramento dell’ARIVIR ed a cadere sul tergo dell’intero fronte tedesco meridionale, allora spinto pericolosamente in profondità fino a Stalingrado e nel Caucaso. Alla Ravenna era quindi affidata la responsabilità di difendere il settore più delicato e vulnerabile di tutta l’Armata italiana. Prova ne furono, verso la fine dello stesso agosto ed in settembre, i massicci attacchi sferrati nell’ansa dai russi, attacchi tutti stroncati dalla Divisione al prezzo di perdite molto elevate. Ma fu poi, nel dicembre, che il nemico esercitò nello stesso settore lo sforzo principale dell’offensiva contro l’ARMIR.

In tale offensiva i russi scagliarono contro la «Ravenna» un’Armata di sette Divisioni (della guardia e di fanteria) ed un Corpo corazzalo di circa cinquecento carri armati, appoggiando l’operazione con circa 5.000 bocche da fuoco, tra mortai pesanti (circa 120), artiglierie e lanciarazzi multipli (detti «Katiuscie» o «Organi di Stalin»). II rapporto era di circa un pezzo per ogni venti metri di fronte attaccato. Per sei lunghi giorni si protrasse la disperata resistenza, durante la quale i reparti avanzali della Divisione persero il 75 -+ 80% degli effettivi. Poi i russi aprirono una breccia nelle nostre posizioni e dilagarono alle spalle dei due tronconi dell’ARMIR lanciando i corazzati in profondità a scompigliare comandi e retrovie.

Due colonne della «Ravenna» in ripiegamento finirono accerchiate e dei loro componenti pochi si salvarono molto più tardi: tra questi, quelli circondati, con altri, a Tschertkovo, che solo a metà gennaio riuscirono ad aprirsi un varco verso la salvezza dopo aver sostenuto un assedio di 27 giorni e subìto enormi perdite. Alcune colonne minori della «Ravenna», che si trovarono invece nello spazio vuoto tra le direttrici divergenti dell’avanzata russa, poterono sottrarsi all’accerchiamento e raggiungere il fiume Donez e la città di Voroschilovgrad. Là i superstiti furono raccolti e riordinati alla meglio in reparti di formazione. Con i resti dei due reggimenti di fanteria (37° e 38°) furono costituiti tre battaglioni di formazione composti di compagnie fucilieri, aventi ciascuna una forza media di 110- 120 uomini, scarse armi leggere di reparto e pochissime armi pesanti. Inclusi i comandi ed i servizi, i due reggimenti non superavano, nell’insieme, la forza di 1.400 uomini; era tutto ciò che restava degli oltre 7.000 già impegnati sul Don (oltre 3.000 per reggimento partiti in giugno dall’Italia più un migliaio di complementi giunti nell’autunno). In appoggio ai due reggimenti furono schierati subito i resti dei reparti mortai da 81 della Divisione; poi, a partire dal 13 gennaio, furono disponibili poche artiglierie, con materiali in gran parte prelevati dalle scorte d’Intendenza. I materiali già in dotazione erano infatti stati quasi tutti perduti o per azione nemica o per mancanza di carburante per i trattori (si trattava di artiglierie motorizzale). In totale sul Donez si schierarono una batteria da 75/27, una batteria da 100/17, due pezzi da 105/28 e una batteria contraerei da 20 mm, quest’ultima non utilizzabile per la manovra del fuoco date le sue caratteristiche. In complesso quando, come vedremo, la Divisione fu schierata nel settore di Krushilowka essa poté disporre, per la manovra del fuoco, solo di una decina di pezzi di piccolo e medio calibro con il seguente rapporto pezzi – fronte difensiva: inizialmente, quando il settore era ampio circa 45 km, un pezzo ogni 4,5 km di fronte; in secondo tempo, quando il settore fu ristretto a circa 25 km, un pezzo ogni 2,5 km di fronte. E ciò contro un nemico che era solito attaccare con l’appoggio di potentissimi schieramenti di artiglieria e mortai pesanti. (Abbiamo infatti visto che sul Don, contro la «Ravenna», i russi avevano schierato all’incirca un pezzo ogni 20 metri di fronte attaccata). Ridotti erano anche i reparti del genio artieri e collegamenti e deficitari i servizi, specie quelli di commissariato per le branche vestiario e vettovagliamento e quelli di artiglieria per il rifornimento munizioni e del genio. Anche i Comandi erano ridotti all’osso e molti dei comandanti erano stati perduti sul Don e nella ritirata, inclusi i colonnelli comandanti dei due reggimenti di fanteria e tutti gli ufficiali superiori del 37°. Infatti il comando di quest’ultimo reggimento fu affidato sul Donez ad un maggiore del 38° ed il comando del battaglione di formazione ad un maggiore di complemento neo promosso e da poco rientrato dall’ospedale dove era stato ricoverato per ferite riportate sul Don. In totale la Divisione «Ravenna» poteva schierare circa 2.700 uomini, in gran parte. spossati e mal nutriti, ai quali facevano difetto non solo le armi di reparto e le munizioni ma anche i capi di vestiario ed i materiali di equipaggiamento essenziali per sopravvivere in quell’ambiente ed in quella stagione. Le vicende della precedente battaglia e della ritirata avevano anche causato ad alcuni militari la perdita di oggetti indispensabili, quale ad esempio la gavetta. Non era raro, infatti, vedere gruppi di due o tre soldati consumare la misera pasta in brodo in un elmetto capovolto dai cui fori laterali lo stesso brodo usciva zampillando come dai getti di una fontanella. Tutti, però, avevano salvato l’arma individuale e le giberne.

Questi erano verso fine dicembre i resti della «Ravenna» a Voroschilovgrad, destinati all’immediato reimpiego nel quadro di una disastrosa situazione generale del fronte russo meridionale. ln quel momento infatti gran parte dei resti dell’Armata ungherese, dell’ARMIR e di due Armate rumene, accerchiati ad ovest del Don e in gran parte spezzettati in colonne eterogenee, cercavano disperatamente di aprirsi un varco verso la salvezza; la 6″ Armata tedesca era assediata a Stalingrado e destinata al totale annientamento; le forze tedesche del Caucaso ripiegavano rapidamente per non farsi tagliar fuori; le riserve tedesche richiamate da altri fronti erano ancora lontane; infine forze fresche russe, non impegnate nelle battaglie di annientamento ad ovest del Don, puntavano veloci verso il medio Donez con l’obiettivo ambizioso di superare il fiume di slancio, impadronirsi di Voroschilovgrad e del bacino minerario e dilagare infine verso il Dnieper alla ricerca di un successo che avrebbe avuto conseguenze incalcolabili sull’andamento delle operazioni sull’intero fronte russo. Occorreva quindi contenere il nemico sul medio Donez almeno per il tempo necessario a far affluire riserve da tergo ed a recuperare le truppe ancora ad est del fiume e non già irrimediabilmente perdute. A tal fine furono gettate a scaglioni nella lotta tutte le forze che via via venivano recuperate; tra le prime anche le poche della «Ravenna» che si stavano riordinando a Voroschilovgrad. A partire dal Natale 1942 i primi reparti di formazione della Divisione vennero avviati a difendere i ponti di Wesselaja, Gora e di Luganskaia a nord di Voroschilovgrad. Ma il 1° gennaio 1943 la «Ravenna» passò a far parte del gruppo tedesco del generale Fretter Pico e, la sera del 2, ricevette l’ordine di andare a schierarsi, sempre sul Donez, nell’ansa di Krushilowka (ad est di Voroschilovgrad e a nord di Kamensk). Il nuovo schieramento fu assunto entro l’Epifania dopo aver effettuato il trasferimento a marce forzate con temperatura glaciale e sotto continue tormente di neve. In quelle penose condizioni, la 3^ compagnia del 37°, destinata a Belenki che era il punto di schieramento più a sud, percorse in poco più di tre giorni circa 90 km. (Per i movimenti di afflusso, Io schieramento e le operazioni fino al 13 gennaio incluso.

Il nuovo settore affidato alla «Ravenna» si estendeva frontalmente per circa 45 km dalla confluenza Derkul – Donez fino alla località di Belenki inclusa. In quella zona il Donez corre con corso variabilmente sinuoso prima in direzione ovest – est e poi in direzione approssimativa nord – sud formando una grande ansa ad angolo quasi retto con vertice nei pressi di Krushilovka. In quel gennaio il fiume, gelato in superficie, costituiva ostacolo solo per mezzi pesanti, ma poteva essere agevolmente attraversato da uomini a piedi, animali e traini leggeri. Ai due lati del fiume il terreno è movimentato da dolci colline e cime tondeggianti e pelate; le colline, alquanto più elevate nella fascia a destra del fiume stesso dove le quote massime si aggirano attorno ai 180 metri s.l.m., sono intersecate da vallette, chiamate balke; queste sono percorse da ruscelletti che in inverno gelano e vengono utilizzali nei tratti più agevoli per il movimento delle rudimentali slitte locali. La vegetazione consisteva allora di macchie boschive isolate, a prevalenza di sempreverdi, scarse e poco estese nelle zone di testata delle balke, più numerose ed estese sulle rive del fiume, specie su quella sinistra, dove consentivano l’occultamento di ingenti forze e mezzi. Le piste che, almeno allora, tenevano in luogo di strade, erano gelate, innevate e spesso difficilmente reperibili, specie in caso di tormenta. Il suolo, la cui superficie è costituita dalla fertile terra nera ucraina, era durissimo per il gelo, innevato, e si presentava uniformemente bianco. La neve, non molto alta, aveva in superficie una crosta gelata che cedeva sotto il peso dell’uomo facendolo affondare di colpo e rendendo così estremamente faticosa la marcia. Gli abitati, quasi tutti villaggi di poche decine di isbe (3), giacevano per lo più nelle conche vallive o agli sbocchi delle balke verso il fiume ed erano quindi dominati dalle alture circostanti; ciò evidentemente per protezione dai venti e dalle bufere di neve assai violenti e frequenti d’inverno. Nel candore accecante del panorama e con le loro basse isbe, ricoperte di neve, gli abitati erano individuabili solo da breve distanza. Tra un villaggio e l’altro non c’erano che le poche macchie boscose e qualche raro pagliaio allo scoperto, ma non esisteva alcun elemento, naturale o manufatto, che offrisse riparo contro il freddo e le intemperie. La temperatura, non sempre troppo rigida al culmine dell’arco diurno quando non c’era bufera, era sempre rigidissima di sera, di notte e di primo mattino; nella zona e nei giorni dei combattimenti, quando imperversarono anche violente bufere di neve, scese di notte fino a 43 gradi sotto zero.

All’alba ed all’imbrunire (quest’ultimo molto precoce in quella stagione) una bruma fredda ricopriva tutta la zona con un velo ovattato. Allora il bianco della neve sfumava nel grigio della nebbia confondendo i contorni del cielo e della terra ed il silenzio era così assoluto che sembrava quasi di udirlo. Il tutto creava un’atmosfera irreale, allucinante ed angosciosa. In simile ambiente la sopravvivenza era possibile solo negli abitati, mentre le posizioni dominanti, idonee ad investirvi le difese statiche, erano, come già si è rilevato, esterne agli abitati e prive di ripari. Per occupare a difesa tali posizioni sarebbe quindi stato necessario apprestarvi postazioni e rifugi ben protetti, scavando il terreno reso durissimo dal gelo. Ma, per ciò fare, occorrevano molto tempo, attrezzi meccanici e abbondanti materiali di rafforzamento. La «Ravenna» non disponeva né dell’uno né degli altri e nemmeno di attrezzi manuali pesanti in quantità sufficiente. Pertanto fu giocoforza imperniare le difese statiche sugli abitati, cioè su posizioni tatticamente deboli. Inoltre l’ampiezza del settore (come già detto, circa 45 km), assolutamente sproporzionata rispetto alle forze disponibili, costrinse a proiettare la difesa quasi tutta in avanti e a dislocare tutte le scarse forze di fanteria negli elementi statici, rinunziando ad avere alla mano riserve o rincalzi di sorta. Ciò malgrado, rimanevano ancora ampie cortine indifese che non era possibile controllare se non saltuariamente; due di queste cortine, quella tra Krushilowka e Dawido Nikolskii e quella tra quest’ultima località e Bolschoi Suchodol si estendevano per oltre 12 km. Non occorre essere esperti di arte militare per comprendere quanto tale situazione fosse precaria e pericolosa per il difensore e, invece, favorevole per l’attaccante. Quest’ultimo, infatti, poteva organizzare, sulla sua sponda, basi di partenza e zone di dislocazione delle riserve perfettamente occultate e diradate, avvalendosi delle molte macchie boscose e dei piccoli abitati sparsi; poteva passare agevolmente ed in sicurezza il fiume nei tratti non visti e non battuti dal difensore; poteva, infine, infiltrandosi nelle cortine, aggirare ed investire dall’alto gli elementi statici della difesa.

Gen. Aldo De Carlini