IL MIO OTTO SETTEMBRE 1943

  

Terminato il corso presso la Regia Accademia Aeronautica di Caserta, nel giugno 1943 ero stato assegnato alla Scuola di Specialità Caccia di Foligno, alla fine dello stesso mese trasferita sull’aeroporto di Osoppo in provincia di Udine. Il massimo desiderio mio e dei miei compagni di corso era di poter terminare al più presto l’addestramento specifico per raggiungere i nostri colleghi più anziani tanto duramente impegnati a contrastare nei cieli della Sicilia lo sbarco alleato. Anche se era ormai sempre più evidente che la guerra stava rapidamente avviandosi verso la nostra inevitabile sconfitta, per noi giovani era arduo, tanto arduo, convincercene.

La sera dell’8 settembre ero in casa di amici a Tricesimo, un paesotto della zona, quando venni a conoscenza dell’avvenuto armistizio. Superfluo dire che per me fu una mazzata terribile per il senso di frustrazione e di umiliazione che dolorosamente pativo. Avvertivo che ognuna delle copiose lagrime che non riuscivo a trattenere lacerava la mia carne come dolorosi colpi di stiletto. Ero completamente frastornato, anche perché non riuscivo a capacitarmi di come la esplosiva gioia della popolazione civile e soprattutto quella degli Alpini (stavamo nella zona dove regnava sovrana la gloriosa Divisione Julia) potesse non consentir loro di comprendere, o almeno intravedere le tragiche conseguenze dell’armistizio per ognuno di noi e per la Patria tutta.

Rientrati immediatamente in aeroporto, ad ognuno di noi ufficiali fu assegnata una squadra composta da sottufficiali e da avieri, tutti armati con mitragliatrice pesante, fucili e bombe a mano, a difesa di eventuale attacco da parte di partigiani slavi, ma nessuno di noi, dico nessuno, ipotizzava un attacco da parte di truppe germaniche.

Al mattino seguente, privi di qualsiasi informazione e soprattutto in mancanza di direttive da parte delle Autorità Militari Centrali, fu deciso di far decollare verso non specificati aeroporti del Sud (in effetti…scelti…ad libitum dai singoli piloti!!) tutti i velivoli efficienti, sorteggiandone i nomi dei piloti.

lo cedetti l’aereo, a me assegnato per sorteggio, ad un carissimo fraterno collega, la cui famiglia era già in affanno e trepidazione per l’altro figlio, ufficiale dell’Esercito, dato per disperso durante le operazioni connesse con lo sbarco alleato in Sicilia. Partiti gli aerei fu deciso il trasferimento – via terra – del restante personale sull’aeroporto di Aviano, distante circa 40 chilometri, importante sede di Reparti operativi dove si sperava fossero pervenuti – almeno colà – ordini e direttive dagli Alti Comandi Centrali,

Con i pochi autocarri disponibili e di limitata capienza, i famigerati autocarri l’Ovunque”, fu giocoforza disporre il trasferimento di tutto il personale della Scuola con un doppio viaggio: a me toccò far parte del primo scaglione. Purtroppo fu subito evidente che anche ad Aviano, per la identica totale mancanza di ordini e direttive, la situazione era addirittura peggiore. Decidemmo così di rientrare per ricongiungerci con il personale del secondo scaglione, ancora colà rimasto con il Comandante della nostra Scuola. Mentre sostavamo all’interno del piccolo aeroporto di Casarsa della Delizia per rifornirci di carburante fummo raggiunti da una lunga colonna di carri armati tedeschi diretti a Trieste (il resto della Divisione – ci dissero – era diretta a Venezia) e fummo fatti tutti prigionieri. Il giovanissimo Comandante tedesco fece incolonnare i nostri sei-sette automezzi al centro della sua colonna carri che, sferragliando con un fragore infernale, riprese la marcia: attraversammo il Tagliamento, raggiungendo poco dopo Udine dove evidentemente per la colonna tedesca era prevista una lunga sosta. Lì il Comandante tedesco, nella constatazione che la nostra presenza era di notevole impedimento per la sua colonna con camerateschi saluti; ed auguri pose fine alla nostra breve… prigionia, lasciandoci liberi.

Seguendo strade secondarie, raggiungemmo il paese di Maiano, ad un paio di chilometri dal nostro campo, dove la popolazione locale ci avvertì che nel pomeriggio l’aeroporto era stato occupato da forze tedesche. Occupazione….blanda, in realtà, perché i nostri colleghi ufficiali erano liberi di circolare entro l’area aeroportuale, che consisteva, in realtà, in un grande prato senza alcuna recinzione, mentre i sottufficiali e gli avieri dovevano rimanere nei loro alloggiamenti.

Fu facile quindi per un paio di ufficiali del nostro gruppo andare in aeroporto e contattare il nostro Comandante che in nottata ci fece recapitare, unitamente a qualche centinaio di lire a testa, un pacchetto di licenze regolarmente da lui firmate con la motivazione “in attesa di disposizioni ministeriali”.

Fu così che, alle prime luci dell’11 settembre 1943, munito di un documento di identità rilasciatomi dal Comune di Maiano e lasciato tutto il mio bagaglio presso il piccolo albergo del paese, cominciai, insieme ad alcuni colleghi, la dolorosa odissea del lungo e triste ritorno a casa. Nel contempo venimmo informati che l’atteggiamento delle truppe tedesche era diventato estremamente ostile nei riguardi degli italiani, e cosi, dopo due giorni di lunghe, non dimenticate ed inenarrabili peripezie a piedi per sfuggire alla temuta rappresaglia tedesca, arrivammo a Portogruaro, dove fummo piacevolmente sorpresi nel constatare che la stazione ferroviaria era, almeno in apparenza, pienamente funzionante.

Dopo lunga attesa, riuscimmo a salire su un treno, proveniente da Trieste, oltremodo stracarico di nostri militari sbandati dai Balcani – incredibile! – diretto a Roma. La gioia però fu di breve durata. Dopo qualche chilometro i ferrovieri, fermato il treno in aperta campagna fecero scendere tutti noi perché erano stati avvertiti che alla stazione ferroviaria di Mestre truppe tedesche…impacchettavano su tradotte, composte da carri bestiame, tutti gli uomini in giovane età, spedendoli prigionieri direttamente, in Germania.

Braccati, vagammo a piedi per tre giorni per decine e decine di chilometri per le campagne di Mogliano Veneto, Scorzè, Campo Sampiero, Mira e Mirano in un estenuante andirivieni. Di quei giorni estremamente tristi non ricordo tanto le fatiche fisiche, le apprensioni, i timori, il morale distrutto per la guerra perduta, quanto l’accoglienza e la generosa solidarietà delle popolazioni venete che ci attendevano al di fuori dei centri abitati, in aperta campagna, per offrirci in abbondanza pagnotte di pane, frutta, formaggio e vino.

ln qualche modo arrivammo a Rimini ed il giorno dopo raggiunsi rocambolescamente, la stazione di Falconara Marittima, stando aggrappato all’esterno di un vagone con i piedi in precario equilibrio sui respingenti del vagone stesso. Ancor oggi tremo al ricordo del pericolo incoscientemente affrontato.

La mattina dopo – era il 20 settembre 1943 – allo stremo della stanchezza psichica e fisica, finalmente munito di regolare biglietto di ‘l ^ classe e con un viaggio alquanto veloce e comodo da Falconara Marittima, raggiunsi direttamente la Stazione di Roma Tiburtina (Roma Termini era ancora inagibile dopo il bombardamento della Capitale).

Il bacio della mia mamma, che in realtà si manifestò come un doloroso morso che rimase impresso sulla mia guancia per qualche tempo, pose fine alla sua ansia ed alla mia odissea di quei giorni indimenticabili.

A conclusione di questa mia testimonianza, espressa in assoluta aderenza ai fatti ed in piena libertà di giudizio, libertà per la quale, a differenza di tanti politicanti e/o pseudo partigiani, ho combattuto poi il nazifascismo con le armi in pugno, sento come mio desiderio/dovere esprimere alcune considerazioni personali sugli avvenimenti di quei giorni tanto tristi ed oscuri per la mia Patria e così determinanti sul mio conseguente comportamento di Ufficiale.

ln primis, esprimo e confermo tutto il mio sentito e più profondo disprezzo per il vergognoso comportamento del Governo, e purtroppo anche di tanta parte delle massime autorità militari, per come hanno gestito i drammatici eventi di quei giorni. Il precipitoso abbandono di Roma verso il Sud, lasciando l’intero Paese nel caos più completo, fu l’atto finale dell’imprevidenza, dell’incapacità e del vigliacco comportamento di Badoglio e dei suoi accoliti di Governo. Con il completo disfacimento delle Forze Armate si concludeva nel modo più vergognoso la nostra tragica partecipazione alla guerra.

La costituzione della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, all’ombra dei tedeschi, nonostante i miseri tentativi di giustificazioni proclamate al momento e contrabbandate in epoca successiva, non fu in alcun modo – a mio personale parere – un atto patriottico, ma solo espressione di ambizione di potere, desiderio di rivalsa politica di qualche nostalgico, ma soprattutto fu manifestazione di paura fisica dei più nei riguardi degli occupanti: molto probabilmente fu anche causa concomitante del sanguinoso prolungamento delle operazioni militari sul nostro territorio.

Ammetto, ma non giustifico, che una minoranza di puri di cuore ha combattuto con onore al nord insieme alle truppe germaniche. Ho detto – non giustifico – perché il rispetto dovuto per la immensa sventura della Patria esigeva che le venisse almeno risparmiata l’onta della guerra civile, che ne era la tragica ineluttabile conseguenza.

Tutte queste vicende hanno generato in me, nato a vissuto nel clima politico dell’epoca una forte reazione antifascista ed antitedesca da me mai, ripeto mai, sentita prima di allora e per questo, seguendo la bandiera dell’Italia, la mia bandiera, sentii che era mio ineludibile dovere continuare a far parte della Regia Aeronautica, come da giuramento liberamente fatto in Accademia ed intimamente sentito.

Personalmente poi, in antitesi con il prevalente giudizio della massima parte dei miei connazionali, non ho mai considerato fuga l’abbandono della Capitale da parte della Corona per trasferirsi in altra località dell’Italia libera. Solo così, con la sopravvivenza fisica ed in libertà di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III, potevano essere salvaguardate, come in realtà furono salvaguardate senza soluzione, sia la sovranità sia la continuità dello Stato Nazionale. Se in quel frangente il Sovrano fosse rimasto a Roma, certamente, a guerra finita, sarebbe stato considerato filonazista e collaborazionista, come – in realtà – accadde a Leopoldo II, Re del Belgio, rimasto in Patria durante l’occupazione tedesca.

In conclusione, seguendo la mia bandiera al Sud, sono personalmente orgoglioso di aver mantenuto fede al mio giuramento giovanile fino all’avvento costituzionale della Repubblica, di cui sono ora cittadino altrettanto leale e fedele.

Gen. Squadra Aerea (c.a.) Umberto Bernardini

Da “ILNASTRO AZZURRO” n°5-2008