Alessia Biasiolo Il nazismo e l’alimentazione 1933- 1945

  

DI ALESSIA BIASIOLO

 

Le teorie alimentari tedesche relativamente al cancro, consideravano che si trattasse di una malattia dovuta meno a germi o agenti chimici (gli studi venivano comunque condotti lo stesso per cercare di trovare, o di escludere, qualche possibile causa patogena) che a processi disfunzionali dell’organismo. L’insorgenza del cancro, infatti, era messa in relazione allo stress e alla cattiva alimentazione, qualcosa cioè che, indebolendo l’organismo, favoriva l’insorgenza della terribile malattia. Per molti scienziati, come Liek, il cancro era una malattia del corpo nel suo complesso: le cause potevano allora essere genetiche, alimentari, appunto, stressogene, eccetera. Chi sosteneva, con Liek, questa teoria, ed erano in molti, caldeggiavano un’alimentazione povera in proteine e zuccheri e ricca di fibre e frutta. Il timore più grande, infatti, era evidenziare come il cancro colpisse persone in buona salute, pertanto venivano consigliati periodi di digiuno e la riduzione del consumo di carne. Anche per la gioventù hitleriana era stato prodotto un manuale dal titolo “La salute attraverso una corretta alimentazione” e, tra i vari consigli, quello più interessante proponeva l’uso della soia come sostituto della carne. Altro interesse riguardava la lotta alla stitichezza, condotta con l’utilizzo soprattutto di pane integrale. L’uso della carne era stato ripetutamente demonizzato, come già abbiamo scritto, soprattutto alla luce dell’alto consumo che si praticava nella Germania nazista e del fatto che Hitler fosse vegetariano. Si pensava che la carne fosse causa di aggressività, di golosità pericolosa e lesiva della salute fisica e morale, tanto come alla generazione precedente di tedeschi era stato insegnato che l’utilizzo di frutta e verdura fosse dannoso. Allo stesso tempo, la campagna di Hermann Göring contro la vivisezione, aveva portato al maggiore rispetto degli animali: annunciata nell’agosto 1933, la fine della pratica della vivisezione aveva condotto ad un’intensa campagna a favore della posizione salutistica del maresciallo, che minacciava di inviare ai campi di concentramento quanti avessero ancora torturato gli animali per studi ed esperimenti scientifici. Il dibattito alimentarista, però, non si quietò, anzi. Da un lato la scuola di pensiero che aveva sostenuto come frutta e verdura portassero al cancro, opinione controbattuta da quanti analizzavano come popolazioni asiatiche come quella indiana avessero una bassissima percentuale di cancro, malgrado il forte uso di verdura; dall’altra parte c’era chi considerava, ancora nel 1942, che la popolazione “pura” della Groenlandia avesse una bassissima incidenza di cancro malgrado il consumo quasi esclusivo di carne. A questo si affiancavano studi effettuati in Francia, secondo i quali i macellai, che maneggiavano costantemente la carne, non era quasi mai malati di cancro, quasi che (come per il vaccino) diventassero immuni alla malattia grazie al proprio lavoro. Naturalmente, queste considerazioni andavano di pari passo all’approvvigionamento tedesco di derrate alimentari. Infatti, negli anni Trenta veniva deplorato l’utilizzo di tanto terreno per produrre cereali adatti all’alimentazione del bestiame, quando si sarebbero potuti utilizzare i campi per l’alimentazione umana. E c’era anche chi denunciava questa politica, e la relativa campagna pubblicitaria per la popolazione, alla luce della scarsità di cibo circolante, dovuto alla necessità di scorte per i militari e alla politica di autosufficienza agricola che aveva notevolmente ridotto le scorte della Germania.

Tornando comunque alla necessità di imitare il capo, soprattutto fra coloro che gli volevano essere più vicini, era risaputo che Hitler fosse vegetariano e che non bevesse né fumasse. Il suo stile di vita era studiato anche prima del suo avvento al governo, ad imitazione del suo essere nazista da parte soprattutto degli adepti. I giornali del tempo, comunque, riportavano come talvolta il Führer si concedesse qualche fettina di prosciutto, degli gnocchetti di fegato bavaresi, del piccione, del caviale e dei cioccolatini, malgrado i suoi interessi, citati anche in conversazioni con amici e altri intimi, vertessero sulla possibilità di cibarsi solo di frutta, verdura e cereali crudi, perché la cottura, sterilizzando gli alimenti, li privava del loro naturale potere benefico. Si interessava dell’uso delle erbe e dei bagni terapeutici di acqua fredda; sosteneva la necessità di utilizzare olio d’oliva, molto salutare, limitando l’uso del grasso di balena, anche per evitare la decimazione dei cetacei. Sembra che la maggiore influenza sugli usi alimentari di Hitler l’avesse avuta Richard Wagner, sostenitore di come e quando la razza umana si fosse mescolata e contaminata proprio per l’utilizzo di carne. Le teorie sulle abitudini alimentari di Hitler sono molte: alcune sostengono che la motivazione vera alla rinuncia alla carne derivasse dall’aver preso alla lettera l’appello wagneriano; altri sostengono che avesse problemi digestivi derivanti dalla difficoltà di metabolizzare la carne, da cui il relativo privarsene; altri ancora sostengono che la propaganda contro l’uccisione degli animali a scopo di alimentare l’uomo, non fosse altro che una modalità per dipingere il capo supremo della Germania nazista come buono e premuroso, per sfatare l’idea del persecutore senza scrupoli. Non ci sono prove certe che Hitler temesse di contrarre il cancro, mentre è certo che altri gerarchi fossero fautori delle terapie naturali, come Himmler che sosteneva l’uso di verdure crude, la medicina naturale, il prendere esempio dalle diete orientali. Himmler odiava l’obesità e lanciò una campagna per combatterla tra le SS che dirigeva. Fu sua l’idea di piantumare nei campi di concentramento e in alcune caserme orti di erbe, così come si oppose alla distribuzione di miele artificiale alle SS, e all’adulterazione degli alimenti. Himmler era fautore di una pubblicità rivolta alle casalinghe affinché si abituassero a salvaguardare la salute partendo dal cibo che preparavano per i figli e in casa in genere. Anche Rudolf Hess sosteneva l’omeopatia e l’uso di erbe medicinali e sembra che fosse vegetariano, al punto di infastidire Hitler perché alle riunioni si portava il pasto da scaldare, disdicendo di consumare i pasti della cuoca dietologa di Hitler stesso. La risposta era relativa agli alimenti biodinamici del pasto di Hess che, comunque, ottenne di essere invitato più raramente a pranzo con Hitler. Le abitudini alimentari di Hitler divennero importanti perché egli incarnava gli ideali della Germania nazista, quindi egli rappresentava il tedesco ideale: a lui, dunque, bisognava rifarsi per essere, o diventare, bravi nazisti. Il corpo di Hitler divenne oggetto di venerazione ed emulazione, tanto che tantissimi uomini tedeschi del tempo portavano baffetti come il Führer il quale, secondo i detrattori, si era fatto crescere i baffi per nascondere delle narici “ebraiche”, mentre delle canzoncine inglesi scherzavano sulla malformazione dei suoi genitali. Hitler decise, quindi, con una deliberazione del 1937, di vietare l’attenzione sul suo corpo, forse anche perché le sue abitudini vegetariane erano diventate pretesto per la pubblicità di una fabbrica; molto più probabilmente per non essere messo in ridicolo.

L’astenersi dal bere alcol di Hitler diede forza a tutte le associazioni che già da tempo si battevano, in Germania e in Austria, contro l’abuso di alcol. Pertanto si approfittò della situazione per sostenere con i giovani che la loro virilità si sarebbe misurata non dalla capacità di bere birra, ma di rimanere sobri. Anche l’alcol venne imputato di causare il cancro, così come Lehmann aveva indicato in un suo studio del 1919, secondo il quale birrai, baristi e similari presentavano un’alta incidenza di cancro. Lo stesso Liek, astemio da prima della Grande Guerra, sosteneva che l’alcol fosse causa di gravi malattie, dai problemi ai nervi a molto altro. Per questo motivo, l’ascesa al potere di Hitler venne vista di buon occhio da tutti coloro che si battevano contro l’uso di alcolici, anche grazie alle esternazioni dello stesso pubblicate su molti periodici già dagli anni Venti. Egli sosteneva, infatti, che il popolo si dovesse liberare da quel veleno, in modo da poter essere il forte popolo tedesco che le sue teorie profetizzavano. Già nel 1933 venne vietato di bere durante la celebrazione della festa nazionale del lavoro, la festa che sostituiva le celebrazioni del primo maggio. Se era difficile sradicare dai tedeschi l’idea di bere birra, si doveva cercare di rafforzarne il carattere e anche di risparmiare miliardi di marchi l’anno, spesi in alcol anziché in altri acquisti. Varie leggi, sempre dal 1933 in avanti, vietavano le pubblicità di alcolici, e questo soprattutto per cercare di arginare un’altra piaga tedesca: il numero di incidenti stradali, i più dei quali erano da imputare proprio all’uso e abuso di alcolici. Nel 1940 venne lanciata “l’operazione tè” nei luoghi di lavoro: notevoli quantità di tè vennero distribuite in tutte le fabbriche in cui gli operai si trovassero a lavorare a temperature alte, per favorire il bere bevande meno pericolose della birra o di altri alcolici. Si incentivò anche la campagna a favore delle tisane, dei succhi di frutta, del succo di pomodoro e similari. Nel 1938, il sidro venne nominato ufficialmente “bevanda del popolo”, mentre nell’ottobre del 1939 venne vietata la vendita di alcol nelle osterie. Gli studi affermano, tuttavia, che se i tedeschi consumavano meno alcol era per l’effetto della contrazione del potere d’acquisto, più che per le campagne messe in atto, tanto che i livelli di consumo di alcolici furono praticamente costanti, se si considera flessioni e ripresa. Ad esempio, la produzione di vino aumentò dell’80% nei primi cinque anni di governo nazista, così come aumentò la produzione di spumanti; aumentarono anche le produzioni di alcolici (per quanto vietate) da prodotti succedanei.

 

Comm. Alessia Biasiolo, socio della federazione di Ancona, associata al CESVAM

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