La leadership e l’arte di comunicare

  

di Valentina trogu

Il termine leader deriva dall’inglese to lead, cioè dirigere, guidare. L’etimologia lascia intendere come un leader, per essere tale, deve essere a capo di un gruppo di persone che lo seguono, ascoltano le sue parole sulla base delle quali prendono decisioni in relazione all’agire sociale, politico ed economico. Attorno alla figura del leader si crea una realtà complessa nella quale rientrano molteplici variabili che rendono difficile spiegarne il significato in poche righe. La letteratura psico-sociale identifica il leader come una persona in grado di persuadere un pubblico a tal punto da condizionarne le decisioni e mobilitarlo verso il raggiungimento di determinati obiettivi. Al carattere strumentale occorre aggiungere le motivazioni che spingono intere masse a seguire quello che viene visto come un capo carismatico, le tipologie di interazioni che si vengono a creare tra leader e gruppo e le caratteristiche socio-caratteriali che permettono di far emergere un membro della massa rispetto ad altri. Tralasciando le distinzioni che può assumere una leadership a seconda dello stile adottato dal leader (autoritario, democratico o laissez-faire) è possibile riscontrare un punto comune in tutti gli uomini che hanno fatto la storia nel senso più pratico della definizione, il senso connesso al cambiamento, positivo o negativo, artefice della nostra storia di oggi. Questo punto in comune è identificabile con la capacità di costruire ed esporre un discorso che sappia persuadere e condizionare un pubblico. I leader, dunque, si sono dimostrati capaci di destreggiarsi con facilità nell’arte della retorica e dell’oratoria.

La grande oratoria fiorì nella Grecia Antica tra il V ed il VI secolo a.C. come conseguenza di un’ascesa dell’importanza del dibattito politico. Con la fine dell’egemonia delle tradizionali forme di potere aristocratiche e l’affermarsi della democrazia, infatti, aumentò il desiderio di partecipazione alla vita pubblica e il discorso si spostò dal palazzo del potente alla piazza, l’agorà. Sono nati, così, i dibattiti sulla res pubblica, punti di origine della filosofia politica e della retorica. In ambito politico, la capacità di un bravo oratore di far prevalere la propria posizione tra tante è risultata un efficace metodo per ottenere consenso a tal punto che ogni leader ateniese, democratico convinto, moderato o fervente aristocratico, doveva dimostrare di saper parlare per riuscire ad ottenere un ruolo attivo nella vita politica ateniese. Questa importanza legata all’utilizzo dell’oratoria e della retorica si è rafforzata nel tempo diventando fondamentale in ogni rapporto di potere, indistintamente dall’ambito in cui ci si trova. Il politico, lo stratega, l’esperto di marketing, l’avvocato, il diplomatico, i segretari generali delle Nazioni Unite sono figure professionali di oggi con una predisposizione alla manipolazione delle parole per raggiungere uno scopo, per persuadere ed influenzare un pubblico.

Nella storia è possibile identificare diversi attori diventati leader grazie ad una sovrapposizione del proprio ruolo con la figura dell’oratore in grado, come sottolineato da Aristotele, di docere – informare sull’oggetto del discorso – movere – commuovere l’auditorio e delectare – esporre gli argomenti con entusiasmo coinvolgendo il pubblico senza annoiarlo. Soprattutto nell’ambito della polita questi concetti sono stati presi e assunti come regole base da seguire per sostenere argomentazioni di varia natura, volte a condannare, convincere, persuadere, giudicare, trasmettere messaggi, raccontare storie, imprimere nella mente valori o paure. In tempi passati, la politica diventava sostanza proprio attraverso le parole e modificava il mondo. Il linguista John Austin ha affermato che le parole fanno le cose, creano la realtà e la disfano generando effetti sul mondo materiale e sulle relazioni umane. Agiscono al pari di una spada e di un fucile, compiono azioni che una volta concluse determinano conseguenze che non possono più essere cambiate.

Con le parole si può dare il via ad una guerra o ad azioni distruttive attraverso un indottrinamento ideologico capace di mobilitare intere masse chiamate a combattere e difendersi da un’ombra oscura considerata capace di rompere l’equilibrio in cui si vive. La paura e l’aggressività verso quest’ombra oscura, l’altro, il nemico, non sono definibili scientificamente come caratteristiche inscritte nella natura umana. Sembrano altre le motivazioni alla base delle violenze di massa e dei continui conflitti locali che scoppiano in particolari contesti sociali e in presenza di una determinata tipologia di governo. La cultura, i modelli comportamentali acquisiti, le norme e la coesione sociale sono i fattori da considerare per comprendere la reazione di un popolo verso un estraneo, verso il diverso, l’anormale. Spesso è proprio il forte attaccamento alle proprie radici e al proprio gruppo ad alimentare l’odio verso coloro che non vi appartengono mentre altre volte la difesa del noi viene utilizzata come giustificazione da un leader il cui scopo è quello di ottenere sempre maggiore potere. Il pensiero corre veloce a Saddam Hussein, dittatore descritto come un narcisista maligno la cui smisurata ambizione per il potere, il forte nazionalismo, l’assenza di principi etici, la spietatezza e l’intelligenza l’ha portato a continui conflitti con le nazioni vicine all’Iraq per difendere la sopravvivenza personale mentre, all’interno del suo Paese, imponeva obbedienza attraverso minacce. I comportamenti e le azioni di Saddam Hussein non sono state dettate solamente da una predisposizione innata all’aggressività e alla devianza ma anche amplificate dall’interazione con la violenza dei costumi e con l’educazione ricevuta. Un padre mai conosciuto, un fratello di 13 anni morto di cancro mentre la madre era incinta del futuro dittatore, un iniziale allontanamento dalla famiglia ed un ritorno caratterizzato dalla presenza di un patrigno severo e violento delineano, da un punto di vista psicologico e sociologico, un contesto non idoneo per una corretta socializzazione infantile e un adeguato sviluppo dell’empatia verso gli altri. Qualunque sia stata la sua formazione e le motivazioni alla base delle azioni compiute da dittatore, occorre considerare che se ha raggiunto il potere è perché è riuscito ad ottenere, almeno inizialmente, il sostegno di una buona parte della popolazione. Le prime mosse da vice presidente sono state quelle di diffondere il servizio sanitario e il servizio dell’istruzione in tutta la nazione ottenendo risultati come l’abbattimento della percentuale della mortalità infantile e dell’analfabetismo. Inoltre, ha modernizzato l’agricoltura e ha guidato la nazionalizzazione delle imprese petrolifere, mosse che hanno portato alle stelle la sua popolarità. In una condizione costante di disagio e difficoltà sociale, infatti, è facile cedere psicologicamente al leader che offre segni di speranza. Lo stato mentale di sottomissione è legato alla ricerca della sopravvivenza, all’inevitabile volontà di miglioramento degli essere umani e del mantenimento della propria condizione all’interno di un gruppo. Ciò spiega il bisogno dell’uomo di credere fortemente alle parole dette da chi detiene il potere e la necessità di difendere la realtà conosciuta da ciò che è sconosciuto e differente.