Il preludio della guerra: la conferenza di Monaco del settembre 1938

  

di Giovanni Cecini

La La Grande Guerra nella sua travolgente evoluzione e nel riassetto dell’Europa, attraverso la Conferenza della pace di Parigi, ridisegnò completamente la carta geografica del continente. Tra i nuovi stati che videro la luce in quell’occasione vi fu la Cecoslovacchia. Essa venne creata con il trattato di Saint-Germain-en-Laye (10 settembre 1919) accorpando alcune regioni, storicamente separate, dei vecchi Imperi tedeschi, del Regno d’Ungheria e delle piccole nobiltà polacche. Il territorio si suddivideva così tra la Boemia e la Moravia, per cultura, etnia e lingua più vicine al mondo tedesco, la Slovacchia e la Rutenia subcarpatica, legate invece per storia al contesto slavo e magiaro, e Teschen di origine polacca.

La situazione variegata e per nulla omogenea della popolazione, con posizione dominante degli slovacchi e dei cechi, questi ultimi forti della designazione di Praga a capitale, non favoriva una buona conciliazione tra le diverse realtà regionali che componevano il giovane stato. Per di più il contesto generale della Mitteleuropa, uscito traumatizzato dal conflitto mondiale, non era di per sé fattore di stabilità. Una menomata Germania, le umiliate Austria e Ungheria da una parte e le rafforzate nazionalità polacca e rumena dall’altra erano tutti fattori di forte agitazione nel contesto geopolitico della zona e quindi elementi scatenanti di revisionismi e recriminazioni.

Se gli anni Venti erano passati senza troppi turbamenti, a fronte della moderata politica di Gustav Stresemann da parte tedesca e per merito della decisa politica della Piccola Intesa,[1] l’ascesa al potere di Adolf Hitler nel 1933, mostrò all’Europa come la zona tra le Alpi e i Carpazi fosse un’area calda non meno dei cruenti Balcani. In questo senso la politica aggressiva nazista, dopo aver occupato militarmente la Renania nel marzo del 1936 ed essersi annessa l’Austria (Anschluss) nel marzo del 1938, puntava i suoi rapaci artigli sullo Stato cecoslovacco, serio baluardo contro l’espansione tedesca verso lo spazio vitale a Est (Lebensraum im Osten). Rispetto ai precedenti colpi di mano, Berlino però in questa circostanza doveva giocare la partita con molta più prudenza. Infatti oltre a una forte difesa naturale costituita dall’arco montagnoso al confine con la Germania e a una solida capacità economica e industriale (Škoda), la Cecoslovacchia poteva contare su un presidente incorruttibile come Edvard Beneš e sulle alleanze con Francia e Unione Sovietica, a cui Praga si sarebbe sicuramente appellata in caso di imminente minaccia tedesca.

Lo stato di cose portò quindi Hitler a progettare un piano molto sottile da abile giocatore d’azzardo quale era. Attraverso l’opera «squadrista» del partito nazista sudeto (Sudeten Deutsche Partei), capeggiato da Konrad Henlein, la Germania iniziò a reclamare la tutela della popolazione germanofona abitante nella regione dei Sudeti, che secondo le accuse tedesche, come minoranza, era oggetto di vessazioni da parte dello Stato cecoslovacco. In realtà gli oltre 3 milioni di tedeschi di questa zona, se da un lato si sentivano diversi dalla maggioranza boema e morava, dall’altra non avevano mostrato tutto quell’entusiasmo di separarsi da Praga e essere inglobati sotto la protezione totalitaria del Führer, che invece il movimento di Henlein con ostinazione diffondeva.

In questo clima, a tratti conciliante e a tratti aggressivo, davanti a una folla immensa Hitler il 13 settembre 1938 si profuse in un discorso molto violento in cui presentò richieste estreme di cessione territoriale, che Beneš non solo rifiutò, ma rigettò come vero e proprio ultimatum militare. A questo punto, dopo anni di tacita indifferenza, le diplomazie di Londra e Parigi, garanti dell’integrità e dell’indipendenza della Cecoslovacchia al tavolo della Pace, tentarono di intervenire per riportare a buoni consigli le pretese espansionistiche tedesche. Le astute argomentazioni del Führer, intervallando suppliche e minacce, e le azioni violente dei nazisti sudeti, presentate come difesa contro il razzismo antitedesco dei cecoslovacchi, portarono le grandi potenze europee a intervenire affinché si preservasse l’incerta pace, convinti della buona fede del cancelliere tedesco.

Neville Chamberlain, primo ministro britannico, iniziò quindi un’intensa trattativa per risolvere la questione senza l’uso delle armi. Il 15 settembre si recò nel rifugio alpino di Hitler a Berchtesgaden per incontrarsi con il dittatore. Questi si dimostrò risoluto nelle sue posizioni, disposto anche a intraprendere una guerra totale pur di salvare i connazionali dei Sudeti, tuttavia accettò una dilazione dei suoi propositi, per attendere le consultazioni del governo a Londra. Tornato in patria e ottenuto l’appoggio del suo esecutivo, il premier inglese si mise in contatto con il governo francese di Édouard Daladier e arrivò alla conclusione che per il mantenimento della pace era necessario sacrificare l’integrità della Cecoslovacchia. Per questo Londra e Parigi fecero intendere a Beneš che ogni ulteriore resistenza nazionale, avrebbe comportato da parte anglo-francese l’abbandono del suo popolo al proprio destino. In tale clima a Praga le reazioni a questa ipotesi furono decisamente negative creando inquietudine e instabilità, anche perché a questo punto anche la Polonia aveva la possibilità di inoltrare rivendicazioni su Teschen.

Nonostante la crisi non mostrasse via d’uscita, Chamberlain incontrò di nuovo Hitler il 23 settembre a Bad Godesberg, accordando la disponibilità di Gran Bretagna e Francia a favorire il Reich nei Sudeti. La risposta tuttavia, secondo il gioco al rialzo del Führer, era arrivata troppo tardi. Le agitazioni al confine, secondo Hitler, imponevano alla Germania di agire e farlo subito. L’inglese non sapendo come controbattere a questo nuovo ultimatum, chiese quindi il motivo dell’incontro e se fosse stato possibile un ulteriore rinvio dell’attacco. Il dittatore sembrò inamovibile, pronto a entrare nei Sudeti il 1° ottobre.

I contatti diplomatici tra i governi a questo punto si fecero febbrili, frammisti da dichiarazioni di disponibilità a mobilizzare le truppe in caso di guerra e tentativi di trovare un’ultima possibile conciliazione. Ecco quindi che Chamberlain cercò di giocare l’ultima carta e il 28 settembre chiese a Hitler e a Mussolini di superare la crisi in una conferenza internazionale per risolvere pacificamente la situazione.

La Gran Bretagna e la Francia, sentendosi impreparate di fronte a uno sforzo bellico lontano e impegnativo, scelsero la negoziazione a tutti i costi, puntando sulla reciproca simpatia che il Duce, considerato allora uomo saggio e moderato dalle democrazie occidentali, accordava al dittatore austriaco. In extremis per il giorno successivo venne convocata una conferenza a Monaco su proposta del «mediatore» Mussolini (in realtà su iniziativa del maresciallo Hermann Göring), spinto dall’impreparazione dell’Italia a una guerra su vasta scala e dal timore di un eccessivo rafforzamento della Germania. Facendo un grosso favore a Hitler, l’italiano era riuscito a convincere gli interlocutori diplomatici a un incontro con francesi, inglesi e tedeschi, senza però il coinvolgimento del governo di Beneš, che rimaneva escluso dalle decisioni finali. Questa scaltra mossa non poteva che indispettire la Cecoslovacchia, oggetto stesso del contendere, dovendo i rappresentanti valutare la legittimità delle rivendicazioni tedesche su una porzione del proprio territorio e quindi stravolgere l’integrità fisica e sociale del suo Stato sovrano.

Il congresso aprì la sessione dei lavori il 29 settembre, alla quale parteciparono le quattro delegazioni, anche se il peso dei padroni di casa si rivelò sin dall’inizio preponderante. Considerata l’impreparazione e la mancanza di coordinamento tra inglesi e francesi, Chamberlain e Daladier arrivarono a Monaco come semplici comparse, lasciando la scena alla teatralità di Hitler e di Mussolini. Il Führer ricevette di persona il dittatore italiano al confine di Kufstein, concordando con lui la linea politica da seguire e spettacolarizzò al massimo l’evento con ostentazioni e riviste militari.

Dopo un’intensa giornata dove Hitler si dimostrò sempre più intransigente sui suoi propositi, i rappresentanti dei quattro paesi convenuti firmarono l’accordo (ricalcando quasi alla lettera i contenuti espressi nell’ultimatum di Bad Godesberg) con dei protocolli esecutivi aggiuntivi, nei quali si sanciva il passaggio della regione dei Sudeti al Reich a partire dal 10 ottobre, senza che il governo di Praga potesse esprimere obiezioni. Tale cessione comportava per la Cecoslovacchia la perdita di una superficie di oltre 25.000 kmq, costituita da una regione ricca di risorse minerarie e di vitale importanza militare, in quanto unico baluardo naturale nei confronti di un’eventuale successiva aggressione tedesca sull’intero paese.

In maniera ingenua Chamberlain e Daladier si reputarono soddisfatti e non mossero riserve, anche perché il Führer ribadì in quella circostanza di chiedere solo cittadini tedeschi, non cecoslovacchi. Assicurò che questa sarebbe stata la sua ultima pretesa territoriale, avendo sanato in pieno le ingiustizie della Conferenza della pace del 1919, che aveva reso i suoi compatrioti stranieri tra loro e soggetti a paesi diversi. Mussolini insieme al ministro degli Esteri, nonché suo genero, Galeazzo Ciano tornò in Italia pieno d’orgoglio per il ruolo di arbitro internazionale ricoperto, ma vide di cattivo auspicio il largo entusiasmo degli italiani verso la pacifica soluzione raggiunta. Cosciente dell’impreparazione del suo paese per una possibile nuova guerra, concretizzò ancora di più il forte allineamento tra Italia e Germania, che porterà alla firma del «Patto d’acciaio», sancendo un’alleanza difensiva-offensiva e consacrando le due nazioni come sorelle, solidali e compagne sia in pace che in guerra.

Anche Chamberlain, al rientro in patria, fu accolto trionfalmente come garante della pace, a fronte anche della firma di un patto di reciproca amicizia tra Germania e Regno Unito, siglato sempre a Monaco il 30 settembre. Appena sceso dall’aereo in un commovente discorso, esibendo alla folla di curiosi e di giornalisti la firma di «Herr Hitler» accanto alla sua sui trattati, il premier non mancò di lodare oltre misura quello che in realtà era un simulacro giuridico come un atto di concordia e di pace. Tra le poche voci critiche oltre la Manica, si alzò quella di Winston Churchill, allora senza incarichi governativi, il quale sostenne, in un discorso polemico tenuto davanti alla Camera dei Comuni il 5 ottobre, che non si stava profilando la fine, ma l’inizio di un incubo: «Regno Unito e Francia potevano scegliere tra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra».

Come era facilmente intuibile per il futuro premier britannico, Hitler fino ad allora aveva solo ripetuto il suo ritornello preferito e sei mesi dopo l’accordo siglato a Monaco, il Führer gettò la maschera e occupò la Boemia e la Moravia. L’avanzata fu fulminea e il 15 marzo le truppe tedesche entrarono a Praga. L’annessione ora comprendeva territori mai appartenuti a stati tedeschi, annullando qualsiasi scusante di tipo nazionale o etnico. Il presidente ceco Beneš venne obbligato a dimettersi e a esiliare; al suo posto i tedeschi crearono un protettorato tedesco in Boemia e Moravia e il governo fantoccio filonazista (primo di una lunga serie) del monsignor Jozef Tiso nell’«indipendente» Slovacchia. L’annullamento della Cecoslovacchia se da una parte cancellava una costruzione artificiale della Pace di Parigi, dall’altra dava un pesante colpo non solo alla stabilità d’Europa e alla «santità dei trattati» (per usare le parole del ministro britannico Antony Eden, fortemente critico verso l’Appeasement), ma ai concetti stessi di libertà e democrazia. L’occupazione infatti garantiva ai tedeschi un numero ragguardevole di uomini validi da utilizzare come schiavi, ampie risorse economiche e un trampolino di lancio verso Est, avendo annullato un altro impedimento strategico alla propria avanzata, che doveva con la conquista dello spazio vitale, portare alla costruzione della «Grande Germania».

Di fronte alla barbaria nazista i governi britannico e francese non si rivelarono all’altezza delle responsabilità di cui erano portatrici e furono incapaci di reagire, ancora nella speranza di preservare «la causa della pace» nella logica ingenua del dialogo e della sincerità dei propositi hitleriani. Per di più questa estrema arrendevolezza delle democrazie occidentali lasciò il diritto internazionale in balia degli eventi. Se tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939 Ungheria e Polonia si annettevano alcune porzioni di territorio cecoslovacco ai loro confini, anche l’Italia nella primavera del 1939 volle saldare i conti con le sue rivendicazioni, attaccando e occupando l’Albania. Stessa logica seguì Stalin, che nella politica antibolscevica del governo conservatore di Londra non era stato né considerato, né interpellato a proposito delle trattative sulle sorti dei Sudeti. Per questo motivo l’Unione Sovietica si sentì autorizzata anch’essa a trattare con Hitler, per preservare e rafforzare il suo fianco europeo, questa volta a spese degli Stati baltici e della Polonia. Era la prova generale della guerra, ormai con una Germania consolidata nelle sue posizioni strategiche e con in campo potenti forze armate, in procinto di terrorizzare il mondo.

[1] L’alleanza, nata contro il revisionismo ungherese nel 1920 tra Cecoslovacchia e Jugoslavia, a cui si aggiunse poi anche la Romania, negli anni Trenta trovò la sua principale ragione nell’ostacolare l’espansionismo tedesco, anche grazie all’appoggio politico esterno della Francia.

Foto in anteprima: Il primo ministro Neville Chamberlain e Adolf Hitler si stringono la mano dopo la firma degli accordi (AP Photo) – Il Post