Regno di Sardegna

  

Il nome del modesto nocchiere della marina sarda, Domenico Millelire, combattente sotto il nome di guerra Debonnefoi, che nella notte dal 24 al 25 febbraio 1793 fulminava coi suoi cannoni da punta Teggia sull’isola di Santo Stefano i Franco-Corsi, comandati  dai luogotenenti colonnelli Quenze e Napoleone Bonaparte, e che durante la giornata del 25 fece prodigi di valore prendendo alle spalle i Francesi e inseguendo con una scialuppa i loro feluconi, non apre solo la serie gloriosa dei soldati italiani. che appuntarono sul loro petto le medaglie d’oro al valore, ma pur quella dei decorati a carattere militare, cioè la serie di tutti coloro che meritarono una decorazione militare di qualsivoglia natura, come riconoscimento del valore, della perizia nell’arte della guerra, dei lunghi ed onorevoli servizi resi con le armi [1].

Tra il febbraio 1793 e il 6 aprile di quell’anno — data del decreto col quale il Millelire venne giudicato meritevole della medaglia d’oro — il Re Vittorio Amedeo III maturò il progetto di istituire una ricompensa al valore e ne affidò l’incarico a C. Lavy, incisore di conii a Torino e figlio di Amedeo Lavy, pur esso esperto nell’arte del conio. La medaglia non potè però essere effettivamente consegnata al Millelire prima del 21 maggio 1793, data del regolamento relativo. Si noti che il decreto di fondazione contemplava solo il caso in cui sì avessero a premiare azioni valorose e coraggiose di sottufficiali e soldati in tempo di guerra, forse perché per l’ufficiale si riteneva più opportuno ricorrere alle promozioni sul campo.  Diceva infatti la relazione accompagnante il decreto 21 maggio 1793, riportata a pag. 2368 del vol. 28° della grande collezione del Duboin: « Affinchè li bass’ufficiali e soldati delle regie truppe che faranno azioni di segnalato valore in guerra riportino un pubblico e permanente contrassegno di reale gradimento, ha S. M. stabilito un distintivo d’onore, il quale nel far riconoscere gli autori di tali azioni e nel dar loro una maggiore considerazione, serva altresì ad elevare sempre più gli animi e ad eccitare, anche coll’apparente segno della manifestata chiarezza, quella emulazione nei compagni che tanto è necessaria nel militare; ed ha quindi la M. S. ordinato che per questo distintivo si osservi il presente regolamento ». Il regolamento stabiliva poi una curiosa norma: che si dovesse restituire la medaglia d’argento dal militare che ne avesse successivamente meritata una d’oro.

Evidentemente non era compatibile il cumulo delle medaglie, perché si riteneva che  per sé stessa la ricompensa dovesse additare il valoroso, senza pregiudizio del numero delle imprese eroiche da lui compiute

Era un concetto austero, quasi romano. La ricompensa era espressamente riservata per azioni personali, tuttavia nel 1796 lo stendardo-colonnello del reggimento Dragoni del Re fu insignito di due medaglie d’oro per la brillante carica al Brichetto contro la cavalleria francese comandata dallo Stengel e colla quale si trovava pure Gioacchino Murat. È a questa medaglia che si riferisce il decreto 12 settembre 1793 del duca di Monferrato, capitano generale delle armate del Re di Sardegna, che stabiliva: « Quicomque ayant pris les armes se distinguera dans quelque action contre l’ennemi sera, ainsi que les soldats de nos troupes, décoré d’une médaille » [2].

È assai difficile rintracciare oggi degli esemplari di questa primissima medaglia al valore e che hanno quasi il carattere di un incunabolo perché furono coniati in ristretto numero e distribuiti assai limitatamente. Infatti i sudditi del Re di Sardegna passati a combattere a fianco dei soldati francesi ricevettero da Napoleone I le ricompense al valore da lui create, e specialmente la Legion d’onore e l’Ordine della Corona di ferro. Nella raccolta del Museo del Risorgimento di Milano esiste in duplice esemplare questa medaglia, e precisamente l’esemplare d’argento e quello di bronzo, e vale certo la pena che se ne dia la descrizione a complemento della riproduzione (vedi tav. XXIV). Nel retto è il busto di Vittorio Amedeo III rivolto a destra; la leggenda dice: Vittorio Amedeo III. Sotto è il nome dell’incisore C. Lavy. Nel verso, nella parte superiore del campo, è una’ piccola corona d’alloro, e poi le parole: Al Valore. Nella parte inferiore, un trofeo d’armi composto di cinque bandiere [3], un cannone senza affusto, un tamburo e alcune palle; l’esergo è vuoto. Nella parte superiore della medaglia, attraverso il grosso anello, passa il nastro di color turchino scuro. La medaglia misura 38 mm. In questo esemplare ottimamente conservato il segno dell’incisione è molto robusto.

Con la istituzione dell’Ordine Militare di Savoia, avvenuta nell’agosto del 1815, la medaglia coniata da Vittorio Amedeo III venne posta fuori uso; allora i possessori della medaglia d’oro ricevettero in cambio la III classe dell’Ordine, e quelli decorati di medaglia d’argento ebbero la IV classe. Ma il pregio di questa prima decorazione al valore è superato, dal punto di vista numismatico e della rarità, da quella coniata sotto il regno di Carlo Emanuele IV, successore di Vittorio Amedeo III, perché essa è affatto sconosciuta a tutti quelli che si sono occupati dell’argomento, compreso il von Heyden. Segna essa il passaggio da Vittorio Amedeo III (1773-1796) a Vittorio Emanuele I (1802-1821) il quale ultimo lasciò un’impronta sua propria creando, come si è detto, l’Ordine Militare di Savoia.

L’esemplare di Carlo Emanuele IV, pur esso nella. collezione milanese, è di bronzo ed è identico alla medaglia di Vittorio Amedeo III nel verso, mentre nel retto porta il busto del nuovo Re con relativa leggenda (vedi tav. XXIV). Il conio è assai scadente, e l’esemplare è stracco; le parole delle leggende molto confuse con quel caratteristico appiattimento delle lettere che presentano le medaglie portate a lungo. Vien fatto perciò di pensare che questa medaglia nel 1815 non sia stata dichiarata fuori uso, come quella di Vittorio Amedeo III, e che perciò i decorati abbiano continuato a portarla, forse perché non si riteneva conveniente di conferire anche ad essi l’Ordine Militare di Savoia.

Un particolare infatti da mettere bene in evidenza è che Vittorio Emanuele I non istituì subito l’Ordine Militare di Savoia appena ricuperati i suoi stati, ma ristabilì invece come primo atto e precisamente il 1° aprile 1815, la medaglia al valore, e solo il 14 agosto 1815 l’Ordine di Savoia. È perciò presumibile che vi siano esemplari della stessa medaglia istituita da Vittorio Amedeo III recanti l’effigie di Vittorio Emanuele I, oltre a quelle di Carlo Emanuele IV. È però fuor di dubbio che anche per tutto il 1815 venne usata la medaglia al valore, come espressamente documenta il Pinelli nel volume Il della già citata sua opera (« Storia militare del Piemonte »), laddove alle pagine 476-47 riporta l’elenco dei decorati per la campagna del 1815. Le decorazioni consistettero in grandi croci e piccole croci dei SS. Maurizio e Lazzaro per gli ufficiali, e in medaglie per i sottufficiali e soldati. Così il soldato Carrara, della Legione real leggera, già. decorato di medaglia d’argento, ebbe quella d’oro; e medaglie d’argento ebbero i sergenti Mondino, Salasso, Oliviero 1° e 2° (due sergenti con lo stesso nome), Saletti, Bongioanni; il furiere maggiore Giovanelli; i caporali Deamici e Balestra; il volteggiatore Romano, i. granatieri Maiocchi e Pasquali, e finalmente i cannonieri Delpiano e Manfredi. Si aveva ‘un concetto così serio e profondo del valore delle ricompense militari, che il Pinelli, elencando i nomi dei 38 fra ufficiali, sottufficiali e soldati decorati o promossi per la campagna del 1815 (38 in tutto) dice che il « Re mostrossi largo di gradi e decorazioni, non solo ai capi ed agli ufficiali, ma ben anco ai semplici soldati, come scorger puossi dalla qui annessa nota ” [4]. Frattanto il Congresso di Vienna assegnava, alla Sardegna ben 10 milioni di franchi per indennità di guerra, 6 milioni e quasi 400 mila lire per l’indennità d’armamento delle truppe; e più tardi  precisava il debito della Francia in 25 milioni. Orbene il Re destinò parte di questa somma, giudicata cospicua, alla creazione dell’Ordine Militare di Savoia, fissando una pensione di 150 franchi annui al decorato col grado di cavaliere. Sta di fatto, in ogni modo, che dal 14 agosto 1815 al 1833 l’Ordine Militare di Savoia servì a ricompensare atti di valore e quegli eminenti servizi che sono contemplati nel precitato decreto del 1833, in quello del 28 settembre 1855 che fissò all’Ordine nuovi statuti, e in quello 28 marzo 1857 che portava nuove modificazioni (vedi tav. XXV).

Sarebbe del tutto superfluo a questo punto indugiarsi ad illustrare le già ricordate disposizioni emanate da Carlo Alberto e da Vittorio Emanuele II per regolare la concessione dell’Ordine Militare di Savoia, perché moltissime sono le pubblicazioni che ne trattano. Non sarà invece fuor di luogo far notare, sulla scorta delle riproduzioni, come le insegne dell’Ordine abbiano subito notevoli modificazioni dal 1815 ad oggi. I quattro esemplari qui riprodotti, conservati entrambi nella collezione milanese (vedi tav. XXIV e XXV) rivelano in modo chiaro le loro differenze. Nel primo esemplare, che è del 1815, la croce bianco-smaltata e circondata di rosso è molto stretta e quasi completamente piatta, e la corona reale è terminata dalla crocetta; nel secondo esemplare – che è forse tra il 1820 e il 1831 – la croce si allarga notevolmente e tutto il corpo centrale è convesso; la croce è terminata da un pomolo senza crocetta; in entrambe il nastro è turchino. Nei due modelli successivi, entrambi con il nastro dal colore turchino framezzato dal rosso in palo, la croce nella faccia anteriore è dapprima stretta e poi larga, verosimilmente appartenendo essi a due epoche diverse, forse il primo al 1855, e il secondo certamente ad epoca posteriore.

Un segno di valore particolarmente ambito da parte dei soldati sardi dovette essere il distintivo concesso l’11 febbraio 1834 da Carlo Alberto ai preposti ai doganieri che nella notte del 2 febbraio 1834 avevano respinti gli insorti italiani e polacchi entrati a Les Echelles, presso Pont Beauvoisin, sotto la direzione del Ramorino, sorprendendo i pochi carabinieri della stazione. Ma I doganieri sardi avevano dato in quegli anni di agitazioni rivoluzionarie parecchie prove di fedeltà e di acume politico, come quando il 4 luglio 1832 avevano scoperto in Genova il famoso baule a doppio fondo (spedito da Mazzini con molte copie delle “Giovine Italia” e dei “Dialoghetti” del Modena) che permise al governo sardo di avere in sua mano tutte le file della congiura, donde i processi e le condanne del 1833, alle quali i mazziniani furono sospinti, più che dal rigore delle leggi, da  delatori infami.[5] Il disttintivo si portava sul budriere della sciabola, era d’argento e consisteva in un nastro metallico rotondo, largo mm. 53, entro il quale era il monogramma  reale C.A. Traforato a giorno. Sulla parte superiore è la corona reale,  sul nostro l’incisione: Valore, fedeltà; sul nastro che forma il nodo  nella parte inferiore sono incise le parole: 2 febbraio 1834. A tergo erano due appiccagnoli per fissare il distintivo all’impugnatura della sciabola, e vi era pur inciso il nome del decorato, in modo che lo si potesse facilmente leggere attraverso la guardia della sciabola. L’esemplare esistente nella collezione milanese appartenne al doganiere Duboule Guarino (vedi tav. XXV). Questo bel distintivo, che doveva conferire alle sciabole un ornamento di grande effetto, chiude  la serie delle ricompense al valore anteriori al conferimento della medaglia istituita da Carlo Alberto.

Senza lasciare tracce sensibili passò il regno di Carlo Felice, al cui nome pare non sia legata, in materia di segni d’onore, se non la medaglia accordata alla brigata Cuneo nel 1821, di cui più avanti parleremo, e il distintivo assai rozzo, istituito per i funzionari della fonderia dei cannoni e di fabbriche di fucili e di polvere. È questa una fusione recante da un lato lo scudo di Savoia su un cartoccio e dall’altro un cannone senza affusto in posizione orizzontale (vedi tav. XXVI) Traccia più profonda lasciò invece Vittorio Emanuele I, che nel 1816, in occasione della riorganizzazione dell’esercito sardo, istituiva la medaglia di bronzo per 25 anni di fedele servizio dei sottufficiali e soldati (vedasi la riproduzione a tav. XXVI [6] preludiando così alla medaglia d’oro mauriziana (grande e piccola, rispettivamente per ufficiali generali e per ufficiali non generali) istituita da Carlo Alberto il 19 luglio 1839 per i cinquant’anni di lodevole carriera militare. È un complemento delle decorazioni dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, ma ha carattere esclusivamente militare, mentre l’Ordine Mauriziano poteva, e può promiscuamente essere concesso a militari e a civili, ed assume prevalentemente le caratteristiche di una onorificenza quando venga accordata agli ufficiali superiori giunti al grado di colonnello.

Quando si studia la questione, in apparenza molto semplice, ma in realtà piuttosto ardua della medaglia al valore, bisogna tenere presente questi punti fondamentali (vedi tav. XXVII, XVIII, XXIX):

  1. a) benché le medaglie delle diverse campagne dal 1833 al1866 sembrino, a un superficiale esame, tutte uguali come tipo e come disegno, esse differiscono invece notevolmente per il disegno e per il conio, per le misure, per le iniziali dell’incisore, specialmente per la forma della corona sovrastante allo scudo, per la forma del nodo formato nel dritto dal ramo di palma e d’alloro perché alle volte, invece del ramo di palma, è ripetuto quello d’alloro;
  2. b) occorre poi distinguere le caratteristiche della medaglia come essa esce dai torchi dell’incisore, e quelle della medaglia quale essa risulta dopo che vi è stato applicato il nome del decorato e la indicazione del fatto d’armi;
  3. c) bisogna ancora rilevare le differenze degli anelli del nastro, che sono a volte stretti, a volte allargantisi sino a comprendere il buon sesto della circonferenza;

d)occorre infine osservare il diametro della corona formata nel rovescio dai due rami d’alloro, apertura che è normalmente di forma ovale col diametro massimo in senso normale rispetto all’appiccagnolo, mentre in alcune, e specialmente nella medaglia del ’48 tende ad arrotondarsi.

In sostanza si può affermare che il conio cambia quasi sempre ad ogni campagna, presentando notevoli differenze fra la prima (1833) e quelle del 1848, del 1849, della campagna di Crimea (1855-1856), del 1859 e delle varie medaglie al valore coniate per le campagne del 1860-61.

Premesse queste avvertenze, di cui il lettore può controllare la necessità esaminando i dodici esemplari qui riprodotti, si può passare alla descrizione della medaglia-base, cioè a quella coniata nel 1833 in seguito al decreto di Carlo Alberto in data 26 marzo:

———- caratteristiche del diritto: dentro due rami di palma a sinistra e d’alloro a destra, legati in basso con un nodo semplice, è lo scudo di Savoia, ovale, tratteggiato verticale, colla croce nel campo, sormontato dalla corona reale. La leggenda dice: Al valore militare. Sotto il nodo, nell’orlo, sono le iniziali F.G. cioè Ferraris Giuseppe, incisore di conii in Torino.

———- caratteristiche del rovescio: due rami d’alloro, legati in basso a corona con un nodo semplice e formanti un campo d’apertura del diametro massimo di mm. 16. Nel contorno della corona si incide il luogo e la data dell’azione, nel campo il nome del premiato.

Si potrà dopo di ciò rilevare che nella seconda medaglia del 1848 il nodo del verso è più alto che nelle altre e che mancano nel diritto di tali medaglie le iniziali dell’incisore, mentre esse ritornano in quelle del 1849; che nella medaglia per la campagna di Crimea compare, nel verso, un asterisco in basso, sotto il nodo, e compaiono di nuovo le iniziali dell’incisore; che nella prima medaglia del 1859 (menzione onorevole) tutto il conio è cambiato (cambiato anche il disegno) sia nel retto come nel verso (incisore F. Amofoso) con una leggerezza di disegno e di incisione rilevanti forse una preoccupazione economica determinata dalla necessità di preparare molti esemplari in previsione della guerra di lunga e vasta portata; che nella seconda medaglia del 1859 (argento) si ritorna al tipo del 1833; che le tre medaglie del 1860 sono in tutto uguali. Si riproducono tutte e tre per mostrarne le modificazioni derivanti dalla incisione dei fatti d’arme diversi: e cioè, campagna d’Ancona, campagna d’Italia meridionale, campagna della Bassa Italia 1860-61. Posteriore alle precedenti, e di rinnovato conio, richiamante in parte la menzione onorevole del 1859, è la medaglia di bronzo al valor militare, istituita da Umberto I l’8 dicembre 1887 e qui riprodotta all’undicesimo posto della serie.

Merita  pure un cenno particolare la medaglia al valore di marina, istituita da Carlo Alberto il 1° marzo 1836 per ricompensare atti valorosi di marinai o borghesi a pro di naufraghi pericolanti. Essa non è una medaglia al valore, perché gli ufficiali e i marinai che si distinguono in azioni di guerra vengono premiati con la consueta medaglia al valore istituita da Carlo Alberto, senza distinzione fra soldati di terra e soldati di mare. Essa è una medaglia al valor civile, destinata a premiare i generosi – militari o no –  che arrischiano la vita nelle infide onde del mare. Il conio del retto differisce molto dai precedenti, ma quello del verso richiama il verso della medaglia di bronzo al valore, e il nastro è azzurro con bordo bianco alternato con l’azzurro.

Sarebbe certo superfluo fare la storia delle ricompense al valore conferite dai Re di Sardegna dal 1815 in poi, bene illustrate dai volumi dell’Ufficio Storico, dall’opera del Pinelli e da altri parecchi[7].

Basterà ricordare che l’esercito piemontese non venne meno la sua tradizione di lealtà e di valore né in fatti d’arme contro i nemici esterni, né quando si trovò nella dolorosa necessità di frenare le cospirazioni e i movimenti insurrezionali dovuti al movimento costituzionalista dei Carbonari del 1820-21, o dalla generosa impazienza mazziniana nel 1833-34, o all’azione di altre forze frementi per la indipendenza. Dolorosissima situazione certamente creavasi allora nell’animo dell’esercito, e specialmente in quello degli ufficiali, nei quali tuttavia prevalenze ognora il sentimento del dovere e l’impero del giuramento prestato al sovrano. D’altra parte non era possibile che i Piemontesi del 1821 e del 1833 fossero in grado di capire ciò che vi era di vitale nei tentativi costituzionali e in quelli della “Giovine Italia”. Mazzini aveva 28 anni nel 1833 ma benché molto giovane, anzi forse anche per questo, egli mirava col suo sguardo molto più in là di quanto i suoi contemporanei potessero vedere; donde, di conseguenza, il carattere “ apostolico” dell’opera sua, essendo una caratteristica appunto degli apostoli il lottare e il sacrificarsi per il trionfo di un’idea, che i più non capiscono e che urta, anzi, contro la comune opinione. Mazzini aveva cominciato la sua lotta proprio negli Stati Sardi. Ma qui c’era un governo forte, nazionale, e la compagine del suo stato era senza alcuna incrinatura, stretti i sudditi intorno alla Casa regnante, ricca a sua volta di tradizioni gloriose ed uscita rafforzata, e arricchita economicamente per il tributo di guerra pagato dalla Francia, dall’ancor recente disastro napoleonico. Ora è vero che il programma mazziniano era giustificato in pieno dal proposito di acquistar proseliti per l’azione, prima che altrove, nel proprio paese, facendo appunto del Piemonte la leva principale; e infatti quest’ordine di idee egli aveva esposto nella famosa sua lettera a Carlo Alberto. Ma non era meno logico, alla stregua delle condizioni reali degli spiriti e del Piemonte in quegli anni, l’ordine di idee del governo piemontese osteggiante Mazzini. La lettera al Re, quando si prescinda dalla nobiltà dei concetti, dalla energia con cui sono espressi e quasi in posti, doveva essere giudicata dal Re al quale era indirizzata almeno come un atto di presunzione o di inesperienza politica. Chi era il giovane ventiseienne che si azzardava a dirigersi a tu per tu al Re di Sardegna mettendogli il Terribile dilemma del se no, no, e facendo balenare nel dilemma la lama di un ferro “sterminator di tiranni”? La polizia sarda, nei suoi rapporti, lo definiva un avvocatino intelligente e colto, che aveva “del tenero per le passeggiatine romantiche”.  Né, a ragion veduta, si possono biasimare gli estensori di tali rapporti, gente imbevuta di burocratismo, ma anche di solida praticità, e che ben capiva quanto divario passasse fra le idee mazziniane e la universale indifferenza del paese, godentesi la pace successa ad un ventennio di guerre. Del resto i contemporanei non sono mai in grado di distinguere e di apprezzare gli apostoli, i quali vengono compatiti come visionari, quando pure non vengono osteggiati come nemici del pubblico bene. Se così non fosse vero, i Giudei non avrebbero messo in croce Gesù Cristo, né il cristianesimo avrebbe trionfato. Se dobbiamo credere ad Alessandro Dumas, Mazzini avrebbe detto al Ramorino, in una discussione svoltasi fra loro durante la spedizione di Savoia: “ Non v’ha religione senza martiri; fondiamo la nostra, fosse pure col nostro sangue”[8] . Ma d’altra parte noi non potremmo onorare i precursori, quando essi non fossero appunto gli apostoli e gli antesignani di un pensiero incompreso e perseguitato.

Queste considerazioni valgono a porre nella sua giusta luce la grande medaglia d’oro conferita per decreto 10 ottobre 1821 da re Carlo Felice all’8° reggimento della brigata Cuneo per la fedeltà dimostrata negli avvenimenti politici del 1821. Essa reca nel retto il busto di Carlo Felice con una leggenda: Rex Carolus Felix Anno Regni I, e sotto A. Lavy, che è l’incisore. Nel verso, entro un cerchio che limita l’orlo, è la leggenda: Ceteris. Fidei signum, e sotto la data: Novariae: Mense Martii. Nel cerchio esterno le parole: Legio Cuneensis constantissima. La medaglia è diventata ormai molto rara e assai poche volte avviene di vederla ricordata nelle opere storiche sul 1821 (vedi tav. XXIX).

L’incomprensione storica può derivare molte volte dalla passione politica, che permette di valutare tutti gli aspetti di una situazione. Così, passando dalla rievocazione degli avvenimenti costituzionali del 1821 e i primi moti della “Giovine Italia”, si può, anzi si deve lodare l’audacia e la costanza di Mazzini nella organizzazione delle sue congiure e dei suoi tentativi unitari, ma lo storico non può, d’altra parte, non elevare il pensiero con gratitudine e con ammirazione ai soldati sardi che, fedeli al loro giuramento, gli ostacolarono il passo. Onore perciò anche oggi e sempre al maggiore nobile Adriano d’Onnier che venne decorato di medaglia d’oro il 3 febbraio 1834 per essersi spontaneamente messo alla testa del proprio distaccamento contro i fuoriusciti presso il ponte di Les Echelles a proteggere il carabiniere Scapaccino, che custodiva dentro la giubba al dispiaccio affidatogli dai superiori. Egli compì un atto di lodevole iniziativa militare, ed avrebbe anche potuto essere decorato con l’Ordine Militare di Savoia. Ma l’umile carabinieri a cavallo G.B. Scapaccino, addetto alla stazione dei RR. CC. di Les Echelles, che, circondato dai rivoluzionari, spronò a sangue il cavallo, e fermato da quei forsennati, come dice la motivazione della medaglia d’oro conferitagli, preferì “ farsi uccidere dai fuoriusciti – nelle mani dei quali era caduto – piuttosto che gridare Viva la repubblica, a cui volevano costringerlo, gridando invece Viva il Re!”, è un simbolo della patria, e non soltanto un fedelissimo assertore del proprio dovere. Anzi, egli è il simbolo della patria appunto perché è fedele al dovere e perché appartiene all’anonimo vulgus, alla massa dei soldati non distinti nei gradi o nella gerarchia sociale, a quella massa che nelle contingenze gravi fornisce la prova più sicura del grado di penetrazione che in essa hanno i sentimenti nobili e forti. Il grido di “ Viva la repubblica” era indubbiamente sedizioso perché il sentimento monarchico, nonostante le incertezze e le debolezze di Carlo Alberto nel 1821, e nonostante la severità e l’intransigenza del decennale governo di Carlo Felice, era profondamente radicato nella quasi totalità del Regno Sardo, e ancor più profondamente nel Piemonte. Solo una mentalità storica turbata dalla passione politica può ancora oggidì rimproverare a Carlo Alberto di essere stato dal ‘31 al ‘48 un Re assoluto, e solo una imperdonabile leggerezza di criterio può persistere nel giudicare la condotta di Carlo Alberto prima del 1848 alla stregua dei doveri propri di un sovrano costituzionale.

Fra il periodo dei moti rivoluzionari a scopo costituzionale e quelli mazziniani, i soldati sardi ebbero occasione di misurarsi in una gloriosa e purtroppo non sufficientemente nota azione di guerra, quella del 27-30 settembre 1825 contro il Bey di Tripoli, Jusuff Caramanlj, azione di non vasta portata certamente, ma di immenso valore morale, perché compiuta con fulminea  rapidità e audacia. Era sorta una controversia fra quel principe il console generale sardo cav. Foux per il pagamento di un regalo di 4000 pezzi duri; la controversia dei primi di giugno 1825 alla fine di settembre si inasprì per la prepotenza e per la villania del Bey, che il 27 settembre giunse a mandare al comandante Francesco Sivori, inviato dal governo sardo al comando di una squadra di 4 navi, una nota fortemente attaccante il decoro della corona sarda e pretendente che la Sardegna pagasse un annuo tributo. Il Sivori si rifiutò di trattare e rimessa perciò istantaneamente al console inglese la protezione dei sudditi sardi, si ritirò a bordo, dando al  Bey quattro ore di tempo per rientrare nei patti della convenzione del 1816, passate le quali, egli avrebbe incominciato le ostilità. Non pervenendo, allo scoccare dell’ora prescritta, nessuna risposta dal Bey, ed anzi le batterie di Tripoli incominciando verso sera del 27 febbraio (?) il fuoco, il comandante sardo iniziò la notte stessa i preparativi per la distruzione della flottiglia del pascià e per l’assalto dell’arsenale e del cantiere. Sferrato l’attacco a un’ora dopo mezzanotte del 28 settembre da parte del luogotenente di vascello Giorgio Mameli, andò in quattro ore precise distrutta buona parte del naviglio tripolino e fu ucciso il capitano con molti dei suoi uomini; precisamente le perdite tripoline furono di 60 morti e di 70 feriti, contro un morto e sei feriti sardi. Alle ore cinque le lancette egli uomini dell’equipaggio sardo erano di nuovo a bordo delle rispettive navi e stavano ancora compiacendosi del felicissimo risultato dell’impresa, allorché si presentò un brik da guerra olandese a porgere le felicitazioni proprie e del console britannico. Il capitano Sivori rispondeva ringraziando e invitando il Bey, se voleva trattare, a mandare un suo rappresentante a bordo della regia fregata sarda Il Commercio il che avvenne, e, presentandosi come mediatore il console inglese cav. Warrington, il Sivori dettò i patti, che il Bey accetto integralmente. In quell’attacco notturno lasciò la vita il nostromo Capurro salito per primo a bordo del brik tripolino, e si distinsero, oltre Mameli, il sottotenente d’artiglieria Tanca, quello del battaglione real navi Todon, le guardie-marina Persano, Malhaussena, Dodero, Tolosano, Di Negro, Roberti, Montegrandi, Villafalletto, e i luogotenenti di vascello Peletta, Ghigi, Bergagli, e Millelire, forse della stessa famiglia del prode sul cui il petto brillava la medaglia d’oro al valore conseguita per l’eroica impresa di Santo Stefano nel febbraio 1793. Oh, quali fremiti di legittimo ed Italico orgoglio debbono essere passati nel cuore di tutti questi prodi soldati del piccolo regno sabaudo allorché la mattina del 29 settembre 1825 lo stendardo reale sardo fu issato sul consolato, mentre le navi della piazza sparavano 29 colpi di cannone, e la divisione sarda a sua volta 21!… In verità, l’esercito che contava fra le sue file degli ufficiali così pronti e risoluti a tutelare l’onore della nazione, si dimostrava ben degno di abbracciare in un giorno non lontano, nelle sue file, i soldati dell’Italia intera, resa libera dallo straniero[9] .

Il Ministro di Guerra e Marina Des Geneys, nella sua relazione al Re, del 26 ottobre 1825, presentò proposta di ricompense le quali consistono tutte in promozioni e in conferimento di pensioni sulla già posseduta croce dei SS. Maurizio e Lazzaro, come per il Sivori, per il Mameli, per il Ghigi, oppure nella nomina a cavaliere dello stesso Ordine come per il Tanca, il Millelire, il Peletta. Per il secondo nocchiero Capurro, morto durante il combattimento, fu proposto che il di lui nome fosse mantenuto nei ruoli e chiamato nelle rassegne come se fosse presente. I funerali di questo prode furono fatti a spese del nemico, e il console inglese Warrington, alla presenza de’ militari olandesi e dei consoli esteri, volle stringere la mano al cadavere prima che fosse calato nella bara.

E degno di particolare nota, ai fini del nostro studio, l’osservare che nel 1825 non venne conferita alcuna distinzione nel Ordine Militare di Savoia, Né la vecchia medaglia al valore istituita da Vittorio Amedeo III e continuata da Carlo Emanuele IV, il che lascia concludere che essa fosse del tutto caduta in disuso e che all’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro si attribuisce il valore di vera e propria ricompensa al valore, nonché quello di un riconoscimento, non però eccelso, di qualità strategiche e di comandante. Ma può anche presumersi che Carlo felice, nel premiare quegli ufficiali, intendesse conferire loro notevoli vantaggi economici.

Non doveva essere senza il sacrificio di molto sangue il proseguire la tradizione di tanto valore fino al compimento dell’unità italiana. Infatti, basta scorrere l’elenco dei decorati di medaglia al valore nelle campagne dell’indipendenza e considerare il fatto che nella sola guerra del 1848 vennero conferite ben 20 medaglie d’oro al valore e 5 nella brevissima campagna del 1849 durata pochi giorni, per misurare l’entità dell’immane sforzo compiuto dagli italiani che seguivano il Re martire, fattosi “ spada d’Italia” [10]

Il ’48-’49 fu certamente il periodo della grande prova del Regno di Sardegna e dell’Italia anelante a libertà. Il nuovo Re Vittorio Emanuele sentì profondamente il valore nazionale di quella prova in cui aveva egli stesso, col fratello Ferdinando Duca di Genova, meritato una medaglia d’oro, e appena salito al trono istituì la medaglia commemorativa per i veterani del 1848-49,  medaglia che per decreto reale del 4 marzo 1865 venne poi cambiata con quella della guerra dell’indipendenza ed unità d’Italia ( vedi tav. XXX). Ma la piccola medaglia dei veterani del ’48-’49, recante nel retto le teste accollate di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, brillò sul petto dei valorosi che parteciparono sei anni dopo alla guerra di Crimea e poi a quelle del 1859 e del 1860-61; essa fu il simbolo della continuità non solo degli sforzi, ma degli ideali e dei propositi che si riaffermarono nelle successive campagne del 1866 e del 1870. A queste ultime parteciparono molti di coloro che nel 1859 avevano ricevuto da Napoleone III, la medaglia commemorativa francese delle campagne d’Italia, che la collezione milanese possiede anche nel raro esemplare del primo tipo, sormontata dalla corona imperiale (vedi tav. XXXI). A nessuno di loro fu invece dato partecipare alla prima campagna d’Africa che portò la bandiera e la civiltà italiana oltre i confini della patria, anzi moltissimi di essi erano già scesi nel sepolcro. Ma il “Re buono” colui che doveva giacere per ferro italiano nel puro sangue vermiglio e  che aveva fecondato la messe della redenzione dal Quadrato di Villafranca alla breccia di Porta Pia, volle che la sua immagine figurasse nel retto della medaglia commemorativa delle campagne d’Africa. Egli aveva la grande iride grigia, dolce e imperiosa, in cui era la quieta limpidità del cielo lombardo, ma dentro il cuore portava come una effusa tenerezza paterna. Perciò non stona la corona leale con cui si fece ritrarre, come ad affermare volontà ed auspicio di più solide e vitali conquiste. E fu lo stesso Re Umberto I che, prima di morire, volle coniata un’altra volta la medaglia della unità d’Italia per le campagne dal 1848 al 1870 (vedi tavole XXX e XXXI). Ma il successore, il Re di Vittorio Veneto, raccogliendo nel sangue del Padre suo la corona, come l’Avo suo l’aveva cinta nella tragica e sanguinosa notte di Novara, iniziò egli pure il suo regno coniando la medaglia-ricordo di una nuova campagna, quella di Cina (1900-1901) (vedi tav. XXXI) nella quale gli Italiani ingrandirono ancor di più nella stima delle potenze europee, accorse a difendere in quelle lontane contrade il prestigio della civiltà. Anche per questo generoso contributo ad imprese di interesse internazionale poté ognor più consolidarsi l’Italia, a formar la quale avevano concorso la saggezza e il valore dell’antico Regno sardo, uniti al coraggio, alla volontà di redenzione di tutti gli altri popoli d’Italia e tesoreggiando il fascino e il genio guerresco di Garibaldi, l’apostolato di Mazzini, e il frutto dei conati rivoluzionari dal 1821 in poi. E quando all’indomani della vittoriosa guerra di Tripoli, l’ora delle nuove rivendicazioni nazionali suonò nel maggio del 1815, e si dovettero allargare oltre ogni misura prevista i ranghi dei decorati al valore e dei decorati di medaglie, di croci e di ricompense militare di ogni natura, fu certo immensa la gioia del Re Vittorioso nel rinnovare quella stessa medaglia dell’unità d’Italia, che per primo, e come seguendo  auspici infallibili, Vittorio Emanuele II aveva istituita, e che Umberto I aveva riconfermato in un epoca oscura per travaglio nazionale, tra il galleggiare  e l’urtarsi dei detriti, che seguono sempre le ore della storia. Liberata dalla rivoluzione fascista l’aquila antica di Roma, essa, balenando il diritto e l’imperio, stenderà la larghezza delle sue ali sul Mediterraneo, rifatto ancora una volta mare nostro e le antiche medaglie brilleranno al sole di nuove vittorie italiane.


[1]MINISTERO DELLA MARINA – UFFICIO STORICO DEL CORPO DI S.M. .  Capitano di corvetta Luigi Castagni: “Le medaglie d’oro della R. Marina al valor militare”. – Roma, 1926. Pag 7 e segg

[2]PINELLI  FERDINANDO: “Storia militare del Piemonte”. Torino, 1854. Volume I, pag. 694

[3]Il von Heyden ne numera erroneamente tre.

[4]Vol. II, pag 476

[5]Si vedano in generale gli studi mazziniani di A. Luzio e il volume di E. Passamonti sui “Processi politici del 1833”. Firenze. Le Monnier, 1930

[6]L’esemplare appartenente al Museo del risorgimento di Milano è munito di nastro coi colori verde e bianco alternati, in palo, il che smentirebbe il von Heyden che attribuisce alla decorazione i colori turchino e bianco.

[7]Si veda anche: Brancaccio, Giraud, Griffini, Salamano: “Le medaglie d’oro al valor militare”. – Torino, 1925

[8]A. DUMAS: “Memorie di Garibaldi” . – Sonzogno. Milano, 1882. Pag. 42.

[9]Si veda: ten. Col. G. Ferrari: “La spedizione della marina sarda a Tripoli nel 1825” in “Memorie storiche militari”, 1912.

[10]In ordine cronologico essi furono: cap. Saverio Griffini, soldato Luigi Serravalle, maggiore Alessandro Filippa, luogotenente Gioacchino Bellezza, sottotenente Amedeo Carisio, gen. Michele Bes e Cesare De Laugier. il principe ereditario Vittorio Emanuele di Savoia, col. Ferdinando Maffei Di Boglio, magg. Massimiliano di S. Vitale, magg. Ardingo Trotti, gen. Carlo Menthon d’Aviernoz, col. Gio. Francesco Mollard, col. Luigi Damiano, col. Paolo Solaroli, cap. Enrico Cerale, luogoten. Prospero Balbo di Vinadio, il duca di Genova Ferdinando di Savoia, cap. Andrea Adolfo Campana, luogoten. Bernardo Ugo