Dieci anni senza naja

  
10 anni senza naia

 

Dieci anni or sono il Parlamento decise di sospendere il servizio di leva obbligatorio passando al servizio militare professionista. Ero e sono contrario a questa decisione in quanto ritenevo più opportuno costituire Forze Armate a doppio profilo, professionista e di leva, in modo da contenere gli alti costi derivanti non solo dagli oneri del personale (stipendi – lavoro straordinario) ma anche dall’inevitabile utilizzo di personale esterno per far fronte alle esigenze di carattere logistico, come ad esempio la confezione del vitto e la pulizia delle infrastrutture. Devo però ammettere che la decisione è stato un atto di giustizia verso coloro che optavano per il servizio di leva in quanto erano estremamente penalizzati nei confronti di coloro che prestavano servizio civile: lontani da casa, vita in caserma con note restrizioni, servizi vari.

La mia personale esperienza professionale mi consentirebbe di scrivere un trattato sull’argomento specifico, mi limito a riportare un commento che un amico cardiologo fece in occasione del funerale del giovane figlio di un altro amico, deceduto durante il sonno per una malformazione cardiaca “Aver eliminato la leva, con tutti gli accertamenti sanitari che venivano effettuati, ci priva di uno screening fondamentale sulla salute dei nostri giovani, specie nel campo cardiologico e urologico”.

Su “La Stampa” di oggi c’è un commento che mi sembra interessante e che ripropongo

 

Ricorre in questi giorni il decimo anniversario della sospensione del servizio di leva obbligatorio. Molti pensano che sospendere la naia sia stato un grande bene. La naia, dicono, era tempo perso, non insegnava niente e sprecava una parte preziosa della vita, la parte più energica, più volitiva, più formativa. Mi sia permesso contraddirli. Solo per dire che il servizio militare, con tutti i malanni che portava con sé, portava anche dei meriti, che non sempre venivano visti e apprezzati. A me la naia ha insegnato molte cose. 

Prima di tutto, che cos’è lo Stato. Che cos’è lo Stato, lo Stato concreto, quello in cui vivo io, non me l’ha insegnato Platone, con la sua pòlis governata dai filosofi (dov’è?), non Hegel (lo Stato porta una morale moderna mentre la famiglia è impiantata su una morale arcaica, se ti trovi a scegliere tra famiglia e Stato devi scegliere lo Stato, quindi Antigone ha torto), e neanche il Vangelo (“date a Cesare…”): che cos’è lo Stato me l’ha insegnato il servizio militare. Si partiva per il servizio militare e dall’estremo Nord ci sbattevano all’estremo Sud.  

Era un rimescolamento di razze e di lingue, come quello che Tito usò per fare la Jugoslavia unita. Se eri un soldato semplice, capitavi al Car, Centro Addestramento Reclute, tu piemontese o lombardo o veneto insieme con sardi e pugliesi. Facevi subito esperienze inaudite. Distribuivano le lenzuola, e c’eran figli di pastori che domandavano cosa sono e a cosa servono. Idem per la carta igienica, mai vista prima. Si dormiva in grandi camerate, i fucili venivan deposti al centro sulla rastrelliera, dritti in su, ma di notte qualche soldato si metteva la baionetta sotto il cuscino, perché non si sa mai. Dovevi adattarti a una gerarchia che cominciava da zero. Col passare delle settimane e dei mesi, qualcuno veniva scremato e saliva di grado, tu non l’avevi notato ma i superiori sì. Se avevi qualche qualità, per esempio eri fatto per guidare, ti dirottavano alla scuola guida. Un’istituzione vasta, come l’esercito, si regge sull’obbedienza, se non c’è obbedienza si sfascia. Il vero trauma della naia era l’obbedienza. Kubrick ha dedicato un film a questo tema, come si fa di un giovane borghese un marine per il Vietnam. Ignazio di Loyola pensò di applicare il principio dell’obbedienza a un’istituzione religiosa.  

L’obbedienza ha un prezzo psichico enorme, non c’è soldato che, una volta congedato, non ricordi per filo e per segno le volte in cui ha dovuto obbedire anche se era assurdo. Ti staccavi a vent’anni dalla famiglia, dove padre e madre diventavan pazzi per assicurarti la felicità, ti trovavi fra sconosciuti di tutt’Italia e dovevi «arrangiarti», «cavartela». Se in ufficio, in fabbrica, a scuola, in azienda, fra tanti ex-soldati di leva c’era qualcuno che non aveva fatto il servizio militare, c’era sempre qualche superiore che commentava: «Si vede». Nella naia nascevano amicizie che non morivano più. Gli ex-compagni di camerata continuavano a informarsi sulla vita dei colleghi, e tra le ragioni ce n’era anche una che loro non capivano, ed era questa. Ognuno esponeva sull’armadietto la foto della propria ragazza, c’era sempre chi s’innamorava della ragazza del vicino e poi, congedato, andava a trovarlo non per incontrare lui, ma per incontrare lei. Non ci riusciva mai. O, se ci riusciva, era tardi. La naia era anche questo, e forse soprattutto questo: una fusione collettiva degli amori dei ventenni. Non c’è niente di uguale nel mondo borghese. Allora si amava e si cresceva «per generazioni», adesso si ama e si cresce ognun per sé. Adesso l’unico collegamento generazionale è via Internet. Ma la differenza tra quegli amori e quelli d’Internet è la differenza tra donne di carne e donne di carta. 

 Ferdinando Camon (La Stampa 24/08/2014)